Vangelo
Luca 19,11-28
In quel tempo, Gesù disse una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. Disse dunque: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: “Fatele fruttare fino al mio ritorno”. Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: “Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi”. Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato. Si presentò il primo e disse: “Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci”. Gli disse: “Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città”. Poi si presentò il secondo e disse: “Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque”. Anche a questo disse: “Tu pure sarai a capo di cinque città”. Venne poi anche un altro e disse: “Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato”. Gli rispose: “Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi”. Disse poi ai presenti: “Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci”. Gli risposero: “Signore, ne ha già dieci!”. “Io vi dico: A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me”». Dette queste cose, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme.
Lettura
Gesù è ormai vicino a Gerusalemme, dove instaurerà definitivamente il suo Regno. A chi pensava che il Regno di Dio fosse imminente, Gesù racconta una parabola attraverso la quale riconosce sì che il Regno viene, ma solo passando attraverso l’odio e il rifiuto del Re. È un annuncio velato della sua Passione, ma anche della definitiva sconfitta dei suoi nemici. Gesù chiede di non restare inoperosi di fronte alla venuta del Regno. Con il racconto delle monete d’oro fatte fruttare, esorta i suoi ad essere protagonisti attivi nel Regno, poiché a tutti Dio dà e da tutti Dio richiede.
Meditazione
La costruzione del Regno di Dio è opera di Dio, ma richiede anche la nostra piena collaborazione. Gesù, pur essendo vincitore sul maligno, sul peccato e sulla morte, incontrerà sempre nel percorso di crescita del suo Regno coloro che lo odieranno. Ci sembra così assurdo, eppure il fascino del male seduce e acceca gli uomini, tanto da renderli ottusi anche di fronte alla verità. Dopo il suo ingresso in Gerusalemme, nell’ora del Getsemani Gesù dirà ai suoi apostoli: «Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione» (Lc 22,46). Il sonno è la tiepidezza spirituale, l’accidia che ci rallenta nella nostra corsa verso la meta e il premio (cfr. Fil 3,12-14). Chi si è addormentato su se stesso non costruisce il Regno. Il re della parabola affida ai suoi servi i beni del suo regno, chiedendo loro espressamente di moltiplicarli. Noi siamo i fiduciari di Dio, coloro ai quali Dio non disdegna di elargire i suoi beni. Chi di noi sarebbe disposto ad affidare le sue ricchezze a gente senza scrupoli? Eppure Dio a tutti i suoi figli ha donato la vita, per tutti ha sacrificato il suo Figlio, su tutti elargisce costantemente il suo amore, a ciascuno affida un’infinità di doni. Cosa ne facciamo di tutti questi beni? Come investiamo il tempo che il Signore ogni giorno ci concede per la nostra santificazione? Un giorno potremmo renderci conto di aver fatto tante cose nella vita, ma di aver sprecato il tempo e non aver fatto l’unica cosa necessaria. Chi si chiude in sé, per paura di perdere il poco che ha, costui perderà anche quel poco che ha. Colui, invece, che non avrà pensato a se stesso, ma si sarà dato agli altri, investendo la sua vita nella banca della carità, questi riceverà la vita eterna. Solo chi sa spendersi per Dio e per i fratelli potrà guadagnare il Regno (cfr. Lc 9,23-25).
Preghiera
Liberaci, Signore, dalla tentazione di nascondere i tuoi doni, concedici l’umiltà necessaria per farli fruttificare e donaci la capacità di accogliere i successi e i fallimenti come passaggi necessari per intraprendere il nostro cammino verso di te.
Agire
Mi sforzerò di riconoscere i doni che il Signore mi ha fatto, cercando di metterli a servizio dei fratelli in modo concreto.
Meditazione a cura di S.E. Mons. Giovanni Ricchiuti, Arcivescovo di Acerenza, tratta dal mensile Messa Meditazione, per gentile concessione di Edizioni ART.
Mercoledì della XXXIII settimana del Tempo Ordinari
Luca 19,11-28
In quel tempo, Gesù disse una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. Disse dunque: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: “Fatele fruttare fino al mio ritorno”. Ma i suoi cittadini lo odiavano e mandarono dietro di lui una delegazione a dire: “Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi”. Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato. Si presentò il primo e disse: “Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci”. Gli disse: “Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città”. Poi si presentò il secondo e disse: “Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque”. Anche a questo disse: “Tu pure sarai a capo di cinque città”. Venne poi anche un altro e disse: “Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato”. Gli rispose: “Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi”. Disse poi ai presenti: “Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci”. Gli risposero: “Signore, ne ha già dieci!”. “Io vi dico: A chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E quei miei nemici, che non volevano che io diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me”». Dette queste cose, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme.
Gesù è ormai vicino a Gerusalemme, dove instaurerà definitivamente il suo Regno. A chi pensava che il Regno di Dio fosse imminente, Gesù racconta una parabola attraverso la quale riconosce sì che il Regno viene, ma solo passando attraverso l’odio e il rifiuto del Re. È un annuncio velato della sua Passione, ma anche della definitiva sconfitta dei suoi nemici. Gesù chiede di non restare inoperosi di fronte alla venuta del Regno. Con il racconto delle monete d’oro fatte fruttare, esorta i suoi ad essere protagonisti attivi nel Regno, poiché a tutti Dio dà e da tutti Dio richiede.
La costruzione del Regno di Dio è opera di Dio, ma richiede anche la nostra piena collaborazione. Gesù, pur essendo vincitore sul maligno, sul peccato e sulla morte, incontrerà sempre nel percorso di crescita del suo Regno coloro che lo odieranno. Ci sembra così assurdo, eppure il fascino del male seduce e acceca gli uomini, tanto da renderli ottusi anche di fronte alla verità. Dopo il suo ingresso in Gerusalemme, nell’ora del Getsemani Gesù dirà ai suoi apostoli: «Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione» (Lc 22,46). Il sonno è la tiepidezza spirituale, l’accidia che ci rallenta nella nostra corsa verso la meta e il premio (cfr. Fil 3,12-14). Chi si è addormentato su se stesso non costruisce il Regno. Il re della parabola affida ai suoi servi i beni del suo regno, chiedendo loro espressamente di moltiplicarli. Noi siamo i fiduciari di Dio, coloro ai quali Dio non disdegna di elargire i suoi beni. Chi di noi sarebbe disposto ad affidare le sue ricchezze a gente senza scrupoli? Eppure Dio a tutti i suoi figli ha donato la vita, per tutti ha sacrificato il suo Figlio, su tutti elargisce costantemente il suo amore, a ciascuno affida un’infinità di doni. Cosa ne facciamo di tutti questi beni? Come investiamo il tempo che il Signore ogni giorno ci concede per la nostra santificazione? Un giorno potremmo renderci conto di aver fatto tante cose nella vita, ma di aver sprecato il tempo e non aver fatto l’unica cosa necessaria. Chi si chiude in sé, per paura di perdere il poco che ha, costui perderà anche quel poco che ha. Colui, invece, che non avrà pensato a se stesso, ma si sarà dato agli altri, investendo la sua vita nella banca della carità, questi riceverà la vita eterna. Solo chi sa spendersi per Dio e per i fratelli potrà guadagnare il Regno (cfr. Lc 9,23-25).
Liberaci, Signore, dalla tentazione di nascondere i tuoi doni, concedici l’umiltà necessaria per farli fruttificare e donaci la capacità di accogliere i successi e i fallimenti come passaggi necessari per intraprendere il nostro cammino verso di te.
Mi sforzerò di riconoscere i doni che il Signore mi ha fatto, cercando di metterli a servizio dei fratelli in modo concreto.
I due primi servi hanno impiegato bene la somma ricevuta
e hanno aumentato le ricchezze del padrone
inducendo altri a credere in lui.
Chi trascura questo compito
è rappresentato da quel servo che tenne la sua mina nascosta nel fazzoletto.
Ci sono in effetti delle persone che nella loro perversione
si lusingano dicendo: " Basta a ciascuno render conto di se stesso.
Che bisogno c’è di predicare agli altri o di assumere un ministero,
per poi render conto anche di loro?
Perché certuni volendo evitare il pericolo del giudizio,
mossi da pigrizia e mollezza rifuggono dal prestare il servizio della parola.
Ora comportarsi così è come legare in un fazzoletto la moneta ricevuta.
S. Agostino
Lc 19,11-28
In quel tempo, Gesù disse una parabola perché era vicino a Gerusalemme e i discepoli credevano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro. Disse dunque: “Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi ritornare. Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine, dicendo: Impiegatele fino al mio ritorno. Ma i suoi cittadini lo odiavano e gli mandarono dietro un’ambasceria a dire: Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi. Quando fu di ritorno, dopo aver ottenuto il titolo di re, fece chiamare i servi ai quali aveva consegnato il denaro, per vedere quanto ciascuno avesse guadagnato. Si presentò il primo e disse: Signore, la tua mina ha fruttato altre dieci mine. Gli disse: Bene, bravo servitore; poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città. Poi si presentò il secondo e disse: La tua mina, signore, ha fruttato altre cinque mine. A questo disse: Sarai tu pure a capo di cinque città. Venne poi anche l’altro e disse: Signore, ecco la tua mina, che ho tenuto riposta in un fazzoletto; avevo paura di te che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, mieti quello che non hai seminato. Gli rispose: Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi. Disse poi ai presenti: Toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci. Gli risposero: Signore, ha già dieci mine! Vi dico: A chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me”. Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme.
Il commento
Gesù era ormai giunto con i discepoli "vicino a Gerusalemme". Ma in loro emergeva una strana euforia, come quella, pericolosa, con la quale i giocatori di una grande squadra talvolta affrontano compagini molto più deboli. Con tutti quei miracoli che avevano cambiato "all’istante" la vita di tante persone davanti agli occhi, i discepoli si erano convinti che il Regno si sarebbe "manifestato" altrettanto "immediatamente". E proprio loro erano i prescelti del Messia, si vedevano già ricoperti di cariche "alla sua destra e alla sua sinistra". Era pur vero che Gesù aveva ripetuto di "mettersi bene in testa" che stava andando a Gerusalemme per morire crocifisso e risorgere, ma "quel parlare restava oscuro", e l’avevano rimosso. Erano pronti a morire con Lui, ma per un regno di questo mondo. La parabola rimette la cose al loro posto. Gesù, "Uomo di nobile stirpe", morendo, risuscitando e ascendendo al Cielo, sarebbe "partito" verso il "lontano paese" del Padre "per ricevere un titolo regale e poi ritornare"; ai discepoli suoi "servi", avrebbe affidato la "mina" del Vangelo per "impiegarla" - «pragmateoeuomai» nel greco originale - nel tempo inaugurato con la sua partenza, "amministrandone proficuamente il capitale", e "commerciandola" per ottenere un "guadagno" secondo la volontà del Signore. Gesù dunque non andava a Gerusalemme per ristabilire il Regno che tutti aspettavano. Egli vi saliva per aprire un varco attraverso la morte e inaugurare un tempo di salvezza per tutte le genti; apparendo risorto sul Monte di Galilea, il Signore avrebbe poi affidato il Vangelo ai suoi discepoli, inviandoli a "trafficarlo" come aveva fatto Lui, con la predicazione e il martirio, in tutte le città e villaggi, sino ai confini della terra.
Anche noi oggi siamo "vicini" alla croce piantata nella nostra "Gerusalemme", la famiglia, il lavoro, la scuola. Forse siamo ancora acerbi, e pensiamo che il cristianesimo sia una religione come tutte le altre, dalla quale attingere "da un momento all’altro" quello di cui abbiamo bisogno. Ma il Signore ci rivela oggi la verità che dà senso e sostanza alla nostra vita: Lui ci ha scelti, chiamati, perdonati per affidarci la "mina" che definisce la nostra primogenitura. Il Vangelo ha operato in noi molti segni, e oggi siamo inviati a tutti per "trafficarlo", annunciando e offrendo la salvezza in cambio dei peccati, perché "quando noi moriamo il mondo riceve la vita". La nostra storia è immersa in un tempo di Grazia, dove ogni evento è un’occasione irripetibile per "guadagnare" un’anima a Cristo. Per questo il demonio, il "nemico" che "non vuole che il Signore regni" sugli uomini, farà di tutto per distoglierci dalla nostra missione e così trasformarci in "servi malvagi". Userà la croce di ogni giorno per mostrarci il Signore come un "uomo severo" che "prende" l'amore che "non ha messo in deposito", e vuole "mietere" la vittoria "che non ha seminato", lasciandoci soli di fronte alle difficoltà e ai fallimenti. Ci tenterà con la "paura" della morte per spingerci a "nascondere nel fazzoletto" della superbia e dell'ipocrisia il Vangelo, perché non giunga a chi ci è accanto. Vorrà ingannarci con gli scandali mentendo sulla Chiesa che ci ama come una madre, la "banca" cui ricorrere per difendere il "capitale" in tempi di crisi. Possiamo difenderci solo "giudicando" il demonio "dalle sue stesse parole", confrontandole una per una con quelle del Vangelo compiute nella nostra vita e in quella di tanti fratelli, nella certezza che il Signore ci difenderà e tornerà ad "uccidere davanti a lui il nemico". Ci attende una ricompensa eterna, la vita piena "data a chiunque ha" frutti da presentare, la gioia moltiplicata dalla Grazia che ci accompagna ogni giorno, da condividere nella "città celeste" con coloro a cui abbiamo annunciato il Vangelo donandoci senza riserve qui sulla terra.
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;
se ce n’è uno,
è quello che è già qui,
l’inferno che abitiamo tutti i giorni,
che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti:
accettare l’inferno e diventarne parte
fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso
ed esige attenzione e apprendimento continui:
cercare e sapere riconoscere chi e cosa,
in mezzo all’inferno, non è inferno,
e farlo durare, e dargli spazio.
I. Calvino, Le città invisibili
Lc 19,11-28
In quel tempo, Gesù disse una parabola perché era vicino a Gerusalemme e i discepoli credevano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro.
Disse dunque: “Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi ritornare. Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine, dicendo: Impiegatele fino al mio ritorno.
Ma i suoi cittadini lo odiavano e gli mandarono dietro un’ambasceria a dire: Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi.
Quando fu di ritorno, dopo aver ottenuto il titolo di re, fece chiamare i servi ai quali aveva consegnato il denaro, per vedere quanto ciascuno avesse guadagnato.
Si presentò il primo e disse: Signore, la tua mina ha fruttato altre dieci mine. Gli disse: Bene, bravo servitore; poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città.
Poi si presentò il secondo e disse: La tua mina, signore, ha fruttato altre cinque mine. A questo disse: Sarai tu pure a capo di cinque città.
Venne poi anche l’altro e disse: Signore, ecco la tua mina, che ho tenuto riposta in un fazzoletto; avevo paura di te che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, mieti quello che non hai seminato.
Gli rispose: Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi.
Disse poi ai presenti: Toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci. Gli risposero: Signore, ha già dieci mine!
Vi dico: A chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me”.
Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme.
IL COMMENTO
Ci troviamo vicino a Gerusalemme, e speriamo che il Regno di Dio si manifesti "da un momento all'altro", immediatamente, secondo l'originale greco parachrēma, usato per esprimere l'istantaneità con cui si compiono i miracoli di Gesù. I discepoli credono, e noi con loro, che per l'instaurazione del Regno di Dio valga la dinamica e i tempi dei miracoli visti e sperimentati; non hanno compreso che essi sono i segni compiuti da Gesù per autenticare la sua missione e rivelare la sua identità messianica. Anche noi, con i discepoli, non andiamo oltre il segno, ci siamo saziati, e quello che davvero cerchiamo nel Signore è il miracolo definitivo già ora, immediatamente. Abbiamo visto segni nella nostra vita, autentici miracoli, ma tentiamo di pervertirne il messaggio in essi racchiuso. Accogliamo e afferriamo nella carne quello che alla carne parla del Cielo: "In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi, non il cibo che non dura, ma quello che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo" (Gv. 6,26-27). Procurarsi traduce il verbo greco ergazete, cioè "lavorate non per il cibo che perisce…": il segno dunque è dato perchè si lavori, si operi concretamente nella vita... "Gli dissero allora: "Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?". Gesù rispose: "Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato". L'opera - il lavoro fondamentale - è dunque credere in Gesù di Nazaret, il Messia. Qualunque lavoro è frutto della fede, l'opera madre. In questa luce si comprende il senso profondo della parabola del Vangelo: in ciascuna mina è donata la fede che attende solo d'essere incarnata, impegnata, trafficata, secondo il significato del termine pragmateoeuomai, che appare solo qui in tutto il Nuovo Testamento. Esso deriva da pragma, "una questione necessaria", di prammatica.... propriamente, è un termine mercantile antico per esprimere il commerciare scambiando e ottenere un guadagno. In senso più lato significa amministrare proficuamente un capitale. La fede è il capitale per eccellenza che informa di sé ogni mina, ogni Grazia; va "estratta e lavorata", perchè non rimanga un diamante grezzo, affascinante ma inutilizzabile.
Il diamante è l’unico minerale costituito da un solo elemento, il carbonio, che lo rende la materia più dura esistente in natura. Il diamante può incidere qualsiasi pietra, ma nessun’altra lo può scalfire. L’estrazione del diamante è un’attività particolarmente difficile e dispendiosa che necessita di cospicui investimenti. Per ottenere un carato di diamanti occorre lavorare in media tre tonnellate di materiale. E' necessario frantumare la roccia dove il diamante si trova incastonato in pezzi sempre più piccoli; accanto alle spaccature poi bisogna ricorrere a frequenti e abbondanti lavature per strappare i diamanti al ganga, il materiale di scarto. La fede, perchè sia capace di "incidere", deve crescere sino ad una statura adulta, attraverso un processo di purificazione che necessita di investimenti sostanziosi, la vita stessa di Cristo. Trafficare le mine ricevute indica in primo luogo questo lungo e dispendioso processo che, nella Chiesa, si chiama "catecumenato". Non è qualcosa che si realizzi immediatamente. Si comincia ricevendo dalla Chiesa la fede che va trafficata, come le mine, che i Padri identificano non a caso con la Parola ricevuta. Essa "sporca" il seme della fede nella terra della storia e la compie moltiplicandola, facendola adulta, al punto che, come un diamante, nulla la possa scalfire. Trafficare le mine presuppone dunque, come nel catecumenato, una serie di tagli e di lavaggi, perchè, nella vita, sia scartato quanto non serve e sia purificato quello che vale. L'allora Card. Ratzinger affermava: "il vangelo è un taglio - una purificazione, che diviene maturazione e risanamento. È un taglio, che esige paziente approfondimento e comprensione, cosicché esso sia fatto nel momento giusto, nella fattispecie giusta e nel modo giusto... Così è evidente che questo taglio "non è affare di un momento, al quale dovrebbe poi semplicemente seguire una ovvia maturazione"... deve necessariamente assumere la forma del catecumenato, nel quale si possano compiere i necessari risanamenti, nel quale soprattutto viene stabilito il rapporto fra pensiero e vita. Eloquente è al riguardo il racconto, che Cipriano di Cartagine ha dato della sua conversione alla fede cristiana. Egli ci racconta che prima della sua conversione e battesimo non poteva affatto immaginarsi, come si potesse mai vivere da cristiano e superare le abitudini del suo tempo... Ma l'impossibile, così narra Cipriano, fu reso possibile per la grazia di Dio ed il sacramento della rinascita, che naturalmente è considerato nel luogo concreto, nel quale esso può divenire efficace: nel cammino comune dei credenti, che aprono una via alternativa da vivere e la mostrano come possibile... Cipriano parla proprio della violenza delle "abitudini", cioè di una cultura, che fa apparire la fede come impossibile" (J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo).
Non sono un caso allora il luogo e il momento nel quale Gesù racconta la parabola. Con i discepoli, siamo vicini a Gerusalemme, al tradimento, al rifiuto, alla croce, al taglio decisivo e vorremmo che tutto passasse presto. Gesù stava per inaugurare quel cammino pasquale che avrebbe poi consegnato e affidato alla Chiesa; in lui si stavano per operare il taglio e la purificazione a beneficio di ogni uomo: la Chiesa avrebbe annunciato quegli eventi sino alla fine del mondo, offrendo a tutti il diamante più bello, Cristo Gesù risorto, l'unico nel quale vi è salvezza. Gesù aveva avvertito i discepoli che doveva andare a Gerusalemme, che lì sarebbe stato rifiutato, percosso e ucciso, e che il terzo giorno sarebbe risuscitato. Ma quel parlare era rimasto oscuro e duro. Esattamente come quel giorno a Cafarnao, quando Gesù aveva presentato se stesso come il Pane della vita offerto per la vita del mondo. I Giudei "che avevano creduto in Lui" intuivano che la catechesi di Gesù, rivelando la sua identità e la sua missione, annunciava la Verità sulla loro stessa identità e la loro missione. Pane offerto al mondo, anche loro erano chiamati ad offrire la propria carne. Per questo hanno reagito impauriti: "Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?". E Gesù risponde: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima? E' lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. Ma vi sono alcuni tra voi che non credono» (vv. 60-64). Un linguaggio duro, come il servo "malvagio" della parabola vede e comprende il Re. Nel fondo, i discepoli, i Giudei, il servo malvagio cercavano la propria gloria, sedere alla destra e alla sinistra del Re Messia. Volevano un fast food messianico dove avere tutta e subito la soddisfazione della propria carne, dei desideri, dei progetti. Per questo, come ciascuno di noi, credevano che tutto si sarebbe risolto in brevissimo tempo: arrivo a Gerusalemme, manifestazione gloriosa e instaurazione del Regno. Questo desideravano e questo volevano credere, a dispetto proprio delle parole di Colui che sarebbe dovuto diventare Re. Un futuro niente male era balenato nelle loro menti. Era stato bello stare con quel Rabbì, certo alle volte scomodo, ma i segni, - accidenti! - erano inequivocabili. E poi l'ambiente della Galilea, ormai saturo dei Romani e della loro arroganza, e l'attesa del Messia e del ristabilimento del Regno di Israele era così forte... Quel Nazareno era proprio l'uomo giusto; ci si erano affezionati, lo amavano certo, ma i sentimenti, i pensieri, anche l'amore, dovevano essere purificati, circoncisi nella carne, perchè essa non giova a nulla. Lo seguivano, erano pronti a morire con Lui, ma per un regno che era di questo mondo, del loro mondo.
Ed è quello che sogniamo tutti; quello che, in fondo, crediamo, o vogliamo credere, sia il destino di chi segue Gesù. Siamo vicini a Gerusalemme nel matrimonio, nel lavoro, nelle relazioni; ci attende ogni giorno il mistero che ha accolto il Signore, un catecumenato di tagli e purificazioni. E vorremmo che così non fosse: che questo problema con il figlio si risolvesse; che le tensioni al lavoro finissero; che l'incomprensione con quella persona si convertisse in comprensione, una volta per tutte; che la sciatica ci desse un po' di tregua; che i mercati ci lasciassero respirare, almeno tanto da permetterci una breve vacanza sulla neve. E non comprendiamo la verità che intesse il nostro essere, e dà senso e sostanza alla vita e alla storia: tutto ci accade perchè abbiamo ricevuto le mine, la fede, e con essa la Parola, i sacramenti, la comunità, i fratelli; tutto ci accade perchè siamo di Cristo, abbiamo Lui nelle nostre cellule, nel nostro spirito. Tutto ci accade per la primogenitura impressa in noi. Le mine ci sono state date per essere trafficate sulla croce, su quella pronta anche oggi nella giornata che ci attende. Ed è ovvio e naturale che l'ambiente sia ostile, che tutto sia terribilmente difficile. O forse ci siamo dimenticati che vogliono uccidere il nostro Signore?
Certo è difficile lavorare così... Vorremmo un po' di pace, fare le cose e vivere la vita tranquilli... Per questo il servo malvagio ripone la mina nel fazzoletto. E con essa la primogenitura, e la sua stessa vita secondo la natura di Dio preparata per compierne la volontà. In definitiva, rinchiude in un fazzoletto la possibilità di essere felice. Avrà pensato che se la gente odia il suo Signore un motivo ci dovrà pur essere... E così, ingannato dal tumulto invidioso della folla, del mondo e della carne, pensa male di Lui: "avevo paura di te che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, mieti quello che non hai seminato". La carne, senza la luce dello Spirito, pensa sempre male di Dio, gli fa guerra. Ogni pensiero malvagio nei confronti di Dio, e della storia e delle persone che da Lui ci sono date, è una freccia avvelenata del demonio. Mormorazioni e critiche, giudizi e ira, sono tutti figli legittimi dello stesso padre della menzogna. E così, nel servo malvagio, si fa certezza l'idea che il Signore sia duro: la prova è che non mette i servi nelle condizioni migliori per lavorare, li getta in un'arena insopportabile. Per questo è severo, e tutti lo vogliono far fuori. Prende quello che non ha messo in deposito, miete quello che non ha seminato: il che, fuor di metafora, significa che ruba quello che non è suo, ed esige quello per cui lui stesso non ha fatto nulla. E viene a reclamare i proventi senza avvisare, di notte, proprio come un ladro. Questo servo ammalato, ovvero malvagio, teme perchè aspetta un ladro, uno che viene a togliere quello che è suo. E non si rende conto che chi che sta rubando è proprio lui, che ha ricevuto in dono e in amministrazione un bene che non gli appartiene. Ed è anche il nostro atteggiamento profondo, quando cerchiamo il nostro interesse e non quello del padrone; quando facciamo le cose con lo scopo di gratificarci, e usiamo anche il ministero e la missione, pervertiamo anche l'essere madre o padre, offrendo tutto a noi stessi. Poi, quando le tragiche conseguenze si ritorcono contro di noi - perchè chi semina nella carne dalla carne riceverà il suo salario - si scarica la colpa sul Signore; lo giudichiamo severo, mormoriamo che ci ha posto regole d'ingaggio esigenti con le quali è impossibile far nulla... E ci nascondiamo nel fazzoletto del nostro ego ferito, a cercare consolazione, ad ascoltare le sinistre parole di adulazione del demonio.
Siamo invece chiamati a fare tutto gratuitamente, lasciando che lo Spirito Santo operi in noi, dimenticando addirittura quello che abbiamo fatto, servi che non cercano utili per se stessi, lasciando i frutti per l'ultimo giorno, per il Cielo, per quando verrà il Padrone. I frutti che le sue mine avranno fruttificato; a noi è chiesto solo di trafficarle, usarle per la sua missione! Quante volte vorremmo che ci fossero riconosciuti i meriti: quante madri e mogli esibiscono lo scontrino delle cose fatte senza lo straccio di un grazie; quanti padri e mariti a mostrare la busta paga e il conteggio delle ore di lavoro; quanti preti a faticare tra una riunione e l'altra, una messa e un funerale, e poi sempre adirati, e nelle omelie ad esigere impegno e collaborazione, a sentenziare sui cristiani che lo lasciano solo. E così, leghiamo le persone con ricatti perversi, e ne facciamo frutti nostri appropriandocene. Le stringiamo in un fazzoletto sino a soffocarle, nascoste e sterili insieme alle grazie (le mine) ricevute perchè in loro diano frutto. Quante volte questo modo di fare provoca liti, divisioni, anche il divorzio ad esempio, o la disobbedienza ai superiori. Così anche nella scuola e nello studio: è vero, è difficile trovare qualcuno a cui piaccia studiare, ma il punto non è questo: è che non si sa perchè farlo, non ci sono stimoli, non c'è letizia, interesse, se non quello mosso da un utile, sia esso di prestigio, di lavoro, sempre e comunque per se stessi. Quando poi neanche questo stimolo perde forza, addio studio. Quando si hanno alternative - le ragazze o i ragazzi, i divertimenti, le feste, le discoteche, il muretto o il bar, i soldi facili di papà o di qualche lavoretto come magari spacciare un po' di droga, lo sport, lo stadio, la musica - quando ci sono altri interessi strettamente carnali, lo studio automaticamente decade, come tutto quello che provoca sofferenza e sacrificio, quello che obbliga a vivere le cose donandosi, gratuitamente. Ed è proprio allora che il Signore diviene severo, e ci si nasconde dai genitori, dai professori e da qualunque autorità. Così nel rapporto tra due fidanzati, dove il rispetto e la castità presuppongono un sacrificio che traffichi le mine di vita eterna, la croce dove donarsi; ma se il piacere e la concupiscenza hanno il sopravvento in una fretta che appaghi immediatamente le voglie, si finisce con l'offrire l'altro a se stesso, e di nuovo il Signore diviene severo, le vetuste regole della chiesa e i tabù da sfatare.
In fondo, come il servo, non vogliamo stare a servizio di questo Signore, neanche gli vogliamo dare gli interessi che gli spetterebbero, affidando ai banchieri la mina... Lo temiamo, e nel cuore abbiamo ormai gli stessi sentimenti di quelli che lo vogliono uccidere. Cristo è stato ucciso per invidia, per uno sguardo storto incapace di riconoscerlo, perchè lo ritenevano un impostore, uno che voleva raccogliere quello che non era suo, pretendeva il diritto di essere re, di essere il Messia. Qui scopriamo un altro punto che emerge dalla parabola: Gesù non ha diritto di chiedere nulla perchè non è il Messia. E non può esserlo anche perchè non mette in condizione di trafficare, non ama i suoi servi. Sono i sentimenti che emergono quando vediamo tutto nero, e pensiamo che sicuramente le cose andranno male; quando ci troviamo a dover obbedire a qualcosa che ci sembra assurdo, e che siamo sicuri che andrà a finir male. E così ci maceriamo, e anche se obbediamo, restiamo con il veleno del dubbio che ci fa guardare tutto e tutti con sospetto, nella paura che ci vengano a rubare quello che è nostro, i diritti, la giustizia dei nostri criteri...
Ed forse è anche vero: il Signore non mette in condizione di far successo secondo la carne, ci dà la mina della Croce, del mistero pasquale e non è quello che vorremmo. Ci dà dei BOT a lunghissima scadenza, molto più che trentennali. E durante questi lunghi anni non vediamo altro che fatica, dolore, problemi, persecuzioni... E' la storia della Chiesa e di ciascuno di noi. Ma invece, secondo il criterio di Dio, è proprio questo il tempo fecondo: sulla croce le mine fruttano altre dieci mine, perchè alla croce corrisponde la vita. Dove la morte la vita, "così che quando noi moriamo il mondo riceve la vita". Perchè esiste il peccato! E siamo tutti fuori dal Paradiso, e la condizione è quella di sudare, di faticare, di lottare con la concupiscenza. Ma c'è un'Alleanza, un seme di Paradiso, come un Regno - una cosa come Andorra o San Marino - la Chiesa; un Regno deposto in questo mondo dove, attraverso le monete correnti in esso, le mine consegnate, si conquistano altre città, le anime, come in un risiko spirituale: è l'evangelizzazione, dove il cuore è l'amore. Le mine sono date per rivelare, - con l'annuncio e la testimonianza, il martirio che certifichi la sua verità - la riconciliazione, il destino vero di ogni uomo. Laddove si vivono le conseguenze del peccato, la condizione esterna al Paradiso, siamo chiamati a far vedere che il Paradiso non è perduto definitivamente, che c'è una possibilità, esiste la salvezza. La libertà è data per tornare al Padre: la libertà non ha mai lasciato il figliol prodigo! In un primo momento lo ha allontanato dal padre, ma poi, la stessa libertà totale, lo ha fatto ritornare: ha potuto prendersi le sostanze e andarsene, e non è stato senza tragiche conseguenze; ma, finchè viviamo su questa terra, la libertà non è sottratta, tanto che al fondo dell'inferno "terreno", il figlio riprende in mano la libertà già usata e "sporcata", e la può usare ancora, perchè non si era contaminata! Essa infatti è la cifra di Dio che non perdiamo mai: anche se impaurito, anche se si sente indegno, questo figlio si sente comunque libero di tornare, magari come un garzone. E il padre si sente libero di riaccoglierlo a casa, come figlio. Ecco, la missione della Chiesa è andare con le mine ricevute a cercare il figlio perduto e accendere in lui la coscienza, aiutarlo a riattivare la libertà perchè senta la nostalgia, perchè ritorni a casa, perchè si converta. E' questo il mandato di Gesù, e per questo ha consegnato le mine: ecco io sono con voi tutti i giorni nelle mie mine... Cercare i fgli che hanno sperperato per ricordare loro il cuore del Padre, mostrandolo nelle mine trafficate sulla croce. Far fruttare le mine è come conquistare spiritualmente le anime, direttamente con l'annuncio o indirittemente nell'offerta delle proprie sofferenze, per riconsegnarle al Signore quando tornerà e diventerà finalmente Re. In quel momento Egli distruggerà, smembrerà il demonio e le sue menzogne. Ci sarà il giudizio - da questo ti giudico... - e sarà una festa per chi ha crocifisso le sue mine su questa terra.
La parabola risponde alla domanda di Pietro: "Ecco noi abbiamo lasciato tutto che cosa ne riceveremo?". Il centuplo con persecuzioni, e la vita eterna e il governo delle città, delle comunità fondate dagli apostoli. Il governo, l'amore e l'intimità, il servizio eterno delle città, delle persone che hannno ricevuto la vita nella croce di Cristo, il suo giogo preso sopra di noi. Gli apostoli hanno lasciato la città terrena, chiamati a far parte, già oggi, della città del cielo, e a mostrarla. Sono stati liberati per mostrare la libertà. Laddove il mondo pecca e non può far altrimenti, difendendosi e sperperando le sostanze, gli apostoli donano, lasciano, amano. Lasciano i rapporti nella carne - gli affetti, il lavoro, i beni, anche la propria vita - per non conoscere più nulla e nessuno nella carne, per essere creature nuove, per vivere il Cielo e mostrarlo dove il mondo, i parenti, gli amici, i colleghi non possono e non sanno; è questo il centuplo quaggiù, l'anticipo del Paradiso, la caparra nello Spirito Santo, la vita secondo le mine ricevute... Siamo "crociati", crocifissi nella sua croce, l'unica che può davvero conquistare il mondo a Cristo, strappare la Terra Santa di ogni uomo all'infedeltà. Le persecuzioni sono necessarie, l'ambiente ostile è "funzionale" perchè rivela l'autenticità, la nostra appartenenza a Cristo, a Dio, al Paradiso, verità e destino di ogni uomo da trafficare per riportare tutti, sani e salvi, al Regno che li attende.
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