Commento al Vangelo della XIV Domenica del T.O. Anno C
Il nostro Signore ha scelto Matteo,
il riscossore delle imposte,
per incoraggiare i suoi colleghi a venire con lui.
Ha visto dei peccatori,
li ha chiamati e li ha fatti sedere presso di lui.
Quale spettacolo mirabile:
gli angeli stanno in piedi e tremano,
mentre i pubblicani, seduti, si rallegrano.
Satana l'ha visto e è andato in bestia;
la morte l'ha visto ed ha perso vigore;
gli scribi l'hanno visto e sono stati molto turbati.
C'era gioia nei cieli ed esultanza dagli angeli
perché i ribelli erano stati convinti,
i recalcitranti si erano rinsaviti
e i peccatori si erano emendati,
e perché questi pubblicani erano stati giustificati.
S. Efrem il Siro
Mt 9, 9-13
In quel tempo, Gesù passando, vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Séguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?».
Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Il commento
"In quel tempo" che è ogni tempo, l'oggi unico e irripetibile che ci accoglie, "passa" Gesù e "vede un uomo", posa il suo sguardo su di te e su di me. La forza della sua Pasqua lo spinge a "cercare" i peccatori per "chiamarli". La "misericordia" di Dio che Gesù ha rivelato non è un semplice smacchiatore, la versione religiosa del buonismo sentimentale che finisce con il dimenticare la serietà del peccato, la "malattia" che affligge ogni uomo, per spalmare un po' di pomata sulle ferite, incapace di ravvisarvi il sintomo di un'infezione: la "misericordia" divina, invece, aggredisce il focolaio del male con la forza infinita della Pasqua che "chiama" i "malati" a passare con Cristo dalla morte alla vita, con il potere che trasforma una vita schiava del peccato in un dono offerto ai peccatori.
Gesù "guarda" Matteo, un peccatore intento a peccare, e lo "chiama" a "seguirlo" per "imparare" attraverso l'esperienza "che cosa significhi misericordia io voglio e non sacrificio". Una voce, uno sguardo, e una parola, tutto è accaduto proprio lì, dove Matteo era in quello stesso istante, immerso nel suo impuro lavoro di esattore. Aveva ricevuto in appalto dal procuratore romano la riscossione delle tasse, il portorium, il diritto di dogana e pedaggio che doveva pagare chi viaggiava al confine fra le tetrarchie di Erode Antipa e di Erode Filippo; Matteo era, più o meno, un dirigente di Equitalia, ma, molto probabilmente, taglieggiava i contribuenti, come un mafioso. Basta pensare cosa evochi in noi questa parola per capire che vita facesse Matteo: mafioso e collaborazionista, peggio di un kapò in un campo di concentramento. Impuro come un lebbroso, a contatto con la lebbra dei romani, che priva della libertà e dei beni. Come un paralitico, inchiodato alla sua sedia a rubare e a rovinare i suoi fratelli. E lì, in quel vomito di vita, lo ha raggiunto un raggio di luce, come ha inimitabilmente dipinto Caravaggio.
Una voce, uno sguardo e una parola: è Gesù, l’unico a cercarlo e guardarlo, chiamarlo, amarlo così come Matteo era, senza moralismo, senza alcun giudizio. Lo ha amato al punto di volerlo con sé. E chi si prenderebbe ora, così su due piedi, un mafioso in casa? Chiamare Matteo, infatti, è stato come consegnare a un ladro l'amministrazione della propria banca: Gesù ha consegnato i suoi tesori, le sue cose più preziose a un approfittatore, a un impuro e indegno peccatore. L' assoluta eccezionalità di questa esperienza ha generato in Matteo l'eccezionale, la conversione. La "misericordia" ha acceso la gratitudine. Come non "seguire" l'unico che lo aveva amato, l'unico che lo aveva guarito e strappato all'inferno? Matteo ha toccato un amore più grande d'ogni altro, qualcosa di mai visto, sentito, vissuto, qualcosa che ti prende fin dentro, nel più profondo di te stesso, e ti trascina con sé, in una pace mai sperimentata, una tenerezza mai immaginata, l’amore celeste che non è presente nella natura, l’amore di Dio che può essere solo donato e accolto con umiltà.
Matteo ha "imparato" che la "misericordia" è l'unico "sacrificio" che Dio "vuole" perché ha sperimentato che essa è un dono inaspettato e immeritato, che tocca l'uomo senza porre condizioni, sino a trasformare i cuori e le menti in strumenti di misericordia. Mathaios, traduzione greca dell’ebraico Mattai che significa proprio “dono di Dio”, è immagine e profezia di ogni uomo che è "andato" e ha "imparato" che la misericordia è una chiamata, un'elezione gratuita che si può accogliere solo con stupore e gratitudine. Allora "alzarsi" - che in greco è reso dallo stesso verbo che indica la resurrezione di Gesù - e lasciare tutto per "seguire" Gesù non è l'esito di una propria scelta moralistica - Matteo non si aspettava nulla di simile, era stato sorpreso nella sua sporca quotidianità - ma il frutto di un innamoramento irresistibile e concretissimo, la conseguenza inevitabile dell'essere stato amato senza esigenza e senza riserve.
Per Matteo, "andare" dietro a Gesù ha significato la guarigione del cuore, come per gli altri "malati bisognosi del Medico" e raggiunti dalla sua misericordia rigenerante: la suocera di Pietro, il lebbroso e il paralitico; come loro, Matteo si è sentito immediatamente libero, e così, "alzarsi e seguire" Gesù è stato l’inizio di una vita libera, altro che rinuncia, sforzo o sacrificio! Lasciare tutto è, semplicemente, aver trovato l'Unico per cui vivere è bello, vero, santo; è essere rapiti dall'amore che è impossibile anche sognare, ma al quale tutto, in ogni uomo, tende invincibilmente. Lascia tutto chi ormai ha tutto, perché appartiene a Gesù, e tutto il resto torna al posto che gli compete, sciolto dall’assolutezza che gonfia di inautenticità persone e cose sino a farne degli idoli tirannici.
Niente di più lontano dall'alienante immersione nelle meditazioni che strappano alla crudezza dell'incarnazione e dal moralismo sempre indignato di chi si illude di trasformare la terra in un paradiso con le proprie forze e presunte virtù: "Nella storia della Chiesa ci sono stati alcuni sbagli nel cammino verso Dio. Alcuni hanno creduto che il Dio vivente, il Dio dei cristiani noi possiamo trovarlo per il cammino della meditazione, e andare più alto nella meditazione. Quello è pericoloso, eh? Quanti si perdono in quel cammino e non arrivano. Arrivano sì, forse, alla conoscenza di Dio, ma non di Gesù Cristo, Figlio di Dio, seconda Persona della Trinità. A quello non ci arrivano. E’ il cammino degli gnostici, no? Sono buoni, lavorano, quello, ma non è il cammino giusto. E’ molto complicato e non ti porta a buon porto. Altri hanno pensato che per arrivare a Dio dobbiamo essere noi mortificati, austeri, e hanno scelto la strada della penitenza: soltanto la penitenza, il digiuno. E neppure questi sono arrivati al Dio vivo, a Gesù Cristo Dio vivo. Sono i pelagiani, che credono che con il loro sforzo possono arrivare" (Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, 3 luglio 2013).
Solo chi, sorpreso e raggiunto dalla misericordia, si scopre nudo e peccatore, senza meriti da esibire, può accogliere Cristo; chi suppone d’essere giusto in mezzo a tante ingiustizie non può comprendere, si scandalizza che l’amore “si adagi a mensa con i peccatori”, confonde la misericordia con il male, si chiude nei propri giudizi, e finisce con il prendere il posto di Matteo, escluso dalla comunione con Dio, nella quale invece il pubblicano è stato riaccolto. Ma Cristo viene anche oggi alla nostra vita, sin dentro i nostri peccati. Non importa se non lo stiamo aspettando, se siamo intenti ai nostri loschi traffici. Importa il suo amore, importa l'esperienza, vera e reale, del suo perdono. Importa la libertà. Essa è per noi, incastonata negli occhi misericordiosi e compassionevoli di Gesù, risuona nella sua parola annunciata dove siamo oggi sprecando la nostra vita: Lui viene a trasformare il nostro tavolo di gabelliere in una mensa imbandita per chi ci è accanto. Con Matteo possiamo passare dalla tristezza alla gioia, dal lutto alla festa, dalla solitudine all’Eucarestia. Ci “alza” dal peccato per “stenderci” a riposare e saziarci intorno al banchetto che Lui stesso ha preparato. E, intorno a quella mensa, potremo chiamare moglie, marito, figli, parenti, amici e nemici a partecipare della stessa vittoria, annunciando il Vangelo che "chiama" alla pienezza della vita.
APPROFONDIMENTI
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