Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

venerdì 18 marzo 2016

Questo era Giosuè…

 Prendi il largo

Romena 25 (7) / Giosuè, l’uomo dello stupore


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Se guardate le icone di Romena, se vi stupite per il valore che in vari angoli della fraternità viene dato a oggetti della vita contadina, trasformati in opere d’arte, ricordate il nome che sto per dirvi: Giosuè. E’ un nome che ci appartiene con la forza trascinante di quel monaco-artista con la barba bianca e il sorriso radioso che lo portava.
Giosuè è salito verso il cielo quattro anni fa, sazio dei suoi novant’anni. Era ritornato in Svizzera molto tempo prima, intorno al 2000, perché voleva consumare l’ultimo spicchio di vita nella sua terra. Lo ha incontrato solo chi ha vissuto la prima fetta della nostra storia. Perciò, per aiutarvi a conoscere una figura che ha dato un’impronta indelebile alla spiritualità di Romena, e che Gigi definisce un suo maestro, e non solo per avergli insegnato l’arte delle icone, ho pensato di pubblicare qui sotto l’articolo che gli dedicai dopo la sua morte. Di quel ricordo voglio anticipare almeno una frase che questo monaco, teologo, artista ci dedicò in uno degli ultimi incontri. “Ma chi siamo noi di Romena per te?” Gli chiesi. E lui: “Voi siete i miei figli. Ho già due figli in cielo. Una bambina è morta a tre giorni di vita, un figlio a 40 anni. E la terza non si arrabbierà se vi dico questo. I figli si moltiplicano. È un miracolo di Dio”. Questo era Giosuè…

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“Sentinella, quanto resta della notte?” Ci svegliasti alle quattro di notte per farci viverequesta frase della Bibbia. Ci aspettavi nella sala del camino.Avevamo occhi assonnati,
eppure era impossibile non sentire il fascino di quel silenzio carico di attesa, la morbidezza delle tue parole, la luce di candela che era il tuo volto, illuminato dallo stupore.
“Sono nato alle prime luci dell’alba, forse per questo sono un uomo del crepuscolo” ci
dicesti qualche tempo dopo. Ecco perché quel ricordo è così vivo in me. Quella notte ci avevi mostrato chi eri.
Caro, infinito, indimenticabile Giosuè. Permettimi di parlare di te, a te. La morte non
ti appartiene, è solo un vestito temporaneo, è l’ennesimo cambiamento di forma. Non credo ti abbia preoccupato più di tanto.
 
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Tu di cambiamenti ne hai attraversati parecchi. Ne conosci il peso e l’inevitabilità. Ma
sai anche, me lo hai insegnato, che ogni passaggio ci avvicina a noi stessi e al cuore delle cose.
Sei stato pastore protestante, marito, padre, orafo, artista di icone, studioso della Bibbia. Poi la profonda crisi, condivisa nella tua famiglia e tra la tua gente, la partenza dalla Svizzera per i luoghi di Francesco, in Umbria, il soggiorno a Camaldoli, monaco tra i monaci, infine la tua celletta a casa Bocci, nella campagna
del Casentino, eremita, finalmente.
Fu lì che le nostre strade si incrociarono. A noi avresti offerto il frutto maturo di tutte le
tue vite passate, il succo vitale della tua capacità di guardare la vita negli occhi, cogliendone le sfumature.
Erano i primi anni Novanta. Romena era appena nata. Aveva trovato un suo percorso nel cuore degli uomini, soprattutto dei giovani,ma non sapeva ancora bene come parlare di Dio. Ecco perché fu così prezioso averti accanto, allora.
Tu Dio lo incontravi in ogni spicchio del quotidiano: era nel fiore cresciuto sul fianco
polveroso della strada, era nel ciottolo levigato dall’acqua del fiume, era nella vecchia
tegola lavorata dalla muffa e dal tempo. La tua arte era fatta di avanzi, di dettagli e di incontri inattesi: nelle fessure del legno e delle pietre la goccia d’oro che aggiungevi era il segno del possibile, dello stupore, della fiducia:
“Dio – spiegavi – considera prezioso ciò che ci fa male, ciò che sentiamo inutile, da
buttar via”.
Non parlavi molto, ascoltavi di più. Leggevi nei volti di ciascuno un potenziale di stupore.
E quando, d’un tratto, qualcosa di bello ti arrivava incontro, lo rimarcavi con un gesto,
indimenticabile: battevi la tua mano destra sul ginocchio. Il tuo stupore aveva un suono, quel suono, per dire a te stesso e chi avevi vicino che lo Spirito si era fatto presente.
Una volta, durante la presentazione di un tuo libro, quel gesto lo dedicasti proprio a una cosa che avevi scritto e che io ti avevo riportato.
“Un monaco fa parte del regno di mezzo fra l’uomo e Dio: è vicino a Dio col cuore
degli uomini ed è vicino agli uomini col cuore di Dio”. “L’ho detto proprio io? Che bello!”
Non era narcisismo; era sentire che quando ci esprimiamo ascoltandoci nel profondo, andiamo oltre noi stessi.
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Quando, nel 2000, decidesti di tornare a Zurigo per un nuovo passaggio, l’ultimo, lasciasti a don Gigi il tuo laboratorio di icone e la tua arte: non era un regalo, ma un’eredità e una consegna che ci riguarda tutti.
Tu, Giosuè, sei parte delle nostre radici, sei nella nostra linfa. Sei nella nostra ricerca di
attenzione, nel nostro tentativo di far respirare le sfumature, nella ricerca del respiro d’infinito acceso nel quotidiano. Sei nell’accogliere ogni fragilità. Tu la sapevi abbracciare la fragilità degli altri, perché sapevi la tua.
L’altro giorno, la nostra Paola, che tu adoravi, ricambiato, ha ritrovato un vecchio nastro,
su cui è incisa una mia conversazione con te. A un certo punto ti chiedo: “Noi sappiamo quanto sei importante per noi, ma per te noi
di Romena chi siamo?” “Siete i miei figli – rispondi – I miei figli. Ho già due figli in cielo. Una bambina è morta a tre giorni di vita, un figlio a 40 anni. E la terza non si arrabbierà se vi dico questo. I figli si moltiplicano. È un miracolo di Dio”.
Caro Giosuè, padre e fratello nostro, è bello pensare che nella notte tu ci sia sempre, di
guardia, sentinella a presidio della luce che verrà. È bello sapere che in ogni crepuscolo ci sei tu, piccolo uomo con la barba bianca, ritto in piedi, a dare fiducia al giorno che ancora non c’è. E a dire ai nostri cuori sempre agitati:
“Dai, coraggio, l’alba non tarderà”.
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