Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

giovedì 7 giugno 2012

IX settimana del Tempo Ordinario & APPROFONDIMENTI

Da Il Vangelo del Giorno

Centro dell’esistenza, 
la Legge di Dio chiede l’ascolto del cuore, 
un ascolto fatto di obbedienza non servile, 
ma filiale, fiduciosa, consapevole. 
L’ascolto della Parola 
è incontro personale con il Signore della vita, 
un incontro che deve tradursi in scelte concrete 
e diventare cammino e sequela. 

Benedetto XVI, Catechesi del 9 novembre 2011 


Mc 12,28-34 
In quel tempo, si accostò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi”. Allora lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

IL COMMENTO

La saggezza è nella qualità della risposta ad una domanda. La domanda. "Qual'è il primo dei comandamenti?". Come dire: "Su che cosa fondare l'esistenza? Che cos'è decisivo e imprescindibile nella vita? A quale comando obbedire per vivere, e per vivere pienamente? Cosa fare per essere felici?". 

Il principio della sapienza è il timore del Signore. Temerlo, amarlo. Sperimentare la Sua presenza nella nostra vita. E che la Sua presenza è UNICA, come Lui è UNICO. La sapienza è amarlo con tutto noi stessi, consegnandogli tutto di noi. Ed è la sapienza più genuina perchè è quella che scopre l'evidenza della realtà più profonda, la verità su cui poggia l'universo: Dio esiste, ed è unico. Unico nell'amore, ad ogni uomo in qualunque situzione si trovi. Unico nella misericordia. Unico nel potere con il quale ci libera. Sul Sinai, l'incipit delle Dieci Parole di Vita, vergate con il fuoco dell'amore divino, rammentano un'esperienza. L'ascolto è preceduto e accompagnato da un'esperienza: la liberazione dall'Egitto. Nella liberazione l'esperienza di Dio. E Dio era solo, non v'era con Lui alcun dio straniero. Lui ha spiegato le Sue ali e ha liberato il Suo popolo. Ha rivelato se stesso nella forza incommensurabile del Suo amore, l'unico che ha reso possibile l'impossibile. Non vi sono altri dei, non si allineano altri signori. E' uno. E' Dio. 

Amarlo perchè è unico. Amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze è l'unica vita ragionevole. A chi consegnare se stessi se non vi è nessun altro che Lui? Chi amare se non ci ha creato, amato e redenti se non Lui solo? Come dividere il nostro amore con idoli vani, inesistenti, incapaci d'amare e di salvare? Tutto ha origine da un'esperienza. Nella nostra concretissima vita. Non si tratta di un impegno, di buona volontà. Si tratta d'amore. Un bambino ama chi lo ama. Un bambino entra nel Regno dei cieli. Un bambino è il più saggio perchè vive rispondendo "naturalmente" ad un'evidenza: l'amore dei suoi genitori. Con i limiti della carne, con i capricci e e le marachelle che non intaccano assolutamente la saggezza dello spirito d'un fanciullo. 

Dio è unico, il Suo amore è l'unico che scende con noi e in noi, nella sofferenza più profonda, nei dolori di un cancro, nelle angosce dei tradimenti e dei fallimenti, nei tormenti dei dubbi, in TUTTI gli istanti delle nostre vite. Lui è L'UNICO che ci ama così come siamo. Lui SOLO può darci la vita nella morte. L'esperienza del Suo amore genera il radicale e assoluto amore a Lui. Da esso sgorga, naturalmente, l'amore al prossimo, il dono totale financo al nemico, chè ogni uomo reca scoplito il cromosoma divino. Ascoltare è dunque amare. Ascoltare la Verità e obbedire alla Verità (In ebraico i due verbi coincidono). Nulla di sentimentale, erotico e passionale. Un amore crudo, totale, ragionevole e sapiente. L'amore crocifisso di Colui che, unico, ci ha donato tutto. Nel Suo tutto consegnato il nostro tutto consegnato. Amore per amore.

Mc 12.28-34. Esegesi e interpretazione



Il modo esatto di amare il prossimo Agostino, De doctr. christ., 1, 26-29


Dunque, poich? non è necessario un ordine, perch? ognuno ami se, stesso e la propria persona, cioè, poich? ciò che noi siamo singolarmente e comunitariamente ci riguarda in modo partico-lare, amiamo con una legge fermissima che anche negli animali è stata estesa - infatti anche gli esseri inferiori amano s? stessi e i loro corpi - non rimaneva, e per quel precetto che è sopra di noi, e per quello che è presso di noi, che osservarlo, come sta scritto: « Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, e con tutta la tua intelligenza » e, « Amerai il prossimo tuo come te stesso ». Da questi due comanda-menti dipende tutta la legge e i profeti (Mt. 22, 37-40). L'amore, infatti, è lo scopo del precetto, cioè, ambedue di Dio e del prossimo. Poich? se tu ti ami nella tua interezza, cioè nell'anima e nel corpo, e parimenti, il tuo prossimo, nell'anima e nel corpo -la persona umana, infatti, è composta di anima e di corpo - in questi due comandamenti non è tralasciata nessuna delle cose che bisogna amare. Precedento, infatti, l'amore di Dio ed apparendo prescritta la maniera di amarlo, tanto che le rimanenti cose sono comprese in esso, sembra che niente sia stato detto intorno al-l'amore di te stesso, ma, poich? si è detto: « Ama il tuo prossi-mo come te stesso » simultaneamente anche l'amore di te stesso non è stato disgiunto da te. Vive, infatti, una vita giusta e santa, colui che sa stimare rettamente le cose; questi inoltre, è colui che ha un amore ordinato, perch? o non ama ciò che è da amarsi, oppure non ama ciò che deve amarsi, o ama esageratamente ciò che deve amare di meno, oppure ama in maniera eguale ciò che deve amare o di meno o di pi?, poich? è da amarsi in maniera giusta. Ogni peccatore, in quanto è tale, non lo si deve amare, ed ogni uomo, in quanto è tale, deve essere amato per amor di Dio, ma Dio, per se stesso. E se si deve amar maggiormente Dio che ogni uomo, ognuno deve amare Dio più di se stesso. Parimenti si deve amare di pi? un altro uomo che la propria persona, poich? è a motivo di Dio che tutte queste cose si debbono amare, e un altro uomo può insieme con noi godere di Dio, ciò che non può il corpo, poich? il corpo vive per mezzo dell'anima, con la quale godiamo di Dio. Tutti gli uomini, inoltre, debbono amarsi in maniera giusta, ma poich? tu non puoi essere di utilità a tutti, devi provvedere in special modo a quelli che sono uniti a te pi? strettamente quasi con una certa sorte, dalle condizioni o dei luoghi, o dei tempi o di qualsiasi altra circostanza. Come, infatti, se tu fossi nell'abbondanza in qualche cosa, ciò che bisognerebbe dare a colui che non ha, non si sarebbe' potuto dare a due persone, se ti venissero incontro due, dei quali n? il primo n? il secondo supera l'altro o per indigenza o in qualche bisogno verso di te, [e cos? agendo] non faresti niente di pi? giusto che scegliere per sorte a chi si dovrebbe dare, poich? non è possibile dare a tutti e due, cos? negli uomini, ai quali tutti tu non possa provvedere, si deve giudicare che ognuno può esserti congiunto temporaneamente dalla sorte. Inoltre, fra tutti, quelli che con noi possono godere di Dio, in parte amiamo quelli che aiutiamo, in parte quelli dai quali siamo aiutati, in parte quelli del cui aiuto abbiamo bisogno ed alla cui indigenza siamo venuti incontro, in parte quelli ai quali n? abbiamo dato alcunch? di utilità e n? da quelli da cui attendiamo che venga elargito a noi. Dobbiamo, tuttavia, volere che tutti amino Dio insieme con noi, e deve tendere tutto a quest'uni-co scopo il fatto o che noi siamo loro di aiuto, oppure essi di giovamento a noi.


Amore di Dio e amore del prossimo Colombano Abate, Praecepta, 11, 1-4


Mosè scrisse nella legge: Dio fece l'uomo a immagine e somiglianza sua (Gen. 1, 26). Considerate, di grazia, la dignità di queste parole. Dio onnipotente, invisibile, incomprensibile, ineffabile, inestimabile, fa l'uomo con del limo, e lo nobilita con la dignità della sua somiglianza. Qual è il rapporto tra il limo e Dio? Quale, quello tra il limo e lo spirito? Dio infatti, è spi-rito (Gv. 4, 24). Enorme degnazione di Dio, il quale donò all'uomo l'impronta della sua eternità e la somiglianza dei suoi costumi! Enorme dignità per l'uomo la sua somiglianza con Dio, se questa vien conservata; ma anche poi tremenda rovina, qua-lora venga profanata l'immagine di Dio!... Tutte le virt? che Dio seminò in noi nella nostra condizione primitiva, ci ha insegnato, poi, coi suoi precetti, a restituirgliele. Questa è la prima: Amare il nostro Dio con tutto il cuore (Mt. 22, 37; Mc. 12, 30), perch? lui per primo ci ha amati (1 Gv. 4, 10), dal principio, prima ancora che fossimo. L'amor di Dio è la rinnovazione della sua immagine. Ama Dio chi ne osserva le leggi; disse infatti: Se mi amate, osservate i miei precetti (Gv. 13, 34). Il vero amore non è fatto di parole, ma di opere (cf. 1 Gv. 3, 28). Restituiamo perciò a Dio, nostro Padre, la sua immagine inviolata nella santità, perch? lui è santo (Siate santi, perch? io sono santo, Lev. 11, 44 e 1 Pt. 1, 16), inviolata nella carità, perch? lui è amore (1 Gv. 4, 8: Dio è amore), inviolata nella pietà e nella verità, perch? lui è pio e verace. Evitiamo di farci un'immagine diversa da quella di Dio; infatti sarebbe a immagine di un tiranno, chi fosse superbo, iracondo, feroce... Perch?, dunque, non ci diamo delle immagini di tiranni, dipinga in noi Cristo la sua immagine, lui che dipinse un'imma-gine, quando disse: Vi do la mia pace, vi lascio la mia pace (Gv. 14, 27). Ma che cosa vale sapere che la pace è un bene, se poi questa pace non è ben conservata? Di solito quanto pi? una cosa è buona, tanto pi? è fragile, e quanto pi? è preziosa, tanto pi? accortamente dev'essere custodita; è veramente troppo fragile ciò che si può sciupare con una sola parola o con un piccolo sgarbo... Purtroppo niente è più gradito agli uomini che interessarsi delle cose altrui, parlar di cose inutili e dir male degli assenti; perciò coloro che non possono dire: Il Signore mi ha dato una lingua raffinata, per sostener con la mia parola colui che è stanco (Is. 50, 4) tacciano e, se vogliono dir qualcosa, sia detto solo al fine di fomentar la pace... Chi non ama sta nella morte (1 Gv. 3, 14). Dunque, o non si deve far altro che amare, o non ci si può aspettar altro che la morte. La pienezza della legge, infatti, sta nell'amore (Rom. 13, 8). E che questo amore si degni ispirarci abbondantemente il Signor nostro e Salvatore Gesù Cristo, chi ci è stato donato da Dio, autore della pace e dell'amore. 



Chi ama Dio lo conosce (Agostino, De Trinit., 8, 8, 12)

Osserviamo quanto l'apostolo Giovanni ci raccomandi l'amore fraterno: Colui che ama il suo fratello, egli dice, dimora nella luce, e nessuno scandalo è in lui (1 Gv. 2, 10). È chiaro che egli ha posto la perfezione della giustizia nell'amore del fratello; perch? colui nel quale non c'è scandalo è perfetto. E tuttavia sembra aver taciuto dell'amore di Dio, cosa che non avrebbe mai fatto se nello stesso amore fraterno non sottintendesse Dio. Poco dopo infatti, nella stessa Epistola, dice in modo chiarissimo: Carissimi, amiamoci vicendevolmente perch? l'amore viene da Dio; colui che ama è nato da Dio, e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perch? Dio è amore (1 Gv. 4, T8). Questo contesto mostra in maniera sufficiente e chiara che questo amore fraterno - infatti l'amore fraterno è quello che ci fa amare vicendevolmente -non solo viene da Dio, ma che, secondo una cos? grande autorità, è Dio stesso. Di conseguenza, amando secondo l'amore il fratello, lo amiamo secondo Dio. N? può accadere che non amiamo prin-cipalmente questo amore, con cui amiamo il fratello. Da ciò si conclude che quei due precetti non possono esistere l'uno sen-za l'altro. Poich? in verità Dio è amore (1 Gv. 4, 8.16), ama certamente Dio, colui che ama l'amore ed è necessario che ami l'amore colui che ama il fratello. Perciò poco pi? innanzi l'apo-stolo Giovanni afferma: Non può amare Dio, che non vede, colui che non ama il prossimo che vede (1 Gv. 4, 20), perch? la ra-gione per cui non vede Dio è che non ama il fratello. Infatti chi non ama il fratello, non è nell'amore e chi non è nell'amore non è in Dio, perch? Dio è amore (1 Gv. 4, 16). Inoltre chi non è in Dio non è nella luce, perch?: Dio è luce, e tenebra alcuna non è in lui (1 Gv. 1, 5). Qual meraviglia, dunque, se chi non è nella luce non vede la luce, cioè non vede Dio, perch? è nelle tenebre (1 Gv. 1, 9-11)? Vede il fratello con sguardo umano che non permette di vedere Dio. Ma se amasse colui che vede per sguardo umano, con carità spirituale, vedrebbe Dio, che è la carità stessa, con lo sguardo interiore con cui lo si può vedere. Perciò chi non ama il fratello che vede, come potrà amare Dio che non vede, precisamente perch? Dio è amore (1 Gv. 4, 8.16.20), amore che manca a colui che non ama il fratello? E non si ponga più il problema di sapere quanto amore dobbiamo al fratello, quanto a Dio. A Dio, senza alcun confronto, pi? che a noi. Al fratello poi tanto, quanto a noi stessi. Amiamo infine tanto pi? noi stessi quanto più amiamo Dio. 




L'amore fa abitare Dio in noi. Agostino, In Io. ep. tract., 8, 12


Nessuno vide Dio. Ecco, dilettissimi: Se ci amiamo vicende-volmente, Dio resterà in noi, e il suo amore in noi sarà perfetto. Incomincia ad amare e giungerai alla perfezione. Hai cominciato ad amare? Dio ha iniziato ad abitare in te; ama colui che iniziò ad abitare in te affinch?, abitando in te sempre pi? perfettamen-te, ti renda perfetto. In questo conosciamo che rimaniamo in lui e lui in noi: egli ci ha dato il suo Spirito (1 Gv. 4, 12-13). Bene, sia ringraziato il Signore. Ora sappiamo che egli abita in noi. E questo fatto, cioè che egli abita in noi, da dove lo conosciamo? Da ciò che Giovanni afferma, cioè che egli ci ha dato il suo Spi-rito. Ed ancora, da dove conosciamo che egli ci ha dato il suo Spirito? S?, che egli ci ha dato il suo Spirito, come lo sappiamo? Interroga il tuo cuore: se esso è pieno di carità, hai lo Spirito di Dio. Da dove sappiamo che proprio a questo segno noi cono-sciamo che abita in noi lo Spirito di Dio? Interroga Paolo apostolo: La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo che è dato a noi. 




La legge dell'amore. Giovanni Crisostomo, Comment. in Matth., 1, 5


Ges? Cristo ci insegna ciò che è giusto, onesto, utile, e tutte le virt?, in pochissime parole, chiare, comprensibili a tutti, come quando dice: In due comandi si riassumono la legge e i profeti (Mt. 22, 40), cioè nell'amore verso Dio e nell'amore verso il prossimo; oppure, quando ci dà questa norma di vita: Fate agli altri tutto ciò che voi volete ch'essi facciano a voi. Sta in questo la legge e i profeti (Mt. 7, 12). Non c'è contadino, n? schiavo, n? donna semplice, n? fanciullo, n? persona di limitata intelligenza che non riesca a comprendere facilmente queste parole: nella loro chiarezza, infatti, è il segno della verità, e l'esperienza ha dimostrato questo. 


APPROFONDIMENTI


Silvano Fausti. Ascolta, Israele


Mc 12.28-34. Esegesi e interpretazione




Da F. Manns "Voi, chi dite che io sia?"


Un maestro da seguire


I giovani cercano dei modelli. La freschezza dell'insegnamento di Gesù non poteva lasciarli indifferenti. Alcuni hanno voluto seguirlo, mettere i loro piedi sulle sue orme. Nell'Antico Testamento i profeti avevano i loro discepoli e la Sapienza invitava la gente a seguirla. In che tradizione si colloca Gesù che chiama i discepoli? Per rispondere alla domanda esamineremo il racconto della vocazione del giovane ricco.
Gesù ha scelto i suoi discepoli tra i poveri. Se non esclude i ricchi esige comunque da loro gesti di rinuncia a favore dei poveri. Per capire la vocazione del giovane ricco occorre richiamare l'interpretazione ebraica dello Shemà Israel, preghiera che ogni israelita, Gesù compreso, recitava due volte al giorno. Ascolta Israele: Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze (Dt 6,4-5). Questa professione di fede faceva parte integrante delle convinzioni di ogni ebreo. Non solo, il testo di questa confessione è presentato alla venerazione di tutti in piccoli astucci appesi alle porte che si toccano prima di entrare in una stanza. Lo Shemà è innanzitutto una professione di fede, poi un richiamo del comandamento di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze.
Il vangelo di Marco ha ben presente che Gesù ha dichiarato che il primo comandamento della legge è costituito dallo Shemà. Se Gesù recitava questa pre-ghiera ne conosceva l'interpretazione corrente in quell'epoca, interpretazione che la Mishnà al trattato Berakot ha conservato. E opportuno citare que-sto commento dello Shemà: «Occorre benedire Dio per il male come per il bene, poich? è scritto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze (Dt 6,5). Con tutto il cuore: con le tue due tendenze, quella buona e quella cattiva. Con tutta l'anima: dovesse anche costarti la vita. Con tutte le forze: con tutti i tuoi averi». Questa interpretazione è antica, come è provato da un testo di Qumran. Era già conosciuta nel primo secolo a.C. È difficile pensare che questa interpretazione tradizionale non abbia avuto alcuna influenza sull'insegnamento di Gesù. È facile definire i termini chiave: cuore, anima e forza. Sappiamo che l'antropologia della Bibbia è diversa da quella greca. Essa localizza nel cuore, nel fegato e negli organi interni i moti, le emozioni, i sentimenti e anche le idee dell'anima. Il cuore significa l'interno opposto alla facciata. Ricordiamo il proverbio del primo libro di Samuele: L'uomo guarda le apparenze, il Signore guarda il cuore (1 Sam 16,7). Il cuore è sede dell'energia vitale, essendo il motore della circolazione del sangue. Il cuore vede con gli occhi e sente con gli orecchi. Di qui l'importanza dell'ascolto. Dato che la parola «cuore» in ebraico ripete due volte la lettera bet, i rabbini ne hanno dedotto che il cuore ha due propensioni: una al bene e l'altra al male. Paolo dirà che vi abitano due uomini. L' anima, nella Bibbia, è vicina al soffio. Il principio della vita è il soffio vitale. Generalmente si ammette che la nephesh* è nel sangue o che è il sangue. Amare Dio con tutta l'anima significa amare Dio fino a dargli il sangue. Il termine psuch? (l' anima) reinterpreta la concezione veterotestamentaria alla luce dell'antropologia greca fondata sulla coppia anima-corpo. Infine le forze dell'uomo possono essere fisiche o spirituali. È il vangelo di Matteo, ancora vicino alla menta-lità ebraica, che ha conservato certe interpretazioni di eventi o di parole di Gesù legate allo Shemà. La vocazione del giovane ricco illustra lo Shemà. Vi troviamo innanzitutto una professione di fede: «Uno solo è il Buono», che corrisponde a quella di Dt 6,4. Segue poi la lista dei comandamenti. Quando il giovane afferma di aver rispettato questi comandamenti Marco sottolinea lo sguardo d'amore che Gesù posa su di lui. Gesù lo invita a vendere ciò che possiede, cioè ad amare Dio con tutte le sue forze, e poi a seguirlo. Il verbo akolouthe? significa seguire, e si concretizza nell'amare Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima. La tradizione cristiana ha visto in questo testo il fondamento scritturale della vita religiosa. Lo Shemà Israel aveva lasciato un'impronta così forte nella tradizione ebraica da ispirare numerose scene evangeliche. Al capitolo 6 del suo vangelo Matteo propone tre modi per realizzare la nuova giustizia: l'elemosina, la preghiera e il digiuno. L'elemosina è l'amore di Dio con le proprie ricchezze; la preghiera è l'amore di Dio con il proprio cuore; il digiuno è l'amore di Dio con tutta la propria anima. La Bibbia in effetti definisce il digiuno come un'afflizione dell'anima. Nell'insegnamento di Gesù il tema dello Shemà è ugualmente implicito. La parabola del seminatore può essere interpretata con la stessa chiave di lettura. Quando Gesù propone questa parabola Israele si divide in due categorie. Alcuni accolgono la parola, altri la rifiutano. Coloro che la rifiutano si dividono a loro volta in tre gruppi: gli uomini del cammino; gli uomini del pietrame e gli uomini dei rovi. A questi tre gruppi mancano i requisiti dello Shemà. Alcuni non amano Dio con tutto il cuore. Altri hanno paura della persecuzione e non amano Dio con tutta l'anima. Altri infine sono soffocati dalle ricchezze. Non amano Dio con tutte le forze. Anche coloro che accettano la parola sono divisi in tre gruppi. Dare una resa al cento per uno significa amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Darla al sessanta per uno significa amare Dio con tutto il cuore e con tutte le forze, senza sacrificare la propria anima per lui. Darla al trenta per uno significa amare Dio solo con il cuore. Questa parabola è al centro del vangelo di Matteo. Gesù ogni mattina e ogni sera si disponeva ad ascoltare la parola di Dio, ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze, a inse-gnarla ai suoi discepoli; a ripeterla seduto in casa o in cammino. La comunità di Gerusalemme prenderà come modello di vita cristiana lo Shemà, come provano chiaramente i sommari degli Atti degli Apostoli. I credenti che mettevano tutto in comune cercavano di amare Dio con tutte le forze. Con un solo cuore se erano fedeli, frequentavano il Tempio e spezzavano il pane nella casa. La preghiera permetteva loro di amare Dio con tutto il cuore. L'assiduità all'insegnamento degli apostoli, la fedeltà alla comunione fraterna offrivano loro l'opportunità di amare Dio con tutta l'anima. In ciò consisteva la comunione. I credenti avevano un solo cuore e una sola anima. Nessuno era abbandonato. La loro fede nella risurrezione era la fonte del loro amore. Gesù che invita i discepoli a seguirlo sceglie questa linea profetica. Egli è il profeta che ricorda al suo popolo l'unicità di Dio che pure egli chiama Abba, Padre, perch? intrattiene con lui relazioni assolutamente uniche. Gesù è anche la Sapienza che parla con autorità e che forma dei discepoli destinati a continuare la sua opera. «Egli ha posto Lazzaro nel seno di Abramo come una sorta di porto tranquillo e di asilo inviolabile nel timore che, attirati dai piaceri del momento, noi non rimanessimo prigionieri dei vizi o che, vinti dallo scoramento, cercassimo di evitare la pena e la fatica... Non ogni povertà è santa, non tutte le ricchezze  sono condannabili, ma come la dissolutezza disonora le ricchezze, così la santità raccomanda la povertà» (S. AMBROGIO, Trattato sul Vangelo di Luca 8,14).
 

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Da Marie Vidal "Un ebreo chiamato Gesù" Una lettura del Vangelo alla luce della Torah


AMERAI IL TUO PROSSIMO COME TE STESSO!



Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso.
Ef 5, 33. 


Una rondine non fa primavera. Per la seconda parola scelta nella Torah, ricevuta e compiuta dagli amici di Gesù, il lettore beneficerà di un salto nel tempo per incontrare Paolo.


Ascolterà uno dei suoi insegnamenti per la concreta applicazione del comandamento: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19, 18). Comprenderà così la vicinanza della pratica dei primi cristiani con quella degli Ebrei. In effetti, il salto nel tempo non è che virtuale. Poich? l'Ebreo Paolo è profondamente radicato nella Torah scritta e orale. Egli stava ai piedi del Sinai con il suo popolo, il popolo di Israele, quando questo riceveva la Torah e, con il suo po-polo, Paolo rispondeva: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!» (Es 24, 7). L'insegnamento tratto da que-sto comandamento sorprenderà, farà persino ridere e provocherà battute di spirito. Il fatto è che, da un lato, la pedagogia usata qui non è più quella del racconto, dell'Haggadah, ma quella dell'etica, dell'Halakhah. E, come ai tempi di Noè, "il sapiente è amato dai suoi contemporanei finch? non dà lezioni di morale" (p. 38). D'altra parte, si tratta di una sola applicazione pratica scelta fra molte altre. I rabbini dicono che ci sono settanta spiegazioni per ogni Parola. L'una è qui preferita alle altre per stimolare ancora una volta i cristiani alla riconoscenza verso gli Ebrei dai quali han-no ricevuto questa Parola. Sfortunatamente, nel corso dei secoli, molti cristiani hanno trascurato la memoria, dimenticando che il comandamento dell'amore del prossimo è ebraico prima di essere cristiano. Non è uscito dal Nuovo Testamento, ma è dato dalla e nella Torah. E ritorna la domanda lancinante (p. 7): cosa fare e come fare perch? "aprano un piccolo spiraglio come il foro aper-to dalla punta acuta di un ago"?   Al centro del libro centrale della Torah, il Libro del Levitico, quello che si insegna per primo ai bambini, c'è la parashah «Siate santi» (Lv 19-20)1. Il Levitico è conosciuto molto poco dai cristia-ni. Tuttavia, la prima frase di questa sezione è loro familiare: «Sia-te santi, perch? lo, il Signore, Dio vostro, sono Santo». L'appello iniziale di questa sezione è seguito da esortazioni concrete e det-tagliate, incarnate, per le relazioni con il prossimo nella vita di tutti i giorni. La responsabilità del credente si esercita diversamente secondo i diversi gradi di vicinanza: il fratello, il compatriota, il figlio del compatriota, il prossimo. Ed ecco, che in mezzo alla parashah «Siate santi», in Lv 19, 18, ascoltiamo: «Amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore». I maestri della Torah orale insistono su questa Parola, e i bam-bini ebrei cantano da generazioni: "Rabbi Aqiba ha detto Amerai il prossimo come te stesso, è tutta la Torah " (Ned 9, 4 del Talmud di Gerusalemme). Anche Gesù ripete diverse volte questo comandamento. Anzitutto, nel Discorso della montagna, quando si riferisce alla Torah orale per spiegare la Torah scritta: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo» (Mt 5, 43). Poi, durante il Suo incontro con l'uomo ricco, Gesù ricorda le cinque Parole-comandamenti verso il prossimo, incise in una delle due Tavole della Torah. Ma non dice la quinta «non desidererai». Al suo posto, Gesù enuncia due Parole. Dice anzitutto la quinta Parola a fronte, sull'altra Tavola, quella dei doveri verso il Signore: «onora tuo padre e tua madre». E aggiunge subito: «ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19, 19). Infine, Gesù ripete questa Parola quando deve rispondere alla domanda dello scriba sul primo comandamento. Egli propone contemporaneamente l'atto di fede «Ascolta Israele» e il comandamento di amare il prossimo come se stessi che gli è simile (Mt 22, 39)2. Gesù, come in molte esortazioni della Torah, parla del prossimo, chiunque sia. È bene, tuttavia, ascoltarne una applicazione molto particolare data da Paolo, che la riceve dalla Torah. Ma questa applicazione non ha di particolare che il qualificativo, perch? si rivolge ad ogni uomo e a ogni donna. E dalla fedeltà quotidiana a questo comandamento dipende la vita di ogni essere umano. La sezione che proclama «Amerai il tuo prossimo come te stesso» si intitola: «Siate santi». Tuttavia, il nome "santi, Qedoshim" di questa parashah è stato scelto dal popolo ebraico per dire matrimonio. Infatti, "Qidushin, matrimonio", è una parola al plurale, chiamato plurale di intensità. Qidushin significa "santificazioni, consacrazioni". Un trattato del Talmud porta questo nome, come se il matrimonio fosse la situazione della santità. Un altro trattato si intitola Nidah, dal nome della separazione regolare tra lo sposo e la sposa durante il ciclo mestruale. Questa nidah, questo allontanamento, permette loro, secondo la Tradizione, di sposarsi una volta al mese... di prepararsi a questo ma-trimonio durante la metà del tempo, due settimane per ciclo. La donna fa il bagno rituale, il migweh, ogni mese, come fece il bagno rituale il giorno del suo matrimonio. Il trattato Nidah appartiene alla sesta e ultima parte del Talmud, su "Le cose pure", molti precetti della quale sembrano esagerati a degli Occidentali del XX secolo. Ecco tuttavia cosa si sente dire da parte di seri rabbini! "Rabbi Hisda dice: È vietato avere rapporti sessuali con la propria moglie durante la giornata, perch? è detto: Amerai il tuo prossi-mo come te stesso! Dove questo testo contiene tale divieto? Nel fatto che l'uomo potrebbe, andando a letto con sua moglie durante la giornata, vedere in lei un difetto ripugnante, dice Abaye. Rabbi Huna dice: Gli israeliti sono santi. Essi non vanno a letto con la loro moglie durante la giornata. Rab ha detto: In una casa scura è permesso, e un discepolo dei sapienti può sempre fare ombra con il suo mantello e andare a letto con sua moglie" (Nid 17a).

Ed ecco ciò che, facendo eco a tali insegnamenti, dice Paolo nella Lettera agli Efesìni (Ef 5, 25-33): «Mariti, amate le vostre mo-gli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro (il miqweh) dell'acqua accompagnato dalla Parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia n? ruga o alcunch? di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perch? chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poich? siamo membra del suo corpo, della sua carne e delle sue ossa'. Per questo, l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito». Paolo, da ebreo, parla con le parole del matrimonio ebraico, della sua preparazione, della sua salute spirituale attraverso il miqweh, della sua purezza e della sua santità. Si basa sulla teolo-gia della coppia data dalla Genesi, dove "la carne tratta dalla carne" offre possibilità di comunicazione e di annuncio di buona notizia, e dove "l'osso tratto dalle ossa" offre la profonda interiorità, "le quant-à-soi de l'?tre", il s? a se stesso. Ma Paolo dice: «I due formeranno una carne sola», mentre la Torah scritta dice: «L'uomo si unirà a sua moglie e saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi...». Paolo è impreciso? Egli scrive «due» (cfr. Ef 5, 31) riportando il versetto 24 di Genesi 2, per assimilazione dal versettto successivo: «Ora tutti e due erano nudi...» (cfr. Gn 2, 25)*. D'altra parte, Paolo dice: «della sua carne e delle sue ossa», mentre la Torah scritta usa il superlativo: «osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne». Paolo è impreciso? Oppure la sua logica è piuttosto quella della Torah orale? Paolo evoca anche l'immagine del corpo e delle membra, conosciuta a proposito di Giuseppe'. Il Midrash Rabba dice (GenR 100, 9): "Davanti ai suoi fratelli preoccupati della sua reazione quando rimasero soli dopo la morte del loro padre Giacobbe, Giu-seppe dice: Voi siete il corpo e io la testa! Se il corpo è colpito, è buona la testa?" Ritroviamo questo paragone in un altro trattato, questa volta del Talmud di Gerusalemme, Nedarim, sui voti. Con un esempio concreto e molto particolare, questo trattato enuncia la solidarietà degli uomini tra loro. Bisogna discernere e avere una condotta intelligente e adulta. "Tagliando la carne, un uomo lascia cadere il coltello che gli mozza una delle mani. È immaginabile che si taglierà la seconda mano per essersi tagliato la prima? Così accade con i nostri rapporti con gli altri. la società rappresenta la moltitudine dei membri che costituiscono nel loro insie-me il corpo della collettività. È pensabile che si colpisca del proprio corpo un membro che ne abbia mutilato un altro? in questa vasta prospettiva che bisogna concepire il dovere di amare l'altro. Se gli esseri umani sono separati fisicamente gli uni dagli altri, l'anima è tuttavia loro comune per le sue origini e la sua natura, sicch? i sentimenti degli uni si ripercuotono negli altri. La società costituisce un'unità organica. Ogni membro condivide le sofferenze e le gioie degli altri. È anche detto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Rabbi Agiba dice: Qui c'è il grande principio della Torah. Ben Azay dice: il versetto `l'uomo fu creato a immagine di Dio' (Gen 5, 1) è ancora più grande, perch? incita al ri-spetto dell'uomo " (Ned 9, 4 Talmud di Gerusalemme). Queste due citazioni della Torah orale divergono molto dalle riflessioni occidentali e dalle meditazioni classiche cristiane. Tuttavia, attraverso l'irrigazione sotterranea della teologia di Paolo, i cristiani occidentali ne dipendono. Liberi di intenderle o no. Tut-tavia, nelle loro orecchie sono ancora una volta risuonati prima l'importanza della donna e della coppia, poi l'appello a vivere l'incarnazione. I discepoli, gli apostoli, i credenti, debbono vivere in modo concreto i rapporti con il prossimo. I responsabili trasmettono ciò con la grande frase della Torah, ripetuta e ripetuta dagli ebrei, da Gesù e dai suoi amici. L'etica del matrimonio proposta da Paolo è rigorosamente iden-tica a quella della Torah. Se egli paragona l'alleanza del Cristo e della Chiesa alla coppia, e viceversa, è per insegnare ai credenti le loro capacità e competenze per rendere armonico il mondo. Se fonda la sua esortazione della vita di coppia sul comandamento: «Amerai il prossimo tuo come te stesso!», e se sembra di primo acchito ridurla a una situazione particolare della vita dell'uomo, è per restare nel solco del suo popolo. Perch? egli sa come l'espe-rienza e la sapienza del popolo di Israele portino frutto. Paolo trasmette silenziosamente la sua ispirazione di apostolo ai cristia-ni molto lontani dalla propria identità. L'ispirazione, per il suo popolo, non è anzitutto l'imposizione di parole venute direttamente dall'alto. L'ispirazione è il respiro, il dialogo mai esaurito con la Torah scritta, i Profeti e gli Scritti, per proporre comportamenti da tenere in ogni circostanza della vita. L'ispirazione è il respiro e gli scambi continui, la cui pedagogia è la Torah orale, per cerca-re sempre di migliorare i suoi gesti e le sue attitudini. E cosa c'è di più importante dell'attitudine e dei gesti della vita di coppia? Leggendo la Lettera agli Efesini, il Cristiano non si irriterà più contro una pretesa misoginia di Paolo. Perch? non soffermerà più la sua attenzione sulla frase: «la donna sia rispettosa verso il marito». Ascolterà anzitutto il comandamento dato al marito: amare la propria moglie come se stesso significa non vedere in lei alcun difetto. Allora, egli può dormire con lei e riceverla nella sua inti-mità. Il cuore di suo marito si appoggia e confida in lei (Pr 31, 11). Sono due, senza vergogna (Gen 2). Sono una carne sola. Ma per ascoltare Paolo, Apostolo di Gesù, bisogna conoscere e frequentare i suoi amici, gli amici della Torah orale. Essi non smettono di vivere l'Incarnazione.


QUAL È IL PRIMO COMANDAMENTO?

Ci sono diversi modi di parlare del primo comandamento. Si può rispondere, alla maniera di Gesù, con i due comandamenti dell'amore del Signore e dell'amore del prossimo (Mt 22, 34-40 e Mc 12, 28-34). Oppure, si può cercare il primo nello svolgimento della Torah. È allora la prima parola che Dio dice all'uomo: «Moltiplicatevi!» (Gen 1, 28). Israele l'ha compresa e l'ha seguita con perseveranza'. O ancora, si può ripetere e apprendere la prima delle dieci Parole scritte dal dito di Dio sulle Tavole di pietra portate giù dalla montagna da Mosè: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20, 1). E questa Parola ripetono coloro che hanno provato la sua forza e la sua esigenza per generazioni. Possono apprenderla e scoprirla coloro che, stranamente, sono stati distratti dalla sua vitalità. Per sbadataggine? Per rispetto? Volontariamente? Mancanza di discernimento? Perch?, come proclamare una serie di comandamenti a proposito di Qualcuno, quando non si sa di Chi si parla? Questa fu tuttavia, per secoli, l'indifferenza di molte Chiese cristiane. Il loro atteggiamento provocò uno spostamento nelle Dieci Parole. La prima, considerata come introduzione o prologo, non fu presa in considerazione. E quindi, la seconda Parola divenne prima, la terza seconda, ecc. ma si ebbe soprattutto un disordine nell'apprezzamento e nell'intelligenza della vita di fede e della morale. Disordine si dice in ebraico "Faraone". E se Faraone, il re d'Egitto, dimentica Giuseppe (Es 1, 8), opprime gli Ebrei. Gli Ebrei hanno due ragioni per non dimenticare l'Egitto. Essi le cantano nella preghiera di Qidush, il giorno di Shabat. Anzitutto, decidono di non accettare mai di essere rinchiusi: fanno memoria della loro uscita dall'Angoscia e di Colui che li ha fatti uscire. Poi, desiderano soddisfare la loro vocazione di comprensione e di solidarietà verso gli oppressi e gli stranieri. Il primo comandamento è dunque specifico e costitutivo del popolo di Israele e del suo percorso: della sua storia nel senso della generazione e della nascita. Esso non appartiene alle sette leggi noaidi e le nazioni non debbono appropriarsene. Tuttavia, coloro che si richiamano all'Ebreo Gesù debbono accostarlo con rispetto, e tenerlo in considerazione. Poich? Egli ha condiviso con il suo popolo il vissuto effettivo della prima delle Dieci Parole. Le Dieci Parole sono presentate ai Figli d'Israele come due Tavole ci cinque. La prima Tavola mostra i doveri verso il Signore. Essa è indissociabile dalla seconda che precisa, in modo molto conciso, i doveri verso il prossimo. Le Parole-comandamenti corrispondono due a due. Parlando della prima, si è dunque costretti ad ascoltare la sesta, "non uccidere". Questa ha un suo omologo nelle sette leggi noaidi, ma non è affatto formulata alla stessa maniera. La legge di Noè dice: "non versare il sangue". La sesta Parola dei figli di Israele è enunciata con un verbo molto poco usato nella Torah. Questo verbo lo ritroviamo soltanto nella cura posta nella costruzione delle città di asilo (18 volte in Nm 35; 2 volte in Dt 19, Dt 4, 42 e Dt 22, 26). Lì, i Leviti rieducano gli assassini, volontari o involontari, e li proteggono dai "vendicatori del sangue". Inoltre, sette delle Dieci Parole sono espresse con ampiezza, in forma negativa, e tre sono enunciate in forma positiva. Scritte sulla Tavola dei comandamenti verso il Signore, la prima, la quarta e la quinta danno rispettivamente il Nome del Signore, la memoria e la conservazione dello Shabat, l'onore da riconoscere al padre e alla madre. Inoltre, la prima e la quinta incorniciano le al-tre e sono in inclusione (tabella p. 42). Per la quinta, l'onore da riconoscere a coloro che hanno generato permette al credente di inserirsi in una famiglia e in una storia. Egli ha i suoi diritti e i suoi doveri verso gli altri: i collaterali da un lato, e gli ascendenti e i discendenti dall'altro, con la responsabilità della trasmissione. La sana comunicazione indispensabile all'interno della famiglia, chiunque sia il genitore, è unita ad una clausola concreta e precisa, si potrebbe quasi dire storica e geografica: «Onora tuo padre e tua madre, perch? si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio» (Es 20, 12). L'altra formulazione è questa: «Onora tuo padre e tua madre, come il Signore Dio tuo ti ha co-mandato, perch? la tua vita sia lunga e tu sia felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà» (Dt 5, 16). La "vita lunga" e la "felicità" sono forse i figli e i figli dei figli, che saranno dati come ricom-pensa a chi praticherà il comandamento. Essi apriranno l'avveni-re. Faranno penetrare nel duraturo. La Torah orale comprende, ripete e annuncia questa nozione del tempo come la Risurrezio-ne dei morti (Qid 39b). Inoltre, la promessa legata al riconoscimento del padre e della madre è affermata per un luogo particolare. "Il suolo, la terra, Adamah", femminile in ebraico, "è dato dal Signore tuo Dio". Si può allora fare memoria della prima Parola che pronunciava il nome "di un paese, una terra, Eretz", pure femminile in ebraico, "la terra d'Egitto", da dove nessuno può uscire se non grazie al "Signore, tuo Dio"! La lettura liturgica è in generale ascoltata stando seduti, ma per ascoltare le Dieci Parole ci si alza. Il prima Parola è il segno dell'esplosione e della breccia aperta nell'oppressione. Si ascolta al-lora il racconto dello spostamento e del passaggio dei figli di Isra-ele, dal paese, la terra d'Egitto, casa di schiavitù, fino al Suolo, fino alla terra donata. Lì, ciascuno deve assumere la sua vita di figlio e di figlia. Ciascuno accoglie i doni, la gratuità e la scelta di Colui che è all'origine del Suo popolo. Ognuno ha dei diritti: la terra, i figli, la Risurrezione. Ma ciascuno dovrà rispondere compiendo e non abbandonando i suoi doveri, tra cui quello di onorare suo padre e sua madre. Tale è la sana comunicazione della Parola, la sua trasmissione e attuazione: è l'esigenza e la pedago-gia del Signore verso il Suo popolo. Si racconta spesso l'episodio del Midrash Rabba in cui le lettere dell'alfabeto volevano tutte essere scelte per iniziare la Torah. Esse vennero avanti a cominciare dall'ultima, ciascuna con eccellenti argomenti. Ma ognuna veniva rifiutata. Infine, il Signore scelse la penultima che si presentò, ossia la seconda lettera dell'alfabeto, beth. Allora, la prima lettera, aleph, non osava più avvicinarsi. Ma il Santo, Benedetto sia, la chiamò e le disse: "Il mondo e la sua pienezza sono stati creati per merito della Torah (dunque con il beth), come sta scritto: Il Signore ha fondato la terra con la Sapienza (Pr 3, 19). Per domani, quando darò la Torah sul Sinai, non aprirò e non comincerò che con te (dunque con l'aleph). Come sta scritto: Io, il Signore Dio tuo!" (GenR 1, 11 e Zohar). "Io", in ebraico, inizia con un aleph. Così, le Dieci Parole iniziano con un aleph, e la tradizione ebraica dice che l'aleph, lettera impronunziabile, è il Nome del Signore. La prima delle Dieci Parole designa l'origine dei figli di Israele usciti dall'Egitto. Affermazione piuttosto che comandamento. Trascendenza dell'Essere assoluto. E tuttavia, ogni membro del popolo di Israele, popolo di Dio, è strettamente legato a questo Nome. Deve riconoscerlo non solo con la fede, ma con la sua vita spirituale manifestata e comunicata in atti e comportamenti. È chiamato ad accettare la relazione di prossimità e intimità che gli dà il Signore. Ascolta. E risuona nelle sue orecchie il "tu" dell'Alleanza: «Ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione di servitù». Egitto, Mitsrayim, significa nella lingua del popolo di Dio: "angoscia dinamica, duplice angoscia, angoscia totale, luogo dove l'umano è definitivamente incastrato e rinserrato". Uscirne sarà opera di un intervento divino, l'unico capace di aprire strade impossibili. Questo intervento è detto in ebraico "miracolo, mera-viglia". Tuttavia, tale intervento da parte del Signore richiede la carità dell'uomo verso il Signore. Occorre che l'uomo, come Abramo (Gen 15, 6), abbia fiducia e creda nell'Opera e nella Ma-nifestazione del Signore. Per meglio misurare l'angoscia che è l'Egitto, bisogna anche intendere l'altro termine della chiusura: "la condizione di servitù". Lì, il servo non è semplicemente lo schiavo fisico. Egli è stato forzato al servizio, al culto degli idoli, o si è lui stesso incondi-zionatamente sottomesso alla degenerata servitù, all'idolatria, all'Avodah Zarah. È nella situazione dichiarata inumana dalle sette leggi di Noè, poich? una di queste leggi universali per tutti gli uomini proibiva sorprendentemente questo culto straniero. Far uscire dalla "condizione di servitù", significa far scoppiare il sistema infallibile in cui l'idolatria è la certezza più stimata e rispettata. Ciò non è alla portata di tutti. Il popolo ebraico attesta, compiendo il primo comandamento, che "Solo il Signore, suo Dio" può fare questo. Testimonia che ne è beneficiario. Accetta e decide, per quanto possibile, di assumere la liberazione dalla servitù del Faraone. Vuole servire il Solo Signore, rendergli culto, orien-tare tutte le sue forze, tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo tutto, a questo solo culto, questo solo lavoro. In questo senso "lavorerà" sempre e soprattutto il giorno di Shabat, giorno di intimità con il Signore, giorno per eccellenza del culto e del "servizio" verso il Signore. Erede di questo insegnamento farisaico, Gesù dirà dunque che Egli "opera sempre" e che il Padre è sempre nel Figlio (Gv 5, 17). I rabbini, nello stesso desiderio di intimità del Giorno del Signore, diranno che l'Ebreo entra un po' più "nella nobiltà della vocazione di figlio ". Allo stesso tempo questo atteggiamento evoca i Leviti dei quali una delle preoccupazioni era la riabilitazione degli assassini. Ritroviamo il progetto iniziale dei due comandamenti, il primo e il sesto, fianco a fianco sulle due Tavole della Torah. Finch? l'uomo o il credente non è uscito dall'angoscia e dall'idolatria, finch? non riconoscerà il Creatore e il Redentore, finch? non ammetterà che Dio ha creato l'uomo a Sua immagine, avrà paura dell'altro. E il modo migliore per lottare contro l'altro sarà di ucciderlo con parole, azioni, non azioni, omissioni. Il Midrash racconta una parabola (Mekilta su Es 20, 13): "È un po' come un re che entrò in una provincia. Gli si innalzarono statue, gli si fecero ritratti, si coniarono monete con la sua effigie. Qualche tempo dopo, si rovesciarono le statue, si distrussero i ritratti, si dimenticarono le monete, e così si sminuì l'immagine del re. Così, chiunque versi il sangue, la Scrittura glielo imputa come se avesse diminuito la Somiglianza del Re!'. L'uscita dall'Egitto è l'evento storico preciso la cui memoria viene fatta a Pasqua, in ogni Qiddush, in numerosi momenti della preghiera, in numerosi gesti quotidiani. Ma prima di tutto questo, l'uscita dal paese d'Egitto e dal soffocamento dell'idolatria è una condizio-ne dello spirito. Ecco perch? non è paragonabile a nessun altro evento, perch? è più di un evento storico o fondatore. È una dinamica, un apprendimento - in ebraico si dice Lamed, Talmid, Talmud I - per coloro che desiderano marciare e andare avanti. Certi cristiani hanno detto e pensato: "La Pasqua degli Ebrei libera dall'Egitto, la Pasqua-Risurrezione di Gesù Cristo libera dalla morte". Forse non hanno valutato il pericoloso fossato che hanno scavato per gli altri e per se stessi, disgiungendo l'uscita dall'Egitto e la Vittoria sulla morte. Desiderano stabilire paragoni e superiorità per rassicurarsi e tranquillizzarsi. Come se volessero proteggere e difendere Gesù. Ma Gesù non ha affatto bisogno di essere difeso. Gesù è incarnato in un popolo, nel popolo che ha accettato di ascoltare il Nome del Signore: «Io sono il Signore, Dio tuo, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di idolatria». Gesù conferma per i non-Ebrei lo "la condizione di spirito e il respiro di questo Popolo". Il suo popolo rifiuta di essere schiavo. Ogni mattina, rivolgendosi anzitutto al Signore e poi annunciandolo al mondo, dice: "Benedetto sii tu, Signore, nostro Dio, Re dell'Universo, che non mi hai fatto schiavo!". Egli accetta di non essere più sottomesso alla paura e all'angoscia. Comprende che per servire il Signore Solo non deve essere schiavo, deve sta-re comodo, in piedi. Anche nei suoi gesti più ripetitivi, anche nei suoi riti più rigorosamente ordinati - il pasto pasquale è chiamato Seder, ordine, concatenamento, e la preghiera è chiamata Sidur, ordinato - Israele, popolo di Dio, deve continuamente discernere tra l'apparenza meccanica dei suoi atti e il loro valore. Ecco la sua vita spirituale: - Ridare a ogni gesto mille volte ripetuto una vitalità; - Riascoltare il Nome di Colui che fa uscire dall'Angoscia inestinguibile e dalle tentazioni che soggiogano inesorabilmente; - Adeguare ogni giorno la comprensione dei gesti concreti da compiere verso Dio e gli altri. È l'atteggiamento di Abramo qualificato dall'Angelo del Signore come "timore di Dio" (Gen 22). I sapienti dicono infatti che Abramo teneva il coltello alzato e rifletteva. Ripassava e recitava tutta la Torah. Poteva uccidere suo figlio, dal momento che non bisogna uccidere? - Raccontare, recitare, e ripetere ad alta voce l'uscita dall' 'Egitto con tutti i partecipanti, è il ruolo primordiale delle donne. È il principio e il metodo dell'Haggadah. È anche la musica di certi Salmi dell'Hallel (Sal 118, 5)6 e dei Salmi delle Ascensioni (Sal 122-128). - Apprendere di nuovo ogni giorno a stupirsi e a rinnovare le domande. Perch?, ad esempio, il Signore, capace di far uscire il suo popolo, annuncia Egli stesso (Es 14, 4) che "indurirà il cuore del Faraone"? Per comprendere queste cose, il discepolo deve ricordare la pedagogia delle benedizioni-maledizioni, delle Beatitudini. All'uomo è dato il dono della libertà totale. È un forza e una capacità che riceve per permettergli di andare fino al fondo di se stesso, in un senso o nell'altro. È lui a decidere. Così, questa vigilanza, questo perpetuo desiderio di avanzare, questo consenso a svegliarsi giorno per giorno, fanno di Israele un popolo in stato di veglia. Gesù non poteva venire che in que-sto popolo per manifestare ai cristiani l'Uscita dalla morte e il Risveglio.

* * *

Da Silvano Fausti, "Ascolta Israele".

1. Messaggio nel contesto 

«Non sei lontano dal regno di Dio», risponde Gesù allo scriba che ha capito il comandamento che sta a principio della legge. Non è lontano, ma,per entrarvi, gli manca una cosa: amare Gesù, il Signore che gli si è fatto vicino. Il brano conclude dicendo che nessuno più osava interrogarlo. Il nostro silenzio lo costringerà a provocarci perch? lo interroghiamo, per capire chi è lui: è il Signore (brano seguente). Solo dopo la croce ci sarà uno - Giuseppe di Arimatea - che attendeva «il Regno» e «osò» «chiedere». Ebbe in dono il corpo di Gesù (15,43 ss). Infatti solo lì sappiamo chi è il Signore: colui che per primo ci ha amati. La nostra vita è amare Dio e unirci a lui (cf Dt 30,20), diventando per grazia ciò che lui è per natura. L'amore per lui è via alla divinizzazione: uno diventa ciò che ama. Dio non solo è madre e padre, amore rispettivamente necessario che dà la vita e libero che non la soffoca; è anche sposo, al quale aderire formando con lui un'unità pur nella distinzione. Il nostro peccato fu ignorare questo amore, voltandogli le spalle. Gesù è venuto a portarcelo in ogni lontananza, fin sulla croce, perch? ognuno possa vederlo e conoscere così le Scritture e la potenza del Dio dei viventi (cf brano precedente). Chi risponde a questo amore è passato dalla morte alla vita; chi non ama, rimane nella morte (1 Gv 3, 14). Gesù ha un solo potere: quello di donarsi in modo assoluto, proponendosi ed esponendosi fin sulla croce, in attesa di essere corrisposto. Discepolo è chi riconosce e crede nell'amore che Dio ha per lui in Gesù (1 Gv 4,16). Il Cantico dei Cantici svela la nostra verità: siamo la risposta alla proposta di Dio.





2. Lettura del testo

v. 28 uno degli scribi, visto che aveva risposto bene, lo interrogò. Non c'è polemica in questa domanda. C'è desiderio di conoscere e disponibi-lità ad ascoltare. L'unico pericolo è che il desiderio cessi prima di essere appagato. il comandamento primo di '`tutti. La vita dell'uomo dipende dall'obbe-dienza alla parola di Dio (Dt 30,15 ss). Qui lo scriba chiede qual è il «primo» dei comandamenti. Cerca il loro criterio ispiratore e unificatore, per non cadere in un legalismo vuoto, che frantuma l'esistenza.

v. 29 Ascolta, Israele, ecc. Gesù richiama lo «Shema» (Dt 6,4 ss), da recitarsi nella preghiera del mattino e della sera. Prima del comando c'è: «Ascolta Israele!». Infatti è possibile amarlo solo nella misura in cui co-nosciamo il suo amore per noi, incredibile per chi non ascolta la parola che lo rivela. Signore è il Dio nostro, l'unico Signore. Il nostro amore non si rivolge a un idolo, ma all'unico Signore, pieno di maestà e degno di riverenza. Egli ci ha creati e salvati, mostrandosi unico Signore e Signore nostro.

v. 30 amerai il Signore tuo Dio. Se non ce l'avesse comandato, non avremmo mai osato. Fa tenerezza un Dio che chiede: «Ascolta, per favo-re! Voglimi bene, perch? io sono innamorato di te. Anzi, siccome non mi credi, te lo comando: amami! ». L'amore o trova o rende simili. Il suo per me l'ha fatto uomo, il mio per lui mi fa Dio. Amare significa lodare, riverire e servire. Lodare, il contrario di invidiare, è gioire del bene dell'amato; riverire è rispettarlo e tenerne conto per timore di perderlo; servire è mettergli a disposizione ciò che si ha, ciò che si fa e ciò che si è. Impariamo cos'è l'amore dal Signore stesso, che ha gioito del bene nostro più che del suo, ha stimato noi più di s?, e ha posto la propria vita a nostro servizio. Questo comando ci fa capire chi è lui: è colui che è da amare perch? è l'amore. Se amare è il fine per cui siamo creati, il nostro peccato o falli-mento (in ebraico hattat = fallire) è il non esserne capaci. con tutto intero il tuo cuore. Il cuore è il centro da cui scaturisce ogni azione. Dio accetta di non essere amato, ma non di essere secondo. Non sarebbe Dio. Lui è il polo unico, in base a cui oriento ogni mia scelta; è l'assoluto che non voglio perdere, il primo e l'unico, il mio Signore. Nessun altro desidero all'infuori di lui, che solo sazia la mia fame. con tutta intera la tua vita. Lui è il Signore di ciò che sono e di ciò che faccio; vale più della mia vita, che metto a suo servizio, come lui ha fatto con me. con tutta intera la tua mente. L'amore è intelligente: ama conoscere per amare di più. L'intelligenza è come l'occhio del cuore. Non si può amare ciò che non si vede, come non si può non cercare di vedere chi si ama! con tutta intera la tua forza. Tutto ciò che ho, qualità personali e mezzi esterni, è da usare tanto quanto serve ad amare lui. Amandolo così, mi realizzo pienamente, diventando simile a lui, che è tutto e solo amore in s? e per me.

v. 31 Il secondo è questo. L'amore per l'uomo non è in alternativa a quello per Dio. Ne scaturisce come l'acqua dalla fonte. Per questo è «secondo». Non perch? sia secondario, ma perch? ogni amore deriva e scende dall'alto. Chi lo pone come primo scambia il rubi-netto con la sorgente. E, se si stacca da questa, rimane senz'acqua. Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18). La nostra capacità di amare è più grande di qualunque realtà creata; è infinita, perch? fatta per Dio. Il prossimo non va amato in modo assoluto; sarebbe farne un dio, mentre è un uomo. Lo si carica di un peso che non può portare, e lo si di-strugge. In genere lo si butta via, con delusione e odio, quando ci si ac-corge che è limitata. L'altro devo amarlo come me stesso, cioè come uno che realizza s? amando Dio. Quindi lo amo in verità solo se lo aiuto a diventare se stes-so, raggiungendo il fine per cui è stato creato, che è appunto quello di amare Dio sopra ogni cosa. Per questo molto del cosiddetto amore, che schiavizza s? e l'altro, è una scimmia di Dio. E necessaria una lunga purificazione perch? diventi amore. Ogni uomo è persona libera proprio perch? in relazione diretta e unica con Dio. Per questo un amore possessivo - diretto ed esclusivo -schiavizza e uccide (?ros e thànatos: amore e morte), mentre l'amore ve-ro libera e dà la vita (agàpe e zo?). come te stesso. Amare se stessi perch? amati da Dio è somma sapienza e principio di ogni buona azione. Come posso odiarmi se Dio mi ama; e come posso amare l'altro se odio me stesso? Altro comandamento non c'è più grande di questi. «Pieno compimento della legge è l'amore» (Rm 13,10). Ogni altro comando ha in questo il suo senso, e ne è un'espressione. Ciò che non viene dall'amore e non porta ad esso, non è volontà di Dio.

v. 32 egli è l'unico, ecc. Lo scriba risponde bene. Ma, come il ricco di 10,17, non ha ancora capito che il Signore unico da amare è davanti a lui.

v. 33 e amarlo, ecc. è meglio di tutti gli olocausti e i sacrifici. Lo scriba risponde ripetendo quella parola che è da ascoltare, ricordare e rac-contare ai propri figli (Dt 6,6 ss). Come ogni ripetizione, è uguale solo parzialmente, con quelle dimenticanze, accentuazioni, variazioni o amplificazioni che possono essere indotte dalla nostra disattenzione o dallo Spirito di Dio. Qui lo scriba tralascia l'amore con tutta la vita (sarà pro-prio della povera vedova: v. 44), e aggiunge che questo è il vero culto (cf 1 Sam 15,22; Os 6,6). Onorare Dio e santificare il suo nome infatti è compiere la sua volontà, discernendo ciò che è buono, a lui gradito, e perfetto. Questo è il culto spirituale (Rm 12,1 s), che fa di noi la sua dimora. E da notare che il dialogo si svolge nell'atrio del tempio, luogo del culto e del sacrificio, del quale presto si dirà che verrà distrutto (13,1 ss).

v. 34 aveva risposto saggiamente. Questo scriba è il primo a cui Gesù riconosce la saggezza. Essa consiste nel capire non tante cose più o me-no sottili, bensì ciò per cui siamo fatti. Non sei lontano dal regno di Dio. Questa risposta inattesa attende una nuova domanda: «Perch?? Cosa manca ancora?». Al ricco, Gesù rispose che una sola cosa gli mancava per entrare nel Regno: lasciare ogni cosa per seguire lui (10,17-21). A questo scriba dice che non è lontano dal Regno: è vicino e ci entrerà solo se oserà fino in fondo interrogarlo. Allora capirà l'amore di Dio per lui, e saprà amare come è amato. nessuno osava più interrogarlo. Gesù vuole essere interrogato. Lui stesso, nel brano seguente, pone la domanda decisiva, suggerendo la risposta. Signore, tu vuoi essere interrogato da me, perch? io impari da te cos'è l'amore e chi è il Signore. Se io non oso chiedere, continua tu a interrogarmi, fino a quando io ti interrogherò. E tu istruiscimi (Gb 42,4).

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