L’esperienza che unisce corpo e anima.
Il piacere nella Bibbia diventa attore dell’incontro con Dio.
“Arriverà il giorno in cui tutti dovremo rendere conto a Dio delle belle cose che abbiamo visto con i nostri occhi, ma delle quali ci siamo rifiutati di godere”, dice un’antica sentenza rabbinica. Dal canto suo la Bibbia afferma che «dalla bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore» (Sap 13,5). Riempie il cuore la positività con cui siamo invitati a guardare la realtà creata che ci circonda e in cui viviamo. E tuttavia, una lunga tradizione culturale e morale ha scisso il nesso positivo che lega le creature al creatore, così che il godimento delle creature è stato ritenuto un tabù.
Per accostarsi al testo biblico alla ricerca del significato che esso dà al piacere, occorre perciò aver chiaro cosa noi lettori moderni intendiamo per «piacere», poi cosa intendevano gli autori biblici, influenzati dal loro contesto storico-culturale, e infine qual è il messaggio biblico genuino, cioè cosa ha voluto trasmetterci al riguardo Dio, l’autore principale della Bibbia.
Per quanto ci riguarda, prima la filosofia greca, poi la morale cristiana da essa influenzata, hanno impresso un’accezione negativa al concetto di piacere. Anzitutto, si è detto che il piacere è soltanto dell’uomo in quanto è caratterizzato dalla materia, dai sensi, dal divenire, deve generare, ha passività, affettività, sofferenza, emozioni. Mentre la divinità è eterna, immutabile, impassibile.
Per cui l’uomo è chiamato a praticare l’etica come ascesi: deve distaccarsi da tutto ciò che è umano per avvicinarsi a ciò che è divino. L’obiettivo è l’impassibilità, la negazione della percezione e la soppressione totale delle emozioni. Si è posta poi la dicotomia tra piaceri cattivi, quelli dei sensi, e piaceri buoni, quelli dell’intelletto. E i termini pathos (passione), epithymia (desiderio), hedoné (piacere) sono stati identificati e appiattiti alla sola sfera sessuale.
Oltre a questa visione della filosofia greca, sulla lettura cristiana della Bibbia ha molto influito il pensatore giudeo-ellenistico Filone alessandrino. Per lui il piacere è fonte di disordine individuale e sociale ed è sostanzialmente estraneo alla costituzione originaria dell’uomo. Inoltre, già i traduttori greci della Bibbia ebraica nel terzo-secondo secolo a.C. avevano utilizzato il verbo epithymein (desiderare) – così negativamente connotato – per tradurre i comandamenti del decalogo: non commettere adulterio, non desiderare la donna d’altri, non desiderare la roba d’altri.
Con questi presupposti, la tradizione cristiana ha così interpretato i testi biblici: per vivere secondo la volontà di Dio, per piacergli ed entrare in comunione con lui bisogna rinunciare ad ogni piacere sessuale, dove la sessualità è circoscritta alla sola sfera della genitalità e della procreazione.
Nonostante i progressi dell’esegesi biblica, dell’antropologia e della morale cristiana, ancora oggi non è facile avere una concezione talmente positiva del piacere da accostarsi alla Bibbia con libertà per scoprirvi cosa ne dice. Ne è un esempio evidente il fatto che la voce «piacere» è assente nei dizionari biblici o teologici. D’altro canto, un impulso positivo e liberante è venuto dalle letture «femministe» della sacra Scrittura.
Una lettura libera da tabù secolari fa emergere contenuti insospettabili. Se le Scritture, in un intreccio armonioso, ci dicono la verità di Dio e quella dell’essere umano, è qui che ci sono riservate le maggiori sorprese. La sensibilità, l’emotività e la corporeità non appartengono solo all’uomo, ma a Dio stesso. Lungi dall’essere motore immobile, immutabile e impassibile, il Dio biblico è coinvolto pienamente nell’avventura del rapporto di amore con le sue creature. E che non si tratti di semplici antropomorfismi lo dimostra il misterioso e concreto evento dell’incarnazione divina in Gesù di Nazareth.
Già gli scritti dell’Antico Testamento gettano lo sguardo nel cuore e nella mente di Dio e lo mostrano come un padre che segue amorevolmente i figli, come una madre che ama visceralmente, come uno sposo che non si rassegna ad essere tradito dalla moglie e per riportarla a sé sa escogitare situazioni di infinita tenerezza. Solo chi ha un cuore arido può leggere questi testi senza connettere l’esperienza della riconciliazione tra Dio-sposo e Israele-moglie con la sensazione del piacere.
Il testo sulla creazione dell’uomo «a immagine e somiglianza» di Dio (Gen 1,26-27) troppo spesso è stato interpretato in senso spiritualista e intellettualista; in realtà è il testo stesso a orientare per coglierne il significato corretto. È l’uomo in quanto «maschio e femmina», nella caratterizzazione sessuale, che porta impressa la somiglianza divina. Non occorre certo immaginare il sesso in Dio.
Bisogna invece lasciarsi affascinare dall’affermazione dell’autore biblico, tanto più ardita in quanto Gen 1 evoca chiaramente racconti dei popoli circostanti in cui l’attività sessuale della divinità è esplicitamente ammessa. Se il testo della Genesi ha accettato il rischio di essere frainteso, è segno che annetteva all’asserzione un’importanza particolare; la caratterizzazione sessuale rimanda alla possibilità umana di vivere pienamente l’identità voluta dal creatore. In maniera più narrativa dirà la stessa cosa il capitolo secondo della Genesi parlando del “non-bene” della solitudine dell’uomo e della gioia di essere «una sola carne».
A esemplificare come tutto ciò porta al piacere dell’incontro sessuale ci penserà il Cantico dei Cantici. Ed è emblematico come ciò che fa problema agli interpreti di tutti i tempi non sia il significato immediato del poema, che è ovvio, ed è quello della ricerca del piacere erotico-affettivo di due giovani amanti, ma il significato globale di questo libretto nel canone biblico. Il rompicapo è: cosa ci sta a fare un poema d’amore “profano” nelle Scritture che ci rivelano il volto di Dio?
L’escamotage dell’interpretazione allegorica praticata dalla tradizione rabbinica e da quella cristiana aggira il problema togliendo consistenza all’amore umano, ma non riuscendo a far percepire esistenzialmente la solidità dell’amore divino. Ma neanche l’interpretazione letterale fa giustizia, perché lo scandalo cui mira l’operazione del Cantico dei Cantici come testo di rivelazione è quello di stabilire un nesso circolare tra l’esperienza sessuale, la più profonda possibilità di comunione data agli umani, e la manifestazione sensibile dell’amore di Dio.
La lingua ebraica lascia intravedere qualcosa di questo misterioso intreccio utilizzando lo stesso verbo yada‘, conoscere, sia per il rapporto sessuale, sia per la conoscenza del Signore. Entrambe le conoscenze hanno come meta il piacere, senza la necessità di specificare il piacere sensibile o il piacere spirituale, perché l’antropologia biblica pensa all’essere umano come unità, non lo sdoppia in anima e corpo. Come ogni esperienza, anche il piacere è insieme sensibile e spirituale.
Giuseppe De Carlohttp://www.messaggerocappuccino.it
Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
RispondiElimina