Giovedì della I settimana del Tempo Ordinario
In questa antica miniatura (sec. XVI) proveniente da un monastero del monte Atos e conservata nella biblioteca nazionale di Atene (Evangeliario, codice 93), Gesù – commosso – si protende e tocca il lebbroso, liberandolo dal suo male. Il Signore ha rivestito la sua divinità (veste dorata) della nostra umanità intatta (manto azzurro), conserva la sua santità (aureola) e ci rinnova.
Ho alzato le mani al cielo, verso la grazia del Signore.
Egli ha gettato lontano da me le mie catene.
Il mio protettore mi ha innalzato secondo la sua grazia e la sua salvezza.
Mi sono spogliato dell’oscurità e ho rivestito la luce ;
le mie membra non provano più né pena, né angoscia, né dolore.
Ero disprezzato e riprovato agli occhi della moltitudine.
Mi hai dato forza e soccorso.
Hai posto la luce alla mia destra e alla mia sinistra.
Tutto in me sia luce !
Ho rivestito l’abito del tuo Spirito,
e mi hai spogliato della tunica di pelli.
La tua destra mi ha innalzato e ha cacciato lontano da me la malattia.
La tua verità mi ha irrobustito e la tua giustizia mi ha santificato.
Sono stato giustificato dal tuo amore dolcissimo,
e il tuo riposo è per me nei secoli dei secoli !
Alleluia !
Ode di Salomone
Dal Vangelo secondo Marco 1,40-45.
Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!». Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!». Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: «Guarda di non dir niente a nessuno, ma và, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro». Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.
Il commento
Il commento
La “compassione” gioca brutti scherzi, anche a Gesù. Nel Vangelo di Marco ricorre il cosiddetto “segreto messianico”, il silenzio che Gesù impone perché non fosse rivelata la sua identità confidata invece agli apostoli, e non fossero divulgati i suoi miracoli. Gesù vi riconosceva il piano del Padre che mirava senza indugio a Gerusalemme, al rifiuto e alla Croce. Niente che obbligasse a credere: i segni, i miracoli, dovevano costituire il linguaggio in codice che indicava le tracce della salvezza incipiente, codice che solo i piccoli, i poveri, i peccatori avrebbero decifrato. Ad esso Gesù si voleva adeguare. Ma la compassione lo trascina in qualcosa di diverso. Mentre il segreto sulla sua identità di Figlio di Dio è stato mantenuto dagli apostoli e non sarebbe stato svelato pubblicamente che nella Passione dinanzi al Sommo Sacerdote, per i miracoli la cosa è andata diversamente. La fama di Gesù infatti si andava estendendo "al punto non poteva più entrare pubblicamente in una città". La fama che derivava dalla sua compassione. Questa parola traduce in italiano il greco splanxnisthèis (avente viscere che fremono) che traduce a sua volta l'ebraico rahamin, che rimanda all'amore viscerale di una madre (rehem = utero, seno materno). La compassione svela dunque il cuore materno di Gesù, da cui sgorga un amore capace di accogliere, concepire e generare, dare alla luce, creare e ricreare. La guarigione del lebbroso scaturisce dalle viscere del Signore, laddove vibra l'amore sconfinato di una madre, e più di una madre: "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti porto tatuato sulle palme delle mie mani" (Is. 49,15 s.). Il lebbroso, reietto, impuro e impossibilitato ad avvicinarsi a chiunque, sente che con Gesù può infrangere le regole. Sa che in quell'Uomo si cela un cuore di madre, di sua madre. Non può temere, si fa audace sino a varcare il limite imposto dalla legge, che può solo attestare il male e cercare di arginarlo. Passa Gesù, e quel lebbroso intuisce che il Tempio, il culto, la vita del Popolo Santo, tutto quanto gli era stato interdetto secondo la Legge, è di nuovo lì, accanto a lui. La vita santa del Popolo santo è venuta a cercarlo, sorprendentemente, stravolgendo ogni regola: la santità cerca l'immondizia, per accoglierla e trasformarla. Quell'uomo distrutto, disprezzato, emarginato e solo, intuisce, spera, riconosce che Gesù può salvarlo, ridonargli la purezza perduta, forse mai assaporata. E' la fede che riconosce, intimamente, il cuore materno di Gesù. Può fidarsi perché è proprio da Lui che egli stesso proviene; la pelle straziata, le membra squassate, non possono cancellare la verità: non c'è nessuno al mondo che gli provochi gli stessi sentimenti. Lui assomiglia a Gesù, anche se i tratti somatici sono ormai sconvolti. Loro due hanno molto in comune, non sono estranei. Forse, in quell'impeto misterioso che la fede sa muovere, quel lebbroso ha visto Gesù sulla via del Calvario, e lo ha visto come se si fosse guardato in uno specchio, senza apparenze d'uomo, disprezzato, rifiuto degli uomini, come uno davanti al quale ci si copre il volto (Cfr. Is. 53). Lo ha visto come un altro se stesso, lebbroso e crocifisso. Si trovava dinanzi all'uomo dei dolori, che conosce bene il patire. Per questo sgorga dal cuore del lebbroso prostrato l'invocazione che è una professione di fede: "Se vuoi puoi guarirmi". Mi hai amato, pensato e creato Tu, sono tuo, se vuoi puoi ancora avere misericordia; tu conosci le mie sofferenze, come solo una madre può conoscere. Sono carne della tua carne, e Tu, con questa stessa carne, distruggerai la morte. Distruggila ora in me, tu puoi, se vuoi. E le viscere di Gesù si commuovono, come per un figlio, e le sue mani toccano quelle carni straziate. Quelle mani che lo portavano, da sempre, tatuato, come un figlio carissimo e preziosissimo. Quelle mani che saranno trapassate dai chiodi a far scaturire il sangue che laverà ogni peccato ed ogni lebbra.
Ma la compassione gioca un brutto scherzo a Gesù. Seppur intimato severamente di non dire nulla ma di andare ai sacerdoti per “testimoniare” l'avvento del Messia attraverso il segno compiuto in lui, il lebbroso comincia, ebbro di gioia, ad annunciare la Buona Notizia. L'esperienza travolgente non può essere contenuta, prorompe in grida di lode e fa del lebbroso immediatamente un apostolo, come recita l’avverbio greco euthùs. Non a caso tra i parametri usati per definire una guarigione straordinaria come miracolo, la Chiesa usa il criterio della immediatezza e della definitività. Il lebbroso portava la Buona Notizia nella carne, era luce e sale e lievito, perché, laddove vi erano le pustole di morte, recava ora le stimmate di vita sgorgata dalla mano di Cristo. Era la sua vita a parlare, era la sua carne rigenerata a gridare la vittoria di Gesù. Le parole avrebbero solo spiegato, dato ragione di un “fatto”, un avvenimento incontrovertibile. Mentre prima era obbligato a camminare gridando «immondo, impuro!», indicando se stesso come persona dove abita la morte - i rabbini definivano i lebbrosi come i “morti che respirano” - ora corre, libero, a “proclamare e a divulgare il fatto”. E' questa la missione della Chiesa, e di ogni apostolo: mostrare al mondo la propria esistenza concreta dove abita la vita, e “offrire in sacrificio” la propria vita salvata “a testimonianza” per ogni uomo. E' la fede che si fa notizia. Certo è necessario approfondire, studiare, ma la prima e fondamentale formazione di ogni apostolo è sul campo, quello della propria vita. Si può essere finissimi esegeti, acuti teologi, accorti liturgisti, o impegnarsi in opere sociali di grande valore, pregare molto e fare catechismo, ma senza la fede adulta che nasce dall’incontro reale con il Signore, si resta come cembali tintinnanti. Così la compassione di Gesù ha dischiuso le porte all'evangelizzazione, senza averla prevista e preparata a tavolino, anzi, sorprendendo e spiazzando anche Lui. Quel miracolo doveva restare segreto, ma il lebbroso disobbedisce, non può tacere, è ridiventato bambino, ed i bambini non sanno mantenere i segreti. E così si apre come una falla nel piano di Dio. Può sembrare assurdo e paradossale, ma il Vangelo ce lo mostra così. Gesù è costretto a fare i bagagli e scappare nel deserto. Va a rifugiarsi da dove il lebbroso era scappato ormai libero dalla sua lebbra. La compassione ha guidato i suoi passi, rivelando così la natura divina che muoveva la sua natura umana. Gesù è come il vento, si lascia portare e non si oppone alla sconfinata misericordia del Padre che scuce le trame della sua stessa volontà per aprirle all'infinita urgenza dell'amore. In questo Vangelo si ode l'eco della voce di Maria a Cana che spinge Gesù ad anticipare la sua ora che si sarebbe compiuta sul Golgota: come nel matrimonio senza vino, nelle carni del lebbroso la stessa ora si fa urgente e presente, accolta e anticipata dalla misericordia. Lebbrosi sanati, anche noi siamo chiamati alla stessa libertà. L'esperienza del potere di Gesù Cristo su ogni nostra lebbra pone la nostra vita sul candelabro. L'audacia della fede nella quale possiamo vincere l'orgoglio nascosto che ci fa paurosi e incapaci di implorare aiuto, ci svela la nostra più intima vocazione. L'urgenza della nostra salvezza captata dal cuore materno di Gesù ci sospinge nell'arena delle urgenze del mondo. Non possiamo restare aggrappati ai nostri sogni, ai nostri progetti, anche a quelli più santi. Siamo di Dio, la libertà che ha mosso Gesù a cedere all'urgenza dell'amore e giocarsi la vita ancor prima dello stesso piano di Dio, è il nostro tesoro. Possiamo sognare e progettare il nostro futuro lasciandolo nelle sue mani che ci toccano ogni istante per purificare i nostri desideri. Non ci sarà tolto nulla, anzi, i sogni, i desideri e i progetti si dilateranno all'infinito, togliendoci il respiro ed inondandoci di gioia e di pace. La compassione infatti spariglia tutto e ci svela la nostra vita dentro a un'urgenza più grande dei nostri pensieri. Che la sua compassione possa anche oggi giocarci lo scherzo di una vita nuova abbandonata alla volontà di Dio, e ci trasformi in segni di misericordia per ogni uomo, ovunque, in qualsiasi momento.
Colui che illumina
tocca con la sua mano
le mie catene – le mie ferite
e al tocco della sua mano
subito cadono le catene,
scompaiono le ferite.
Dopo avermi purificato
e liberato dalle catene,
mi tende la sua mano divina,
mi tira fuori completamente
dal fango e mi abbraccia teneramente;
con le braccia al collo,
mi copre di baci.
Ero sfinito e senza forza:
egli mi prende sulle spalle
e mi fa vedere un mondo nuovo,
inondato dalla sua luce.
Mi fa contemplare
come mi plasma di nuovo
e mi strappa alla corruzione.
Mi fa dono della vita immortale,
mi riveste di una tunica luminosa,
mi fa calzare i sandali migliori
e mi da anello e corona,
come a un figlio. Per sempre.
Meraviglia e stupore,
timore e gioia mi colmano.
Simeone, il nuovo teologo, Inni II
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