"Chi pretendi di essere?". Quante volte ci siamo rivolti così al fratello. Basta una parola che non ci piace e "paf", spesso pregiudizialmente, subito pronti a scorgervi chissà quali pretese. Come accadde alle parole di Gesù a quei "giudei che", è importante non dimenticarlo, "avevano creduto in Lui". Come noi, insomma, che a Gesù diciamo di credere. Il dialogo si svolge nel contesto di "Ha-Dhag", la Festa delle Capanne: "chi non ha assistito a questa festa ignora cosa sia una festa" (Mishnà). Le cronache dell'epoca contemporanea a Gesù raccontano di grandi feste popolari svolte nei cortili del Tempio. Ovunque a Gerusalemme si cantavano salmi e canti popolari. A Sukkot, la gioia esplodeva nell'abbondanza di luce e acqua, elementi fondamentali per la vita, quelli con i quali Dio aveva condotto il Popolo durante l'esodo nel deserto. Sukkot era una chiamata a conversione per tornare all'essenziale, alla fonte della gioia, la Torah, spesso paragonata a luce e acqua; essa fu data proprio nel deserto per «scegliere la vita» (cfr Dt 30,1ss.). Gesù, presente nel Tempio durante la Festa rivela che con Lui è giunta nel mondo la Luce vera, quella che illumina ogni uomo. Camminare alla sua luce significa non inciampare più nella morte, perché "lo splendore del Re ha vinto le tenebre" (Preconio Pasquale). Nella notte dell'umanità è brillata la Luce che non conosce tramonto, perché in Gesù le notti dell'Antico Testamento che profetizzavano la "notte delle notti" ha incontrato la Luce che dissipa ogni tenebra, la luce della Pasqua. Ma Sukkot era una festa che celebrava anche l’ultimo raccolto dell’anno ringraziando Dio e supplicandolo per la pioggia nell'anno a venire. L’acqua aveva un ruolo fondamentale: prima della festa i rabbini ammaestravano il Popolo sui passi della Scrittura riguardanti l'acqua, come questo di Isaia: "In quel giorno dirai: Ecco, Dio è la mia salvezza; io avrò fiducia, e non avrò paura di nulla; poiché il Signore è la mia forza e il mio cantico; egli è stato la mia salvezza. Voi attingerete con gioia l'acqua dalle fonti della salvezza. Abitante di Sion, grida, esulta, poiché il Santo d'Israele è grande in mezzo a te" (cfr. Is. 12, 1ss). L'originale tradotto con "salvezza" è "Yesuah", ovvero il nome di Gesù, che significa appunto "Dio salva"! Nell'ultimo giorno della Festa, quando l'acqua scorreva a fiumi e la gioia era giunta al suo apice, Gesù grida con tutta la forza che è proprio Lui quell'acqua viva. Dal suo costato trafitto, infatti, sarebbero sgorgati fiumi di acqua viva, immagine dello Spirito Santo, capace di dissetare davvero, come una sorgente che zampilla sino alla vita eterna per irrigare la terra, immagine dell'esistenza di ogni uomo. Al termine della Festa ci si congedava con queste parole del Salmo 128: «Ti benedica JHWH da Sion e possa tu vedere la felicità di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita; possa tu vedere i figli dei tuoi figli, pace su Israele». Questa benedizione è quella scesa su Abramo, che ha visto "la felicità di Gerusalemme", il cuore della Terra a lui promessa, e che ha visto "i figli dei suoi figli", la posterità da lui generata, la discendenza sorta da Isacco, il figlio a lui promesso, immagine e profezia del Messia. Lui, che aveva aspettato da sempre qualcuno capace di strapparlo al destino fallimentare che sembrava ineluttabile: non aveva un figlio a cui donare se stesso in eredità, non aveva una terra a cui consegnare il proprio corpo per il riposo. Ma proprio qui la Parola di Dio ha trasformato quell'al di là di morte che lo attendeva in un futuro colmo di vita. Qui Abramo ha cominciato a "vedere il giorno di Gesù", sperimentando tutto quello che la Festa delle Capanne significava: aveva visto la luce della vita brillare nella notte del fallimento; aveva danzato e gioito all'udire la Parola di speranza; aveva accolto in sé la pioggia abbondante della fertilità, l'acqua di vita che aveva dischiuso il seno sterile di Sara. Finalmente, stringeva tra le braccia Isacco, la vita scaturita dalla sua carne morta. Ma era questo il giorno di Gesù nel quale rallegrarsi? No, perché, pur avendo visto Isacco, il figlio della promessa, ad Abramo mancava qualcosa. E a te, in questa vigilia della Pasqua, manca qualcosa? Hai creduto in Gesù, hai visto molti segni del suo amore nella tua vita. Hai sperimentato la sua potenza ridare vita al tuo matrimonio, al tuo corpo sottomesso al peccato. Ma non è solo per questo che sei stato chiamato nella Chiesa. Non era solo per avere Isacco che Dio aveva chiamato Abramo. Mancava l'esperienza decisiva, la stessa preparata per ciascuno di noi in questa Pasqua: quella dell'amore pieno e incondizionato, frutto della notte oscura della fede, la più dura, nella quale vedere la luce della Pasqua, il giorno eterno del Messia Gesù. Il nomade Abramo si trovava proprio come al culmine della Festa delle Capanne, quando l'acqua scorre a fiumi. Era infatti presso il pozzo di Bersabea, nel territorio dei Filistei; i suoi piedi calcavano la Terra che Dio gli aveva promesso, guardava Isacco e, al colmo della gioia per le grazie che Dio gli aveva concesso, "invocò il nome del Signore, Dio dell’eternità”. E proprio in questo luogo di festa, "Dio mise alla prova Abramo e gli disse: 'Abramo!'. Rispose: 'Eccomi!'. Riprese: 'Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò". Una lancia gli si conficcò nel cuore: ma come, il Signore mi viene a chiedere di sacrificare proprio il segno del suo amore, la prova che Lui esiste e ha provveduto alla mia vita? Ma proprio qui, al culmine dell'angoscia, Abramo, per "non assaporare la morte", ha imparato a "custodire" la parola, secondo il significato originale della parola "osservare". Per custodire davvero Isacco, Abramo doveva passare dalla promessa a Colui che aveva promesso, dalla creatura al Creatore. Per amare Isacco, doveva conoscere sino in fondo l'amore di Dio che glielo aveva donato, passando da una religiosità naturale a una fede adulta nella quale consegnarsi al Padre senza riserve. Salendo il Moria, Abramo ha imparato a sorvegliare, proteggere, amare la Parola. Per questo ha riavuto Isacco, in una relazione nuova, purificata dall'affettività dell'uomo vecchio. Quello è stato per lui "il giorno di Cristo", l'alba del giorno che non muore, ovvero la vita rinnovata nell'amore autentico, che va oltre la morte. Sul Moria Abramo ha sperimentato questo amore, il volto di Cristo impresso in quel figlio offerto e riscattato. Dopo l’intervento dell’angelo, infatti, Abramo, secondo il Targum, ha chiamato quel luogo: "Qui il Signore fu visto". Al culmine dell'angoscia Abramo ha visto che "Dio è favorevole", ha visto il giorno di Cristo, la gioia vera, quella che annunciava Sukkot, la gioia della Torah compiuta, della luce e dell'acqua della vita che non si esauriscono e illuminano e fecondano per l'eternità. Come Abramo anche noi siamo chiamati, attraverso le vicende della nostra vita, ad amare e custodire la Parola di Gesù. E' la porta della Pasqua, la finestra spalancata sul giorno di Cristo, il Getsemani e il Moria che ci attendono ad ogni suono della sveglia. Ogni giorno, infatti, ci è dato come il "giorno di Cristo": ascoltare la Parola e custodirla significa accogliere la volontà del Padre ed entrarvi. Non sappiamo che cosa ci riserverà questo giorno; facciamo dei piani, prendiamo appuntamenti, ma non abbiamo in mano nulla. Solo sappiamo che "sul Monte il Signore provvede", che quello che ci accadrà sarà parte del giorno di Cristo nel quale vedere il suo amore e rallegrarci. Anche di un tamponamento, anche di un insulto e di una umiliazione, anche dei nervi della moglie e dell'ira del nemico. Ma è impossibile! Sì, è impossibile offrire a Dio se stessi, gli affetti e i suoi stessi doni. E' impossibile perché di fronte al Moria del sacrificio ci ronza dentro la domanda velenosa: "chi ti credi di essere" per farmi questo? E' impossibile per chi "non ha conosciuto" il Padre nel potere del Figlio che ne "osserva la Parola". E' impossibile offrire a Dio il tuo matrimonio, i figli, il lavoro, la missione, ogni centimetro della tua vita, vero? E' impossibile perché ne hai fatto degli idoli a cui chiedi vita. Hai dimenticato che sono un'opera di Dio e non tua. Li hai afferrati e li coccoli come altri te stesso. E soffri, perché ne sei diventato schiavo. Ma coraggio, perché Cristo viene a prenderti in questi giorni per farti entrare con Lui nella Pasqua. Per diventare cristiani, persone capaci di un amore puro e disinteressato, occorre passare per il sacrificio di Isacco. Per "vedere il giorno di Gesù" nei nostri giorni e sperimentare la gioia vera ed autentica che i discepoli hanno sperimentato la sera di Pasqua, occorre vedere il volto di Cristo crocifisso trasfigurato dalla resurrezione nella nostra vita. Occorre cioè vedere i fatti che ci stanno schiacciando e inchiodando rifulgere di Gloria nell'amore. E' questa l'esperienza più profonda, quella che ci attende nella notte di Pasqua, madre di ogni notte che incontreremo nella storia: guardare Cristo fisso negli occhi, come Abramo ha fissato suo figlio. Piangere con lui le lacrime del Getsemani, tremare con Lui quando tutto, ma proprio tutto ci è tolto, e salire sulla Croce con Lui, aggrappati alla sua obbedienza. In essa potremo sperimentare che "prima che Abramo fosse", prima del nostro matrimonio, dei figli, del lavoro, del nostro carattere e dei nostri difetti, del nostro corpo, dei problemi, prima di tutto "Gesù è Dio". Sì, Lui ci ha amato "prima" ancora che peccassimo, prima di subire quell'ingiustizia, perché Gesù è "Io sono", ovvero pienezza di vita e gioia e luce prima che ciascuno di noi fosse. "Io sono" dentro la nostra storia significa Dio Onnipotente disciolto in ogni suo frammento, più potente della morte, del tuo peccato e di quello degli altri. Vedere "Io sono" in noi significa allora "non vedere più la morte" dove il mondo invece non vede che quella. Coraggio, "custodiamo la Parola" nella Chiesa, per "conoscere il Padre" nella "gloria" che Egli dà a Cristo incarnato in noi. Non vi è, infatti, altra gioia che questa, abbracciare Isacco ridonato in ogni fratello, vedere Cristo risorto in ogni evento.
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