Piccola inchiesta sui Vangeli
da La Porzione ON-LINE
Nel nostro ultimo articolo esaminavamo come la scoperta del Libro dei Giubilei abbia offerto nuovi indizi a conferma della data del Natale di Gesù Cristo (“25 dicembre: storia, falso o pia tradizione?”). Un lettore osservava a questo proposito – mi permetto di parafrasare, sperando di aver inteso bene la questione sollevata in sede di commento – che il problema della data sorge principalmente a causa della pressoché totale mancanza di informazioni cronologiche circa la nascita di Gesù (e, più in generale, su «qualsiasi genetliaco cristiano», sic); tale omissione sarebbe da ascrivere – sempre secondo il nostro lettore – allo scarso interesse che gli autori del Nuovo Testamento avrebbero nutrito nei confronti di questi aspetti: se, infatti, avessero ritenuto importante ricordare il giorno esatto della nascita di Gesù, essi avrebbero fatto in modo di concedergli il giusto spazio nei Vangeli o nelle Epistole, così come hanno fatto per la sua morte. La questione sollevata dal nostro lettore ci permette di affrontare il problema delle origini del Nuovo Testamento, argomento tanto interessante quanto complesso, che tenteremo di semplificare attraverso alcune domande-chiave, senza però perdere di vista il nostro punto di partenza.
Domanda numero uno: cos’è un vangelo?
Tutti sanno che la parola vangelo deriva dal greco eu-angelion, che significa “lieto annuncio” o “buona notizia”. Il termine, pertanto, indica in primo luogo il felice messaggio diffuso da Gesù Cristo: fondamentalmente l’idea che Dio è vicino agli uomini e li ama al punto tale da inviare il suo Figlio perché siano salvati. Con questo valore, il termine si trova pronunciato da Gesù stesso all’inizio della sua predicazione, quando annuncia: «Il tempo è compiuto, e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al vangelo (= cioè alla buona notizia che il Regno è vicino)» (Mc 1,15).
Dal significato etimologico – attestato ancora in Paolo (vd. per es. Fil 1,5.7.12.16.27; Ef 1,13; 3,6) – nel corso di pochi decenni si produsse uno slittamento semantico, a seguito del quale il termine passò a indicare il contenuto-base della prima predicazione cristiana (il kerygma); eccone un esempio in Paolo: «Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto [...] cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici [...] Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (1Cor 15,1-8). Dalle parole di Paolo si comprende chiaramente che alla base della predicazione degli apostoli v’è la lieta notizia che Cristo era morto per liberare l’umanità dal peccato, era risorto come era stato annunciato, ed era apparso a molti testimoni.
Il primo vangelo, dunque, è un messaggio lieto, trasmesso oralmente e, quanto ai contenuti, alquantoselettivo. Esso comprende i contenuti della predicazione di Cristo, filtrati attraverso l’esperienza degli apostoli e poi reinterpretati dalle prime comunità cristiane e dalle loro guide.
In effetti, come attestano le fonti neotestamentarie, il primo annuncio che gli apostoli portarono – anche in forma di confessione di fede – prima ai giudei e poi ai pagani era incentrato sulla morte e risurrezione di Gesù Cristo figlio di Dio: tanto bastava a esprimere tutta la novità del cristianesimo; tutt’al più essi aggiungevano riflessioni circa il compimento in Cristo delle antiche profezie (vd. per es. il primo discorso di Pietro dopo la Pentecoste, At2,14-36, e quello pronunciato di fronte al sinedrio, At 4,8-12) e i segni straordinari della presenza di Dio tra gli uomini (vd. per es. la “predica” di Pietro in At 10,37-43). Ma in questi testi non v’è alcun riferimento alla nascita o alle origini di Gesù. Non certo perché tali informazioni fossero sconosciute agli apostoli; piuttosto perché il primo annuncio doveva per forza di cose essere selettivo, «andare al sodo» del messaggio, per così dire: e il sodo del messaggio era appunto che Gesù Cristo era risorto dai morti.
Domanda numero due: come sono nati i Vangeli così come li conosciamo oggi?
Per rispondere a questa domanda, proviamo a fare uno sforzo immaginativo, chiedendoci prima di tutto come avveniva la predicazione degli apostoli e dei loro immediati successori. Dopo aver seguito ed ascoltato Gesù per circa un triennio, dopo averlo visto risorgere e salire al cielo e dopo aver ricevuto lo Spirito promesso, gli apostoli presero ad annunciare la lieta novella servendosi degli unici mezzi a loro disposizione: le parole e le opere. Come abbiamo detto, il nucleo originario dell’annuncio apostolico comprendeva la passione, morte e risurrezione di Cristo; a questo nucleo gli apostoli potevano aggiungere gli episodi di cui erano stati testimoni oculari e, in più, potevano ripetere le parole e gli insegnamenti di Gesù a quanti non lo avevano conosciuto personalmente. Il tutto avveniva per via orale.
Ben presto i contenuti della predicazione apostolica si fissarono e furono messi per iscritto: per primi i racconti della passione, poi detti (logia) e fatti della vita di Gesù, raccolte di parabole e collezioni di miracoli. Questi testi nascevano fondamentalmente per esigenze pratiche, come appunti da portare dietro nelle missioni di evangelizzazione o lasciare alle comunità per preservare il ricordo di fatti importanti in assenza di testimoni diretti. Gli apostoli, infatti, in genere non restavano stabilmente in luogo, ma, dopo aver fondato una comunità, ripartivano per altre mete, dopo averne affidato la cura a persone di fiducia, con le quali mantenevano i contatti per via epistolare. Le lettere raccolte nel Nuovo Testamento attestano appunto questa pratica: perciò non sorprende che in esse si trovino chiarificazioni dottrinali o consigli di comportamento più che dettagli storici o cronologici sulla vita di Gesù.
Questi testi (racconti della passione, discorsi di Gesù, raccolte di parabole e miracoli, epistole) erano utili alle comunità cristiane non solo per ricordare e trasmettere i contenuti della fede, ma anche per celebrare le liturgie, per formare i credenti con la catechesi e per offrire consigli e norme di comportamento pratico. Solo in una seconda fase, a partire dalle raccolte sopracitate, furono stesi i primi testi a più ampio respiro, che presero poi il nome di Vangeli e divennero veri e propri generi letterari.
Domanda numero tre: cosa sono i Vangeli?
Non ci soffermeremo in questa sede sulla lunga storia che portò alla composizione dei quattro Vangeli canonici né sulle questioni legate alle loro caratteristiche, somiglianze e differenze. Ci limitiamo ad osservare – tanto per non perdere di vista il nostro punto di partenza – che i Vangeli, per come sono nati e per le esigenze che portarono alla loro composizione, non sono una biografia né un romanzo sulla vita di Gesù. Essi selezionanoepisodi e insegnamenti, fatti e parole, sulla base principalmente di due criteri: 1) l’utilità in funzione del messaggio incarnato e predicato da Gesù; 2) la necessità di preservare la memoria di fatti e parole importantiche rischiavano di perdersi con il venir meno dei testimoni oculari. Alla luce di questi due criteri si può spiegare la selezione compiuta dagli evangelisti nella scelta di cosa inserire perché utile alla trasmissione del messaggio emeritevole di essere fissato e conservato alle generazioni future, e cosa invece poteva anche essere tralasciato perché meno utile o ancora vicino nel ricordo, tanto che la memoria dei testimoni di prima o seconda o anche terza generazione poteva supplire senza problemi alla tradizione scritta.
Così, i Vangeli secondo Matteo e Luca (composti, secondo gli studiosi, intorno all’80 d.C.) nei primi capitoli cercano di rimediare all’assenza di informazioni sulla nascita di Gesù, attingendo a tradizioni (con molta probabilità orali) risalenti in un caso a Giuseppe, nell’altro a Maria, e inserendo lunghe genealogie (anch’esse legate all’uno o all’altro genitore, che potevano essere state trasmesse oralmente o per iscritto). Questo tentativo suggerisce che nelle comunità per le quali Matteo e Luca scrivevano si fosse sviluppata una certa curiosità sucome Gesù fosse nato e su come potesse discendere dal re Davide e dai patriarchi, risalendo addirittura fino ad Adamo e a Dio (cf. Lc 3,38), e non solo su come fosse morto e risorto e su cosa avesse annunciato. Perché? Innanzitutto perché, trascorsi alcuni decenni dall’inizio della predicazione, si iniziava ad avvertire l’esigenza di conoscere maggiori dettagli sulla vita di Gesù e sulla sua natura, umana e divina al tempo stesso. In secondo luogo perché quelle informazioni forse cominciavano a perdersi con la morte dei testimoni di prima generazione e diventava dunque indispensabile mettere per iscritto al fine di conservarle.
Tuttavia, né Matteo né Luca si sono preoccupati di indicare esattamente il giorno, il mese o l’anno della nascita di Gesù. Perché? Forse perché le indicazioni contenute negli episodi (il censimento, il nome del governatore Quirino, il re Erode e la strage dei bambini di Betlemme) erano ancora sufficienti a quei tempi per collocare gli eventi. E comunque i Vangeli non riportano mai indicazioni cronologiche precise (giorni, mesi, anni, stagioni) per i fatti narrati; e questo perché simili dettagli – almeno così mi pare – non sono vincolanti per il messaggio, che si regge benissimo da solo. Forse non conosceremmo neppure la data del 14 Nisan se non ci fosse stata la coincidenza (con conseguenze di carattere teologico-dogmatico!) tra la Pasqua ebraica e la Pasqua di Gesù.
Completamente diverso è il punto di vista di chi, come noi, vivendo a distanza di duemila anni dagli eventi, cerca di recuperare informazioni e dettagli che gli antichi davano per scontati o che potevano attingere da tradizioni ancora fresche e vive, che a noi non sono pervenute o (come è accaduto per il 25 dicembre) che abbiamo dimenticato o creduto frutto di falsificazione.
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