Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

domenica 28 settembre 2014

“In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”

XXVI^ Domenica del Tempo Ordinario. Anno A




L'ANNUNCIO
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: Figlio, oggi va' a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Non ne ho voglia. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: Sì, signore. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».(Dal Vangelo secondo Matteo 21, 28-32)


“Che ve ne pare?”. Questa Domenica il Signore sembra chiederci un’opinione. Ma ascoltando bene la domanda e la parabola in essa contenuta, vedremo che, in effetti, non è questa che gli interessa, ma che ciascuno di noi scopra e accetti la verità del suo cuore.
Chi è cieco su stesso, infatti, non può convertirsi; non ne ha bisogno. È un ipocrita e vive ingannato; ha un cuore schizofrenico che si traduce in atti che smentiscono le parole, in comportamenti opposti alle decisioni che si illude di aver preso.
E’ schiavo di se stesso, come il secondo figlio della parabola che risponde “si, Signore. Ma non andò” nella “vigna”. L’originale greco tradotto con “sì” è “ego”, cioè “io”. Sembra strana come risposta, eppure è molto profonda. Non può dire neanche , non gli esce, fosse anche per mentire, perché Il suo “ego” lo tiene in scacco.
Non c’è spazio per l’obbedienza, perché il suo “io” soffoca quello dell’altro. Probabilmente non ha nemmeno ascoltato suo padre, impegnato a guardarsi con “vanagloria”, come i “capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo”.
Non a caso la Chiesa inizia ogni giorno con il Salmo 94: “Se oggi ascoltate la sua voce,Non indurite il cuore”. Anche il padre della parabola dice qualcosa di simile ai due figli: “Figlio, oggi va' a lavorare nella vigna”. Ed è come se dicesse: “Ascoltami, e obbedisci (in ebraico lo stesso termine ha i due significati). Non chiuderti in te stesso, esci dal tuo egoismo e va’ ad operare nella vigna”.
L’originale greco tradotto con lavorare, infatti, significa anche operare, ed è un termine che nel Vangelo di Matteo e in quello di Giovanni richiama alla fedeL’opera per eccellenza è proprio credere. Niente di moralistico o volontaristico dunque. Il padre sta annunciando ai suoi due figli la Buona Notizia che per loro è preparata una “vigna” dove poter “credere”.
Allora, “che te ne pare?”, quale dei due figli sei? Hai accolto l’invito del Padre? Dove sei “oggi”? Sei andato nella “vigna”?
Se, come Giovanni Battista, ti dicessi che sei corrotto, attaccato al denaro, avido e avaro come un “pubblicano”? O se ti dicessi che sei una “prostituta”, venduto a chi ti offre più affetto e considerazione? Come reagiresti? Forse ti adireresti, e cominceresti a difenderti cercando di dimostrare che non lo sei. Sì, commetto qualche peccato, non rubo, non uccido, insomma, qualche parolaccia, uno scatto d’ira, e poco più.
Se pensi così significa che sei ancora cieco. “Pur vedendo” tanti peccatori convertirsi e camminare nella “via della giustizia” dove imparano a compiere la volontà di Dio, “non ti penti”. Non puoi “credere” all’annuncio della Chiesa perché cerchi la “vanagloria” dagli uomini. Il demonio ti sta ingannando incensando il tuo “ego”.
Sei troppo preoccupato di saziarlo che non puoi “lavorare nella vigna”: io, io, io, io… Quando gli altri ti parlano non li senti, perché non sono che appendici del tuo io. Non hanno nome, valore, importanza se non in relazione alla tua fame.
Come molti di noi hai bisogno di aprire gli occhi e scoprire che sei tu il figlio incapace di obbedire. Che sei un “pubblicano” che usa gli altri per saziarsi, come una “prostituta” che fa della sua vita, anche della chiamata ad essere cristiano, uno squallido mercimonio.
Solo chi si scopre peccatore può credere all’annuncio del Kerygma; solo chi ha compreso che è un orgoglioso e cerca la sua vita in quello che non sazia, come il secondo figlio che ha compreso per che cosa valga la pena spendersi, può obbedire al Vangelo per entrare nel Regno dei Cieli.
Ma non possiamo farlo da soli. Ci scandalizzeremmo di noi stessi, e ci disprezzeremmo. Per scoprire la verità e aprirci alla conversione abbiamo bisogno di un esodo come quello percorso nel deserto dal Popolo di Israele, nel quale scoprire quello che siamo e, contemporaneamente chi è Dio. Di una comunità dove sperimentare che non siamo soli, che Dio non ci ha abbandonati ai nostri peccati, e che Gesù cammina accanto a noi, come un fratello, con pazienza e misericordia.
Si potrebbe dire, infatti, che i due figli della parabola sono immagine il primo di ciascuno di noi, e il secondo di Gesù. Lui si è fatto peccato, lasciando che tutti pensassero che fosse un empio millantatore; che si diceva figlio di Dio ma “non aveva voglia” di andare nella “vigna” a fare il “messia” come Israele si aspettava.
Ma proprio nella sua umiliazione ha aperto un cammino al “pentimento”, Certo, Gesù non aveva bisogno di convertirsi, ma ha voluto percorrere il cammino di ritorno a Dio perché noi tutti potessimo tornare a casa di nostro Padre, a lavorare nella sua “vigna”, come il figlio prodigo.
Nell’Antico Testamento essa era immagine di Israele, il Popolo che Dio aveva scelto per rivelarsi e divenire così segno della sua presenza tra le nazioni. Ma nel Nuovo Testamento essa diviene immagine della Chiesa, la comunità cristiana. E’ anche un anticipo del “Regno dei Cieli”, un suo segno visibile e credibile offerto al mondo.
In essa “lavorano” per crescere nella fede i figli di Dio. Ma qual è, concretamente, questo “operare”?  Ce lo spiega San Paolo: nella “vigna” si cresce nell’amore e nella comunione, imparando giorno dopo giorno, “oggi” dopo “oggi”, a “non fare nulla per rivalità o vanagloria”; nella Chiesa si sperimenta la gratuità dell’amore di Dio.
Secondo l’originale, infatti, in essa non si “lavora” per un “salario” mondano, per la “vanagloria”, ma per la “gloria” autentica, la sostanza e il peso della vita che Gesù ha acquistato per tutti attraverso la sua kenosi, il suo annientamento.
Egli ha rinunciato a tutto e si è fatto l’ultimo, il servo di tutti, andando al nostro posto nella “vigna” ad offrire se stesso sulla Croce piantata in essa. Così ha inaugurato il cammino autentico per raggiungere la “gloria” preparata per tutti nel “Regno dei Cieli”. Per essersi umiliato il Padre “lo ha esaltato” e gli ha spalancato il Cielo dove è entrato con una carne simile alla nostra, primogenito di molti fratelli.
Per questo nel “Regno dei cieli” i peccatori “precedono” quelli che si ritengono giusti. Nella “vigna”, dove lo Sposo del Cantico dei Cantici scende per unirsi alla sua Sposa, sono rovesciati i criteri mondani, perché l’amore di Dio esalta gli umili, quelli che hanno riconosciuto la propria realtà e sono pronti ad annegare l’uomo vecchio nelle viscere di misericordia di Dio, e ricominciare ogni giorno con Cristo una vita nuova.
APPROFONDIMENTI




 αποφθεγμα Apoftegma

Noi che vogliamo raggiungere l'umiltà 
non smettiamo di esaminare noi stessi; 
e se nel profondo del cuore pensiamo che il prossimo ci superi in tutto, 
la misericordia divina è vicina. 

Giovanni Climaco



Nella 26.ma Domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci presenta il passo del Vangelo in cui Gesù racconta una parabola ai principi dei sacerdoti: due figli sono chiamati dal padre a lavorare nella sua vigna. Il primo dice di sì, ma poi non ci va. Il secondo dice di no, ma poi pentitosi, ci va. Quindi dice:
“In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”.
Su questo brano evangelico, ascoltiamo il commento di don Ezechiele Pasotti, prefetto agli studi nel Collegio Diocesano missionario “Redemptoris Mater” di Roma:
La parabola di oggi ci tocca direttamente. A noi cristiani, come agli Ebrei, è stata rivolta la chiamata del Signore ad andare a lavorare nella Vigna. E noi ogni giorno possiamo rispondere: “No, non ci vado”, ma poi pentirci ed andare, oppure: “Sì, ci vado”, e poi non andare. È il mistero della libertà dell’uomo: possiamo liberamente collaborare con Dio alla nostra salvezza, o liberamente farci condannare, non prendere Dio sul serio, o pensare di averlo in tasca, perché tanto noi siamo già cristiani. Il Padre Cantalamessa commenta: “Questa parabola di Gesù deve far riflettere attentamente - e anche tremare di paura - noi cristiani. Per molti aspetti, noi siamo, infatti, nelle condizioni di spirito degli ebrei.  Noi siamo il figlio cui Dio si è rivolto per primo chiamandolo a lavorare nella sua Vigna, cioè nella Chiesa. Noi siamo coloro che hanno detto una volta di sì. Abbiamo detto di sì con il battesimo e quanti altri ‘sì’ impliciti proferiamo nella nostra vita cristiana! Ma spesso questo ‘sì’ copre solo il rifiuto reale e crea una mentalità ipocrita. Il rischio è che noi ci facciamo una psicologia di salvati per diritto, di privilegiati della salvezza…”, ma senza nessuna conversione seria, senza accogliere la vita di Dio, vivendo con superficialità diabolica nella mentalità del mondo, con i cosiddetti “valori” del mondo. Oggi la parola del Signore non ammette scuse: o entriamo in obbedienza alla fede, o i pubblicani e le prostitute ci precedono nel regno di Dio.
***
MESSALE
Antifona d'Ingresso  Dn 3,31.29.30.43.42
Signore, tutto ciò che hai fatto ricadere su di noi
l'hai fatto con retto giudizio;
abbiamo peccato contro di te,
non abbiamo dato ascolto ai tuoi precetti;
ma ora glorifica il tuo nome e opera con noi
secondo la grandezza della tua misericordia.

 
Colletta

O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua a effondere su di noi la tua grazia, perché, camminando verso i beni da te promessi, diventiamo partecipi della felicità eterna. Per il nostro Signore.


Oppure:
O Padre, sempre pronto ad accogliere pubblicani e peccatori appena si dispongono a pentirsi di cuore, tu prometti vita e salvezza a ogni uomo che desiste dall'ingiustizia: il tuo Spirito ci renda docili alla tua parola e ci doni gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù. Egli è Dio...


LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura  Ez 18, 25-28
Se il malvagio si converte dalla sua malvagità, egli fa vivere se stesso.

Dal libro del profeta EzechieleCosì dice il Signore:
«Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?
Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.
E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».
 
Salmo Responsoriale
  Dal Salmo 23
Ricòrdati, Signore, della tua misericordia.
 
Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza;
io spero in te tutto il giorno.

Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
I peccati della mia giovinezza
e le mie ribellioni, non li ricordare:
ricòrdati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.
 

Seconda Lettura
  Fil 2, 1-11 (Forma breve Fil 2, 1-5)
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù. 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi[ Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi.
Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù 
]:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.


Canto al Vangelo
   Gv 10,27
Alleluia, alleluia.

Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore,
io le conosco ed esse mi seguono.

Alleluia.

   
   
Vangelo  Mt 21, 28-32
Pentitosi, andò. I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, disse Gesù ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L'ultimo».
E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.
E` venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli». 

*

Commento
“Che ve ne pare?”. Questa Domenica il Signore sembra chiederci un’opinione. Ma ascoltando bene la domanda e la parabola in essa contenuta, vedremo che, in effetti, non è questa che gli interessa, ma che ciascuno di noi scopra e accetti la verità del suo cuore.

Chi è cieco su stesso, infatti, non può convertirsi; non ne ha bisogno. È un ipocrita e vive ingannato; ha un cuore schizofrenico che si traduce in atti che smentiscono le parole, in comportamenti opposti alle decisioni che si illude di aver preso.

E’ schiavo di se stesso, come il secondo figlio della parabola che risponde “si, Signore. Ma non andò” nella “vigna”. L’originale greco tradotto con “sì” è “ego”, cioè “io”. Sembra strana come risposta, eppure è molto profonda. Non può dire neanche , non gli esce, fosse anche per mentire, perché Il suo “ego” lo tiene in scacco.

Non c’è spazio per l’obbedienza, perché il suo “io” soffoca quello dell’altro. Probabilmente non ha nemmeno ascoltato suo padre, impegnato a guardarsi con “vanagloria”, come i “capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo”.

Non a caso la Chiesa inizia ogni giorno con il Salmo 94: “Se oggi ascoltate la sua voce,

Non indurite il cuore”. Anche il padre della parabola dice qualcosa di simile ai due figli: “Figlio, oggi va' a lavorare nella vigna”. Ed è come se dicesse: “Ascoltami, e obbedisci (in ebraico lo stesso termine ha i due significati). Non chiuderti in te stesso, esci dal tuo egoismo e va’ ad operare nella vigna”.

L’originale greco tradotto con lavorare, infatti, significa anche operare, ed è un termine che nel Vangelo di Matteo e in quello di Giovanni richiama alla fedeL’opera per eccellenza è proprio credere. Niente di moralistico o volontaristico dunque. Il padre sta annunciando ai suoi due figli la Buona Notizia che per loro è preparata una “vigna” dove poter “credere”.

Allora, “che te ne pare?”, quale dei due figli sei? Hai accolto l’invito del Padre? Dove sei “oggi”? Sei andato nella “vigna”?

Se, come Giovanni Battista, ti dicessi che sei corrotto, attaccato al denaro, avido e avaro come un “pubblicano”? O se ti dicessi che sei una “prostituta”, venduto a chi ti offre più affetto e considerazione? Come reagiresti? Forse ti adireresti, e cominceresti a difenderti cercando di dimostrare che non lo sei. Sì, commetto qualche peccato, non rubo, non uccido, insomma, qualche parolaccia, uno scatto d’ira, e poco più.

Se pensi così significa che sei ancora cieco. “Pur vedendo” tanti peccatori convertirsi e camminare nella “via della giustizia” dove imparano a compiere la volontà di Dio, “non ti penti”. Non puoi “credere” all’annuncio della Chiesa perché cerchi la “vanagloria” dagli uomini. Il demonio ti sta ingannando incensando il tuo “ego”.

Sei troppo preoccupato di saziarlo che non puoi “lavorare nella vigna”: io, io, io, io… Quando gli altri ti parlano non li senti, perché non sono che appendici del tuo io. Non hanno nome, valore, importanza se non in relazione alla tua fame.

Come molti di noi hai bisogno di aprire gli occhi e scoprire che sei tu il figlio incapace di obbedire. Che sei un “pubblicano” che usa gli altri per saziarsi, come una “prostituta” che fa della sua vita, anche della chiamata ad essere cristiano, uno squallido mercimonio.

Solo chi si scopre peccatore può credere all’annuncio del Kerygma; solo chi ha compreso che è un orgoglioso e cerca la sua vita in quello che non sazia, come il secondo figlio che ha compreso per che cosa valga la pena spendersi, può obbedire al Vangelo per entrare nel Regno dei Cieli.

Ma non possiamo farlo da soli. Ci scandalizzeremmo di noi stessi, e ci disprezzeremmo. Per scoprire la verità e aprirci alla conversione abbiamo bisogno di un esodo come quello percorso nel deserto dal Popolo di Israele, nel quale scoprire quello che siamo e, contemporaneamente chi è Dio. Di una comunità dove sperimentare che non siamo soli, che Dio non ci ha abbandonati ai nostri peccati, e che Gesù cammina accanto a noi, come un fratello, con pazienza e misericordia.

Si potrebbe dire, infatti, che i due figli della parabola sono immagine il primo di ciascuno di noi, e il secondo di Gesù. Lui si è fatto peccato, lasciando che tutti pensassero che fosse un empio millantatore; che si diceva figlio di Dio ma “non aveva voglia” di andare nella “vigna” a fare il “messia” come Israele si aspettava.

Ma proprio nella sua umiliazione ha aperto un cammino al “pentimento”, Certo, Gesù non aveva bisogno di convertirsi, ma ha voluto percorrere il cammino di ritorno a Dio perché noi tutti potessimo tornare a casa di nostro Padre, a lavorare nella sua “vigna”, come il figlio prodigo.

Nell’Antico Testamento essa era immagine di Israele, il Popolo che Dio aveva scelto per rivelarsi e divenire così segno della sua presenza tra le nazioni. Ma nel Nuovo Testamento essa diviene immagine della Chiesa, la comunità cristiana. E’ anche un anticipo del “Regno dei Cieli”, un suo segno visibile e credibile offerto al mondo.

In essa “lavorano” per crescere nella fede i figli di Dio. Ma qual è, concretamente, questo “operare”?  Ce lo spiega San Paolo: nella “vigna” si cresce nell’amore e nella comunione, imparando giorno dopo giorno, “oggi” dopo “oggi”, a “non fare nulla per rivalità o vanagloria”; nella Chiesa si sperimenta la gratuità dell’amore di Dio.

Secondo l’originale, infatti, in essa non si “lavora” per un “salario” mondano, per la “vanagloria”, ma per la “gloria” autentica, la sostanza e il peso della vita che Gesù ha acquistato per tutti attraverso la sua kenosi, il suo annientamento.

Egli ha rinunciato a tutto e si è fatto l’ultimo, il servo di tutti, andando al nostro posto nella “vigna” ad offrire se stesso sulla Croce piantata in essa. Così ha inaugurato il cammino autentico per raggiungere la “gloria” preparata per tutti nel “Regno dei Cieli”. Per essersi umiliato il Padre “lo ha esaltato” e gli ha spalancato il Cielo dove è entrato con una carne simile alla nostra, primogenito di molti fratelli.

Per questo nel “Regno dei cieli” i peccatori “precedono” quelli che si ritengono giusti. Nella “vigna”, dove lo Sposo del Cantico dei Cantici scende per unirsi alla sua Sposa, sono rovesciati i criteri mondani, perché l’amore di Dio esalta gli umili, quelli che hanno riconosciuto la propria realtà e sono pronti ad annegare l’uomo vecchio nelle viscere di misericordia di Dio, e ricominciare ogni giorno con Cristo una vita nuova.


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L'obbedienza come conversione dell'amore

Lectio divina per la 26ª Domenica del Tempo Ordinario - Anno A


Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la 26ª Domenica del Tempo Ordinario – Anno A.



Rito Romano – XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 28 settembre 2014
Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32.




1) Obbedire all’amore è libertà.
Dalla parabola del Padre, che manda i suoi due figli a lavorare nella vigna potrebbe nascere come prima e spontanea riflessione quella di identificarsi o in colui che dice di sì, ma poi disobbedisce, o in colui che si ribella alla richiesta paterna, ma poi obbedisce. In realtà 

questi due fratelli fanno entrambi lo stesso errore di fondo: entrambi considerano il Padre come un padrone.
Il primo accetta subito, vuol far credere a suo padre di essere quello che non è, ma poi, appena può, non tiene fede all’impegno preso. Il secondo risponde chiaro “Non ho voglia”, avverte il lavoro nella vigna come pesante, preferirebbe fare altro, avrebbe altri progetti, altre intenzioni, però “si pente”1l’amore al Padre vince su di lui e si incammina verso la vigna.
Quando il Padre è visto e trattato come un padrone si è portati a vivere come schiavi di una volontà superiore con la quale non si è d’accordo ed alla quale ci si sottomette per timore. Con questa parabola, Cristo ci indica che con il pentimento si può seguire la volontà del Padre per attrazione d’amore e non per costrizione. Dio è un padre, non un padrone.
Dio è il Padre che ama e invita ad accogliere il suo amore.
L’amore non è facile soprattutto quando ci dà degli ordini, che non capiamo e che viviamo come limitanti la nostra libertà. A questo riguardo, Gesù ci insegna che la nostra libertà esige prima il rinnegamento del proprio egoismo, la morte al peccato, perché, aderendo a Dio la nostra vita in Dio si dispieghi nel mondo. Il cammino dell’anima nella vita vera è un rapporto di obbedienza. All’inizio è certamente una rinuncia a sé (cfr Mc 8,34), un rinnegamento di sé per un ritorno dall’alienazione, in cui ci ha posto il peccato, al pieno possesso del nostro essere in Dio. Nell’adesione a Dio l’anima nostra può sempre più vivere la libertà divina e sempre più può espandersi e dilatarsi nell’immensità della vita di Dio. Per questo l’obbedienza è la via della vita! Volerci dispensare dall'obbedienza a Dio è dispensarci dalla vita, è rimanere rattrappiti nel nostro piccolo io, chiusi, soffocati nel peccato, alienati a noi stessi, al nostro vero io, amato da Dio dal cui Amore nasce il nostro amore.
A questo Amore si convertì il figlio che aveva detto di “no” al Padre. Che cosa ha disarmato il rifiuto di questo figlio? Il pentimento, provocato dal cuore e la mente cambiati. Il suo pentirsi (cfr nota 1) significò “cambiare mentalità, cambiare il modo di vedere”, di vedere il padre e la vigna. Il padre non è più un padrone da obbedire o, peggio ancora, da ingannare, ma il capo famiglia che invia il figlio nella vigna, che è anche sua, per una vendemmia abbondante, per un vino di festa per tutta la casa. E la fatica diventa piena di speranza e di amore.
Il figlio obbediente che “si pentì” (cfr Mt 21, 30) aveva capito che l’alternativa di fondo era (ed è) tra un’esistenza sterile e un’esistenza feconda, che trasformava (e trasforma) un angolo di deserto in vigna, e la propria famiglia in un frammento del paradiso di Dio. Lungi dal diminuire la sua dignità di figlio, l’obbedienza fa crescere la sua libertà e la ordina, come una specie di ordinazione, per la missione di coltivare la vigna del mondo. E’ come l’imposizione delle mani il giorno dell’ordinazione sacerdotale, nella quale la missione del prete comincia e, in nome di Dio, il Vescovo invia ad andare nelle vigna del Signore. L’obbedienza è imitazione di Cristo e partecipazione alla sua missione. Chi obbedisce si preoccupa di fare ciò che Gesù ha fatto e, al tempo stesso, ciò che Lui farebbe nella situazione in cui ognuno di noi si trova oggi.
2) L’obbedienza2 e la libertà non sono contraddittorie.
Dio “osa” affidarci la Sua vigna, ci dona la Sua “proprietà”, ci “ordina” di lavorare, affidando il suo disegno di bontà alla nostra libertà e di realizzarlo. L’ubbidienza della Vergine Madre “realizzò” Dio, diede la sua carne a Dio, e fece un’esperienza grandissima di libertà. Dio ci chiede la stessa cosa, amorosamente. E l’obbedienza è la nostra risposta al suo amore. L’obbedienza è il frutto dell’amore e servizio all’Amore. Non c’è amore senza obbedienza e senza amore l’obbedienza diventa servile.
Per ogni figlio di Dio ribelle, ma pentito e capace di amore, il Figlio di Dio ha assunto la condizione umana, ha vissuto tra noi, come servo, ha affrontato il giudizio dei superbi, è salito sulla croce, ed è morto; ma, nella sua morte è stata lavata ogni colpa, e, nella sua resurrezione, ogni peccatore risorge, e diventa capace di riamare Dio, di ascoltarlo ed obbedire alla sua Parola, che ci dice parole che interpellano ognuno di noi, ogni giorno.
Ma Gesù non solamente ci mette in guardia da una religiosità vuota, fredda e formale, che si esaurisca in pratiche esteriori, ci invita a coltivare in profondità la fede e un autentico rapporto filiale con Dio, un rapporto saldamente radicato nell’amore, che accoglie, ascolta e, umilmente, obbedisce.
Gesù è tra i due fratelli il terzo che dice di “sì” subito e subito fa anche ciò che gli viene ordinato. Questo terzo fratello3 è il Figlio unigenito di Dio, Gesù Cristo, che entrando nel mondo, ha detto: “Ecco, io vengo […] per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7). Questo “sì”, Lui non l’ha solo pronunciato, ma l’ha compiuto, obbedito e sofferto fin dentro la morte, ed alla morte di croce (cf Fil 2, 6-8).
In umiltà ed obbedienza, Gesù ha compiuto la volontà del Padre, è morto sulla croce per i suoi fratelli e le sue sorelle - per noi - e ci ha redenti dalla nostra superbia e testardaggine.
Queste due virtù insieme con la castità e la povertà formano la croce che ogni giorno ci è “ordinato” di prendere, per salvare noi e il mondo: “L’obbedienza consacra il nostro cuore, la castità il nostro corpo, e la povertà i nostri beni all’amore e al servizio di Dio: sono i tre bracci della croce spirituale, che poggiano sul quarto che è l’umiltà” (San Francesco di Sales, Filotea, cap. 10). 
L’umiltà non gode - al giorno d’oggi e, forse non ha mai goduto – di una grande stima, ma le Vergini consacrate nel mondo sanno che questa virtù rende fecondo il lavoro nella vigna di Dio. Umiltà viene dalla parola latina humilitas, che ha a che fare con humus (terra), cioè con l’aderenza alla terra, alla realtà. Queste donne, che si sono donate completamente a Dio, vivono da persone umili perché vivendo in Lui e per Lui ascoltano umilmente Cristo, la Parola di Dio, e tendono avere gli stessi sentimenti del loro Sposo (“Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” - Fil 2,5), da loro amato. E come diceva Sant’Agostino: “Non c’è carità senza umiltà” (Prologo del Commento alla Lettera di San Giovani) e in altro libro scrive: “Custode della verginità è la carità, la casa dove abita questo custode e l’umiltà” (Sulla Santa virginità, 51, 52).
La vocazione a vivere la verginità consacrata come dono completo di sé a Cristo e segno della Chiesa Sposa si esplicita nel loro affidarsi senza riserve all’amore del loro Sposo, all’intensità della comunione con Lui, all’umile carità che si fa servizio disinteressato alla Chiesa e testimonianza luminosa di fede, speranza e carità, nel contesto della vita ordinaria.
Come chiede il Rito di consacrazione (cfr nn. 14-18) ogni vergine appartenente all’Ordo si impegna costantemente ed ha presente che la preghiera non è solo personale, generosa risposta alla voce dello Sposo e umile richiesta di aiuto per mantenersi fedele al santo proposito e al dono ricevuto, ma è intima partecipazione alla vita del corpo mistico di Cristo, intercessione instancabile per la Chiesa e per il mondo.
*
NOTE 
1 Il testo greco del Vangelo usa il participio aoristo di μεταμέλομαι (metamélomai=mi pento), che letteralmente andrebbe traddotto “avendo l’animo cambiato ebbe il cuore per fare qualcosa”, quindi per andare a lavorare nella vigna: in breve: “cambiare modo di vedere, di pensare”. Questo verbo oltre ad essere usato al versetto 30 del capitolo 21 di Matteo per il figlio obbediente è usato anche al versetto 32.
2 Obbedire viene dal latino, e significa ascoltare, sentire l'altro. “Obbedire a Dio è ascoltare Dio, avere il cuore aperto per andare sulla strada che Dio ci indica. L'obbedienza a Dio è ascoltare Dio. E questo ci fa liberi”. (Papa Francesco).
Il 19 agosto 2012 per la XX domenica TO anno B scrivevo: “Obbedire a Dio è “realizzare” Dio. La Madonna con il suo “sì” ha fatto Gesù. Il suo fiat ha dato carne alla Parola di Dio. Con il mio “sì” al comando di Cristo: “Fate questo in memoria di me”, faccio Lui. Quando nella Messa dico: “Questo è il mio Corpo”, faccio Lui, dò carne al Verbo di Dio. L’obbedienza affettuosa a Dio è liberante, è libertà, perché il suo comando non è un’imposizione di un Dio arbitrario e capriccioso, ma una parola (logos) con la quale amorosamente rivela il suo cuore ed il nostro futuro.
3 Si tratta di un’intuizione del Papa emerito Benedetto XVI.

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