E’ il suo Amore che vince la morte e ci dona l’eternità,
ed è questo amore che chiamiamo «cielo»:
Dio è così grande da avere posto anche per noi.
Questo vuol dire che di ciascuno di noi
non continuerà ad esistere solo una parte che ci viene,
per così dire, strappata, mentre altre vanno in rovina;
vuol dire piuttosto che Dio conosce ed ama tutto l’uomo,
ciò che noi siamo.
E Dio accoglie nella Sua eternità ciò che ora,
nella nostra vita, fatta di sofferenza e amore,
di speranza, di gioia e di tristezza, cresce e diviene.
Tutto l’uomo, tutta la sua vita viene presa da Dio
ed in Lui purificata riceve l’eternità.
Il Cristianesimo non annuncia solo una qualche salvezza
dell’anima in un impreciso al di là,
nel quale tutto ciò che in questo mondo
ci è stato prezioso e caro verrebbe cancellato,
ma promette la vita eterna,
«la vita del mondo che verrà»:
niente di ciò che ci è prezioso e caro andrà in rovina,
ma troverà pienezza in Dio.
Benedetto XVI, Omelia per l'Assunta 15 agosto 2010
Gv 6,37-40
In quel tempo, Gesù disse alla folla: “Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno”.
IL COMMENTO
Avere lo sguardo immerso in Lui. Il Cielo, la vita oltre la morte. Contemplarlo, e non staccare gli occhi da Lui. Eternamente. I nostri cari, che oggi ricordiamo e per i quali preghiamo, ci hanno preceduto per questa visione. Come quando ti innamori e non smetteresti mai di guardare chi ti ha rapito il cuore. E ne scrivi il nome sul diario, tieni la foto nel portafoglio, e la guardi e la riguardi. E quando ci sei insieme ne vieni preso a tal punto che gli occhi, e con loro tutto te stesso, si ritrovano incollati al suo viso, al suo profilo, alle sue mani, ai suoi occhi, alle sue labbra, alle sue parole. Sì, ti sembra di vederle le sue parole, ti giungono vive e ti danno vita, e gioia, e pace, e desiderio di stare insieme, per sempre. Ecco, così dev'essere il Cielo, e molto di più, e non ce lo possiamo immaginare se non solo attraverso quel che viviamo.
Ed è giusto che sia così, dal momento che Dio si è fatto uomo perchè potessimo conoscerlo e vederlo. Perchè il nostro destino eterno si gioca tutto in uno sguardo, disteso su tutta la vita. Vedere il Signore e credere in Lui: La porta del Cielo. Contemplarlo nelle nostre giornate, saperlo vivo, sperimentarne l'amore e la misericordia. Vedere Gesù oggi è il cammino alla vita celeste. Vederlo come lo vide la Samaritana al pozzo di Giacobbe, nell'ora più calda del giorno, il sole a picco e non si può scappare. Le parole di Gesù a trafiggerle l'anima, la vita srotolata alla luce della Sua voce. La verità, parole di verità e vita, e pace, quella che proviene dal sapersi conosciuti sino in fondo, e per questo amati e accolti, perdonati e santificati.
Vedere Gesù è ascoltarlo raccontarci la nostra vita alla luce del Suo amore. E' "vedere" l'Unico che ci conosce davvero. E ci ama, e sapere che nulla di noi andrà perduto, perchè le Sue mani trapassate dai nostri peccati ci tengono stretti a Lui. Per sempre. Vedere oggi Gesù e credere in Lui è allora la Vita eterna, è l'incontro con Colui per il quale siamo nati ed esistiamo. Vederlo nelle nostre ore, negli eventi che si succedono. Vederlo è ascoltarne la Parola, vera e che si compie nella nostra vita. Vederlo e credere è lasciarci amare. Vederlo in famiglia, al lavoro, a scuola, tra gli amici. Giungere al fondo di ogni umana speranza, scendere laddove non si comprende nulla, nella morte di ogni ragione, dove tutto sembra congiurare contro la logica e vedere il Signore. "Beati i puri di cuore perchè vedranno Dio": ogni giorno la storia donata dal Padre ci purifica come in un "purgatorio anticipato" perchè i nostri occhi, carnali e spirituali, siano capaci di contemplarlo. Ogni evento, ogni persona, tutto quello oggi ci umilia e ci strappa di dosso armature e difese, ci purifica nel crogiuolo come l'oro. E' il suo amore che si incarna in ogni secondo della nostra vita; amore geloso di noi e della sua stessa opera, perchè possiamo sperimentare che nulla e nessuno potrà mai separarci dal suo amore. Questo è il Cielo, la vita eterna qui ed ora: non perdere mai la pace, in nessuna circostanza. Quando ciò avviene siamo introdotti nella cella del vino, nell'intimità di DIo, nel cuore di Cristo. Laddove la morte si avventa fercoe su di noi si dischiudono le braccia di misericordia del Signore: nulla di noi verrà mai perduto, ma sarà trasfigurato nel suo amore. Vederlo accanto a noi, indossare gli abiti dei fratelli che ci annunciano la Parola, angeli e profeti della Notizia che può cambiare, anche oggi, la nostra vita.
L'amore di Dio riversato nei nostri cuori rende la nostra speranza incrollabile. L'unica speranza che non delude. Il Suo amore, la Sua misericordia. Lui. In questo hanno sperato i nostri cari, e non ne sono stati delusi. Il Cielo celebriamo quest'oggi, nostra patria comune. E se qualcuno dei nostri non dovesse aver sperato in questa vita, se ancora qualcosa avesse bisogno di purificazione, oggi preghiamo per lui, attingendo ai meriti dei Santi, della Vergine Maria. Aggrappandoci, confidenti, alla misericordia di Dio nel Suo Figlio e nostro Signore. Siamo Suoi, la volontà del Padre è che nulla di noi, e nessuno di noi vada perduto. Con Dio non si butta nulla. Tutto è trasformato nella fornace del Suo amore. Ed ogni istante di noi profuma di vita eterna, perchè immerso, istante dopo istante, nella Sua misericordia. Stretti a Lui, insieme con tutti i nostri cari che ci hanno preceduto, camminiamo verso la pienezza di vita che ci attende.
BENEDETTO XVI. "IL FATTO DELLA RISURREZIONE".
Omelia per la Solennità dell'Assunta, 15 agosto 2010.
San Paolo, nella seconda lettura di oggi, ci aiuta a gettare un po’ di luce su questo mistero partendo dal fatto centrale della storia umana e della nostra fede: il fatto, cioè, della risurrezione di Cristo, che è «la primizia di coloro che sono morti». Immersi nel Suo Mistero pasquale, noi siamo resi partecipi della sua vittoria sul peccato e sulla morte. Qui sta il segreto sorprendente e la realtà chiave dell’intera vicenda umana. San Paolo ci dice che tutti siamo «incorporati» in Adamo, il primo e vecchio uomo, tutti abbiamo la stessa eredità umana alla quale appartiene: la sofferenza, la morte, il peccato. Ma a questa realtà che noi tutti possiamo vedere e vivere ogni giorno aggiunge una cosa nuova: noi siamo non solo in questa eredità dell’unico essere umano, incominciato con Adamo, ma siamo «incorporati» anche nel nuovo uomo, in Cristo risorto, e così la vita della Risurrezione è già presente in noi. Quindi, questa prima «incorporazione» biologica è incorporazione nella morte, incorporazione che genera la morte. La seconda, nuova, che ci è donata nel Battesimo, è ««incorporazione» che da la vita. Cito ancora la seconda Lettura di oggi; dice San Paolo: «Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. » (1Cor 15, 21-24).
Ora, ciò che san Paolo afferma di tutti gli uomini, la Chiesa, nel suo Magistero infallibile, lo dice di Maria, in un modo e senso precisi: la Madre di Dio viene inserita a tal punto nel Mistero di Cristo da essere partecipe della Risurrezione del suo Figlio con tutta se stessa già al termine della vita terrena; vive quello che noi attendiamo alla fine dei tempi quando sarà annientato «l’ultimo nemico», la morte (cfr 1Cor 15, 26); vive già quello che proclamiamo nel Credo «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».
Allora ci possiamo chiedere: quali sono le radici di questa vittoria sulla morte prodigiosamente anticipata in Maria? Le radici stanno nella fede della Vergine di Nazareth, come testimonia il brano del Vangelo che abbiamo ascoltato (Lc 1,39-56): una fede che è obbedienza alla Parola di Dio e abbandono totale all’iniziativa e all’azione divina, secondo quanto le annuncia l’Arcangelo. La fede, dunque, è la grandezza di Maria, come proclama gioiosamente Elisabetta: Maria è «benedetta fra le donne», «benedetto è il frutto del suo grembo» perché è «la madre del Signore», perché crede e vive in maniera unica la «prima» delle beatitudini, la beatitudine della fede. Elisabetta lo confessa nella gioia sua e del bambino che le sussulta in grembo: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (v. 45). Cari amici! Non ci limitiamo ad ammirare Maria nel suo destino di gloria, come una persona molto lontana da noi: no! Siamo chiamati a guardare quanto il Signore, nel suo amore, ha voluto anche per noi, per il nostro destino finale: vivere tramite la fede nella comunione perfetta di amore con Lui e così vivere veramente.
A questo riguardo, vorrei soffermarmi su un aspetto dell’affermazione dogmatica, là dove si parla di assunzione alla gloria celeste. Noi tutti oggi siamo ben consapevoli che col termine «cielo» non ci riferiamo ad un qualche luogo dell’universo, a una stella o a qualcosa di simile: no. Ci riferiamo a qualcosa di molto più grande e difficile da definire con i nostri limitati concetti umani. Con questo termine «cielo» vogliamo affermare che Dio, il Dio fattosi vicino a noi non ci abbandona neppure nella e oltre la morte, ma ha un posto per noi e ci dona l’eternità; vogliamo affermare che in Dio c’è un posto per noi. Per comprendere un po’ di più questa realtà guardiamo alla nostra stessa vita: noi tutti sperimentiamo che una persona, quando è morta, continua a sussistere in qualche modo nella memoria e nel cuore di coloro che l’hanno conosciuta ed amata. Potremmo dire che in essi continua a vivere una parte di questa persona, ma è come un’«ombra» perché anche questa sopravvivenza nel cuore dei propri cari è destinata a finire. Dio invece non passa mai e noi tutti esistiamo in forza del Suo amore. Esistiamo perché egli ci ama, perché egli ci ha pensati e ci ha chiamati alla vita. Esistiamo nei pensieri e nell’amore di Dio. Esistiamo in tutta la nostra realtà, non solo nella nostra «ombra». La nostra serenità, la nostra speranza, la nostra pace si fondano proprio su questo: in Dio, nel Suo pensiero e nel Suo amore, non sopravvive soltanto un’«ombra» di noi stessi, ma in Lui, nel suo amore creatore, noi siamo custoditi e introdotti con tutta la nostra vita, con tutto il nostro essere nell’eternità.
E’ il suo Amore che vince la morte e ci dona l’eternità, ed è questo amore che chiamiamo «cielo»: Dio è così grande da avere posto anche per noi. E l’uomo Gesù, che è al tempo stesso Dio, è per noi la garanzia che essere-uomo ed essere-Dio possono esistere e vivere eternamente l’uno nell’altro. Questo vuol dire che di ciascuno di noi non continuerà ad esistere solo una parte che ci viene, per così dire, strappata, mentre altre vanno in rovina; vuol dire piuttosto che Dio conosce ed ama tutto l’uomo, ciò che noi siamo. E Dio accoglie nella Sua eternità ciò che ora, nella nostra vita, fatta di sofferenza e amore, di speranza, di gioia e di tristezza, cresce e diviene. Tutto l’uomo, tutta la sua vita viene presa da Dio ed in Lui purificata riceve l’eternità. Cari Amici! Io penso che questa sia una verità che ci deve riempire di gioia profonda. Il Cristianesimo non annuncia solo una qualche salvezza dell’anima in un impreciso al di là, nel quale tutto ciò che in questo mondo ci è stato prezioso e caro verrebbe cancellato, ma promette la vita eterna, «la vita del mondo che verrà»: niente di ciò che ci è prezioso e caro andrà in rovina, ma troverà pienezza in Dio. Tutti i capelli del nostro capo sono contati, disse un giorno Gesù (cfr Mt 10,30). Il mondo definitivo sarà il compimento anche di questa terra, come afferma san Paolo: «la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Allora si comprende come il cristianesimo doni una speranza forte in un futuro luminoso ed apra la strada verso la realizzazione di questo futuro. Noi siamo chiamati, proprio come cristiani, ad edificare questo mondo nuovo, a lavorare affinché diventi un giorno il «mondo di Dio», un mondo che sorpasserà tutto ciò che noi stessi potremmo costruire. In Maria Assunta in cielo, pienamente partecipe della Risurrezione del Figlio, noi contempliamo la realizzazione della creatura umana secondo il «mondo di Dio».
Preghiamo il Signore affinché ci faccia comprendere quanto è preziosa ai Suo occhi tutta la nostra vita; rafforzi la nostra fede nella vita eterna; ci renda uomini della speranza, che operano per costruire un mondo aperto a Dio, uomini pieni di gioia, che sanno scorgere la bellezza del mondo futuro in mezzo agli affanni della vita quotidiana e in tale certezza vivono, credono e sperano.
DALL'OMELIA PASQUALE DI MELITONE DI SARDI
"Il Signore pur essendo Dio, si fece uomo e soffrì per chi soffre, fu prigioniero per il prigioniero, condannato per il colpevole e, sepolto per chi è sepolto, suscitò dai morti e gridò questa grande parola: "Chi è colui che mi condannerà? Si avvicini a me" (Is 50,8). Io, dice, sono Cristo che ho distrutto la morte, che ho vinto il nemico, che ho messo sotto i piedi l'inferno, che ho imbrigliato il forte e ho levato l'uomo alle sublimità del cielo; io, dice, sono il Cristo.
Venite, dunque, o genti tutte, oppresse dai peccati e ricevete il perdono. Sono io, infatti, il vostro perdono, io la Pasqua della redenzione, io l'Agnello immolato per voi, io il vostro lavacro, io la vostra vita, io la vostra risurrezione, io la vostra luce, io la vostra salvezza, io il vostro re. Io vi porto in alto nei cieli. Io vi risusciterò e vi farò vedere il Padre che è nei cieli. Io vi innalzerò con la mia destra.
Egli scese dai cieli sulla terra per l'umanità sofferente; si rivestì della nostra umanità nel grembo della Vergine e nacque come uomo. Prese su di sé le sofferenze dell'uomo sofferente attraverso il corpo soggetto alla sofferenza, e distrusse le passioni della carne. Con lo Spirito immortale distrusse la morte omicida.
Egli infatti fu condotto e ucciso dai suoi carnefici come un agnello, ci liberò dal modo di vivere del mondo come dall'Egitto, e ci salvò dalla schiavitù del demonio come dalla mano del Faraone. Contrassegnò le nostre anime con il proprio Spirito e l le membra del nostro corpo con il suo sangue.
Egli è colui che coprì di confusione la morte e gettò nel pianto il diavolo, come Mosè il faraone. Egli è colui che percosse l'iniquità e l'ingiustizia, come Mosè condannò alla sterilità l'Egitto.
Egli è colui che ci trasse dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno. Ha fatto di noi un sacerdozio nuovo e un popolo eletto per sempre. Egli è la Pasqua della nostra salvezza.
Egli è colui che prese su di se le sofferenze di tutti. Egli è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe, e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Mosè e nell'agnello fu sgozzato.
Fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato.
Egli è colui che si incarnò nel seno della Vergine, fu appeso alla croce, fu sepolto nella terra e risorgendo dai morti, salì alle altezze dei cieli. Egli è l'agnello che non apre bocca, egli è l'agnello ucciso, egli è nato da Maria, agnella senza macchia. Egli fu preso dal gregge, condotto all'uccisione, immolato verso sera, sepolto nella notte. Sulla croce non gli fu spezzato osso e sotto terra non fu soggetto alla decomposizione
Egli risuscitò dai morti e fece risorgere l'umanità dal profondo del sepolcro".
Moriamo insieme a Cristo, per vivere con lui
Dal libro «Sulla morte del fratello Satiro» di sant'Ambrogio, vescovo
(Lib. 2, 40.41.46.47.132.133; CSEL 73, 270-274, 323-324)
Dobbiamo riconoscere che anche la morte può essere un guadagno e la vita un castigo. Perciò anche san Paolo dice: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1, 21). E come ci si può trasformare completamente nel Cristo, che è spirito di vita, se non dopo la morte corporale?
Esercitiamoci, perciò, quotidianamente a morire e alimentiamo in noi una sincera disponibilità alla morte. Sarà per l'anima un utile allenamento alla liberazione dalle cupidigie sensuali, sarà un librarsi verso posizioni inaccessibili alle basse voglie animalesche, che tendono sempre a invischiare lo spirito. Così, accettando di esprimere già ora nella nostra vita il simbolo della morte, non subiremo poi la morte quale castigo. Infatti la legge della carne lotta contro la legge dello spirito e consegna l'anima stessa alla legge del peccato. Ma quale sarà il rimedio? Lo domandava già san Paolo, dandone anche la risposta: «Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7, 24). La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore (cfr. Rm 7, 25 ss.).
Abbiamo il medico, accettiamo la medicina. La nostra medicina è la grazia di Cristo, e il corpo mortale è il corpo nostro. Dunque andiamo esuli dal corpo per non andare esuli dal Cristo. Anche se siamo nel corpo cerchiamo di non seguire le voglie del corpo.
Non dobbiamo, è vero, rinnegare i legittimi diritti della natura, ma dobbiamo però dar sempre la preferenza ai doni della grazia.
Il mondo è stato redento con la morte di uno solo. Se Cristo non avesse voluto morire, poteva farlo. Invece egli non ritenne di dover fuggire la morte quasi fosse una debolezza, né ci avrebbe salvati meglio che con la morte. Pertanto la sua morte è la vita di tutti. Noi portiamo il sigillo della sua morte; quando preghiamo la annunziamo; offrendo il sacrificio la proclamiamo; la sua morte è vittoria, la sua morte è sacramento, la sua morte è l'annuale solennità del mondo.
E che cosa dire ancora della sua morte, mentre possiamo dimostrare con l'esempio divino che la morte sola ha conseguito l'immortalità e che la morte stessa si è redenta da sé? La morte allora, causa di salvezza universale, non è da piangere. La morte che il Figlio di Dio non disdegnò e non fuggì, non è da schivare.
A dire il vero, la morte non era insita nella natura, ma divenne connaturale solo dopo. Dio infatti non ha stabilito la morte da principio, ma la diede come rimedio. Fu per la condanna del primo peccato che cominciò la condizione miseranda del genere umano nella fatica continua, fra dolori e avversità. Ma si doveva porre fine a questi mali perché la morte restituisce quello che la vita aveva perduto, altrimenti, senza la grazia, l'immortalità sarebbe stata più di peso che di vantaggio.
L'anima nostra dovrà uscire dalle strettezze di questa vita, liberarsi delle pesantezze della materia e muovere verso le assemblee eterne.
Arrivarvi è proprio dei santi. Là canteremo a Dio quella lode che, come ci dice la lettura profetica, cantano i celesti sonatori d'arpa: «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente; giuste e veraci le tue vie, o Re delle genti. Chi non temerà, o Signore, e non glorificherà il tuo nome? Poiché tu solo sei santo. Tutte le genti verranno e si prostreranno dinanzi a te» (Ap 15, 3-4).
L'anima dovrà uscire anche per contemplare le tue nozze, o Gesù, nelle quali, al canto gioioso di tutti, la sposa è accompagnata dalla terra al cielo, non più soggetta al mondo, ma unita allo spirito: «A te viene ogni mortale» (Sal 64, 3).
Davide santo sospirò, più di ogni altro, di contemplare e vedere questo giorno. Infatti disse: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore» (Sal 26, 4).
Sono risorto e ora sono sempre con te, ci dice il Signore, e la mia mano ti sorregge.
Ovunque tu possa cadere, cadrai nelle mie mani
e sarò presente persino alla porta della morte.
Dove nessuno può più accompagnarti e dove tu non puoi portare niente,
là io ti aspetto per trasformare per te le tenebre in luce.
Benedetto XVI
Gv 6, 37-40
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Commento
Molto più di un semplice ricordo, la memoria è un’intimità che supera tempo e spazio, il «memoriale» che nella Scrittura giunge a diventare «il presente del passato» (S. Agostino). Quando Israele racconta e celebra gli eventi della sua storia, non resta spettatore sulla loro soglia. Li accoglie compiuti di nuovo nel suo presente mentre è chiamato a farsi contemporaneo di chi li ha vissuti in presa diretta. Come in un appuntamento d’amore, Israele ha incontrato Dio nella memoria del suo agire fedele e misericordioso, imparando ad affidarsi a Lui come un figlio a suo padre. Gesù ha dato compimento all’esperienza del suo Popolo. «Disceso dal cielo» sulla terra, ha vissuto unito al Padre nella memoria della sua volontà, facendone il suo presente dove offrirsi in riscatto per l’umanità. Vi è entrato accogliendo ogni uomo che il Padre gli ha «dato», nessuno escluso, prendendo ciascuno con sé nel suo passaggio dalla morte alla vita.
«Fate questo in memoria di me»: nel cuore della nostra vita il Signore ha deposto la sua memoria. Siamo chiamati a sperimentare nella storia di ogni giorno la Pasqua che celebriamo. A fare della nostra esistenza una memoria costante di Lui e della sua vita, perché il nostro presente ne diventi un riflesso glorioso. A «vedere» il Signore come lo hanno contemplato i discepoli la sera di Pasqua, riconoscendolo dai segni del suo amore per loro. È nel perdono dei peccati che possiamo «vedere» il Signore, e in Lui il volto misericordioso del Padre, origine e destino della vita di ogni uomo. Come è accaduto al figlio prodigo, solo nel riaccendersi della memoria della casa paterna, infatti, si può cominciare a «credere» per vivere ogni giorno come un ritorno, una conversione verso la nostra dimora. Si può desiderare solo ciò che si è conosciuto. Radicati nell’esperienza di non essere stati mai «gettati fuori» ma sempre riaccolti con misericordia, possiamo «credere» in Cristo e sperare il Cielo e la risurrezione nell’ultimo giorno, per noi e per i nostri cari. Li «commemoriamo» oggi, celebrando per loro e con loro il «memoriale della nostra salvezza», la Pasqua del Signore che attira ogni vita nel presente eterno del suo amore, dove nulla di noi va perduto.
Nessun commento:
Posta un commento