Il cuore della fede di Isrele è lo Shemà: "Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze". Esso è il primo comandamento, la sintesi della Torah, la vita del Popolo di Israele. Nelle parole di Gesù che chiudono il discorso pronunciato durante l'ultima cena, preludio alla grande preghiera del Capitolo XVII, è chiara e distinta l'eco dello Shemà. Un solo Dio, e un Popolo scelto ed eletto per manifestarlo. Un Popolo unico per un Dio unico. La santità di Dio, ovvero il suo essere totalmente altro, separato (significato della parola "santo") riverbera nella santità del Popolo, di ogni suo membro. La missione di Israele è la santità, un popolo diverso da tutte le Nazioni per mostrare un Dio unico e diverso da tutti gli dei. L'Alleanza, sigillata nella circoncisione, esprime il rapporto di amore fedele tra Dio ed il suo Popolo, il mezzo attraverso il quale la presenza di Dio nel mondo si fa autentica e credibile: "Siate dunque santi, perché io sono santo (Lv 11,45). "La santità esigeva la separazione dal mondo e da tutti coloro che rifiutavano la legge. Essa era garantita dall'osservanza meticolosa delle regole di purità. In effetti il Levitico enumera le categorie fondamentali dell'ebraismo: il puro e l'impuro, il sacro e il profano, il consentito e il proibito. Questo codice proponeva una scala da percorrere per raggiungere la santità" (F. Manns). Nelle parole di Gesù emerge evidente la sua missione, che coincide con quella dei suoi discepoli, primizie dell'Ecclesia, l'assemblea del nuovo Israele. Gesù è il Santo di Dio, unto di Spirito Santo per rendere testimonianza alla Verità, compiendo sino alla fine lo Shemà. Per questo i discepoli, figli di Israele, credono d'aver capito, di sapere che Gesù è davvero l'inviato, il Messia atteso, uscito da Dio. Le sue parole toccano il loro cuore, in esse rivive la storia del loro Popolo, le attese e le speranze si coagulano in quel loro Maestro; seppur confusamente, intuiscono che di lì a poco avrebbe compiuto il miracolo di "ristabilire Israele" nella sua missione, nella santità per la quale era stata eletto. Ancora un istante prima dell'Ascensione si porranno infatti questa domanda, l'interrogativo che cerca disperatamente una risposta al grido della carne, della storia, del Popolo oppresso ingiustamente: "come vivere la santità in un paese in cui comandano i pagani? Un gruppo di farisei proporrà una soluzione radicale: se si crede nel regno di Dio occorre opporsi fortemente al «regno dell'impertinenza». La resistenza si organizzerà proprio in Galilea... Dio è il re d'Israele e il padrone della storia. Il dono della terra è il segno dell'alleanza. Arrogarsi la proprietà della terra come facevano i romani significava dar prova di un orgoglio smisurato, dell'appartenenza al regno dell'impertinenza. La sete di libertà che animava i rivoltosi scaturiva dal più stretto monoteismo. Era lo zelo della legge a spingerli ad agire" (F. Manns). Gli Apostoli erano originari della Galilea, non a caso dunque il luogo dove più forte era la tensione e l'aspettativa messianica. Nel Cenacolo, le parole di Gesù, sovrapposte all'esperienza dei tre anni trascorsi con Lui, planavano nei cuori di questi galilei confusi ma affascinati: esse intercettavano la loro speranza, e, seppure misteriosamente, le conferivano un contenuto e una ragione nuove. Per loro il mondo da cui Israele era stato separato, santificato, era il regno dell'impertinenza, e doveva essere distrutto. Per questo le parole di Gesù, decodificate attraverso i loro criteri, suonavano come l'annuncio del compimento delle loro speranze. Il loro leader, Pietro, aveva già dovuto fare i conti con il rimprovero di Gesù, sentendosi apostrofare come satana, il cui pensiero non coincide con quello di Dio. Ma non era stato sufficiente, se di lì a poco, nel Getsemani, inforcherà la spada e taglierà l'orecchio al servo del centurione. Gli Apostoli credono di sapere, ma non si conoscono, e non conoscono Gesù. La Parola che è stata loro annunciata li ha mondati, santificati, ma in questo momento essa rimane ancora come un torrente d'acqua sotterraneo, che irriga le profondità della loro anima, ma che non è tuttavia sgorgato per dissetare l'uomo nuovo, libero, riscattato dalla schiavitù della carne. Essi intuiscono, ma resta loro da compiere il tratto più difficile, quello decisivo: scendere negli abissi della verità circa se stessi di fronte all'abisso della verità testimoniata da Gesù: lo scandalo della Croce, la dispersione e la solitudine. Solo discendendo l'ultimo gradino che conduce alla piscina battesimale si può sperimentare nella propria vita il compimento del Mistero Pasquale del Signore. Solo riconoscendo la dispersione e la dissipazione del proprio cuore, della propria mente e delle proprie forze - l'antitesi dello Shemà - si può conoscere e accogliere nella fede il compimento dello Shemà in Gesù, la prova decisiva della sua identità. E' drammatico e doloroso, ma sono le stesse parole profetiche di Gesù ad annunciarlo e a decretarne la veridicità: i discepoli, e noi con loro, abbiamo lasciato solo il Signore. Lo scandalo del Getsemani, il male che si abbatte su Gesù, l'ingiustizia e quella sua mansuetudine oltre ogni limite ragionevole, la spada della Croce, il sepolcro sigillato, ci hanno scandalizzato e disperso. La malattia di nostro figlio, quel lato sconosciuto ed oscuro del carattere del nostro coniuge, il licenziamento, il tradimento dell'amico, e la nostra debolezza inguaribile, quel cadere sempre negli stessi peccati. E il male nel mondo, la sofferenza degli innocenti, le guerre, i terremoti, i disastri, le ingiustizie. La Croce ci ha disperso, ognuno per conto proprio, a cercare le ragioni, a riflettere illudendoci, con Cartesio, di esistere in virtù del pensiero, a preparare e realizzare rivoluzioni, ad inginocchiarci dinanzi alla scienza, alla politica, alla cultura. All'uomo, alla sua carne. Separati dal mondo ci siamo, invece, caduti dentro, e abbiamo scoperto di non essere migliori né diversi dai figli del regno dell'impertinenza. Come gli Apostoli, abbiamo lasciato solo Gesù, l'unico santo, ci siamo allontanati dall'unica Verità, dall'unica Via, dall'unica Vita. Ci siamo dispersi e abbiamo strappato lo Shemà in mille pezzi, abbiamo dimenticato la primogenitura e l'elezione, e con esso abbiamo visto la vita sbriciolarsi senza più senso. Mentre quel rivolo d'acqua, la Parola che ci ha scelti ed eletti, irrevocabile, a sostenerci e a prepararci, misteriosamente, all'irrompere della Grazia. Anche noi, come gli Apostoli, bisognosi di salvezza e redenzione, del perdono. Come il mondo.bMa è proprio questo il paradosso che ci salva, che strappa ogni uomo dalla morte: l'abisso della nostra solitudine ha incontrato la solitudine di Cristo, ed in essa, la sua intimità con il Padre. La nostra vuota solitudine ha incontrato la sua colma solitudine. Lui non era solo! Pur sperimentando nella sua carne l'abbandono totale, pur gridando sulla croce "Dio mio, perché mi hai abbandonato?" Gesù non era solo: attraverso quel legno era inchiodato alla volontà del Padre, e in essa gli era più intimo che mai, nell'amore che compiva lo Shemà. Nel sepolcro non era solo. Proprio nel cortocircuito della nostra solitudine con la sua, è scoccata la scintilla della verità: Il Padre è con Gesù, in Gesù. E nell'amara solitudine della storia, della nostra storia di oggi, si svela l'impensabile: essa non è preludio della fine di tutto, è il grembo dove vedere e riconoscere l'amore di Dio; nell'abisso della nostra dissipazione brilla la verità che ci fa liberi, l'amore dello Shemà compiuto per noi da Cristo. Possiamo allora "avere pace in Lui", riposare nel suo amore. E' l'esperienza dei discepoli, cercati e amati da Gesù risuscitato: nessun giudizio, solo un amore e una misericordia sconfinati. Il suo apparire vittorioso sulla morte schiude le loro menti all'intelligenza delle Scritture, di ogni profezia, della Legge di Santità, dello Shemà. Bisognava che il Figlio dell'uomo soffrisse e morisse... Era necessario anche il loro scandalo della Croce, il dramma della verità. Dovevano scoprirsi mondani e impertinenti come gli altri, peggio degli altri, dei pagani, che almeno non avevano conosciuto il Signore. Era il mistero della volontà di Dio, perché i discepoli potessero vedere, credere e sperimentare, attraverso la loro infedeltà, la loro debolezza, i loro peccati, i loro adulteri e la loro idolatria, la mondanizzazione del loro cuore, l'amore di Dio, lo Shemà compiuto, l'unicità e la santità di Dio.Occorreva rivestirsi di Cristo, passare dalla dispersione all'unità, dalla solitudine all'intimità. E' questa la vittoria di Cristo, lo Shemà compiuto, la santità di Dio incarnata nella debolezza di ogni uomo! La vittoria sul mondo è la vittoria sulla dispersione, sulla disgregazione, sulla solitudine, sulla morte. Così, la Galilea dei Gentili, non a caso il luogo dell'Incarnazione, diviene, attraverso gli Apostoli, immagine del mondo tornato ad essere di Dio. E' in Galilea che Gesù dà appuntamento ai suoi, dove appare loro risuscitato. E' la Galilea il mondo strappato al mondo, il luogo della vittoria di Cristo! E' sulle rive del Mare di Galilea che Pietro incontra il perdono e la missione; è sul Monte delle Beatitudini che il mondo diviene il luogo dell'annuncio di vittoria. La Galilea della nostra vita, ogni centimetro di questo mondo, disperso, rancoroso, preda della solitudine. E' la nostra storia la Galilea che attende il riscatto, perché ogni uomo ritorni ad essere se stesso, santo, unico perché creato ad immagine dell'unico Dio. "Io ho vinto il mondo!. Cristo è forse contro il mondo? Quando vince la morte, Egli rivela di nuovo all’uomo il mondo; questo mondo, che scaccia Dio dal cuore dell’uomo, viene restituito da Cristo a Dio e all’uomo, come spazio dell’alleanza originaria, che deve essere anche l’alleanza definitiva quando Dio sarà tutto in tutti." (Giovanni Paolo II). Restituiti da Cristo a Dio e all'uomo, ecco gli Apostoli, ecco ciascuno di noi! Risuscitati nello Shemà del Figlio diveniamo anche noi testimoni e annunciatori di questo stesso amore che ci ha salvato, della vittoria di Cristo. Il cammino che ci aspetta non può che essere il suo. Il cammino della solitudine, quella ricolma della presenza del Padre, nel compimento della sua volontà. Avremo tribolazioni nel mondo; con il figlio che si ribella e non ne vuol sapere nulla del cristianesimo, delle preghiere, della Chiesa; con i colleghi di lavoro; con gli amici che ci inducono a giocare sporco; con il fidanzato che reclama ed esige un amore carnale. Nelle tentazioni, all'esterno e all'interno di noi. Ovunque, con chiunque, perché il mondo è stretto dall'angoscia della solitudine, lo sappiamo per esperienza. Ma l'amore a nostro figlio, a nostro marito, ai nostri genitori, alla fidanzata, all'amico, l'amore autentico è soprattutto solitudine, la solitudine di Cristo. Senza di essa non può apparire e compiersi la sua vittoria: "nella donazione di sé sulla croce, Gesù depone, per così dire, tutto il peccato del mondo nell'amore di Dio e lo scioglie in esso" (Benedetto XVI). Per questo è necessaria "la tribolazione", l'essere schiacciati, pestati, secondo il significato del termine originale greco: che il male ed il peccato vengano deposti, attraverso di Cristo vivo in noi, nel tino della nostra storia, per essere schiacciati dall'amore di Dio. Occorre passare per la porta stretta e angusta di cui parla Gesù, secondo un altro significato della stessa parola. Sono le tribolazioni di Cristo, quelle sofferte per noi che ora, in noi, salvano coloro ai quali siamo inviati. Avremo tribolazioni, saremo soli, ma non dobbiamo temere, il Signore ha vinto il mondo: "Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me. Li ho pigiati con sdegno. Il loro sangue è sprizzato sulle mie vesti e mi sono macchiato tutti gli abiti." (Is. 63,3). Il trofeo della vittoria di Cristo è proprio la solitudine che possiamo assumere, ovvero il rifiuto, il non essere compresi, l'odio, l'invidia, il rancore, l'ingiustizia. Soli per essere santi, perché la santità è la solitudine feconda dell'amore! "Allora Balaam pronunziò il suo poema e disse: "Dall'Aram mi ha fatto venire Balak, il re di Moab dalle montagne di oriente: Vieni, maledici per me Giacobbe; vieni, inveisci contro Israele!". Come imprecherò, se Dio non impreca? Come inveirò, se il Signore non inveisce? Anzi, dalla cima delle rupi io lo vedo e dalle alture lo contemplo: ecco un popolo che dimora solo e tra le nazioni non si annovera. Chi può contare la polvere di Giacobbe? Chi può numerare l'accampamento d'Israele? Possa io morire della morte dei giusti e sia la mia fine come la loro. Come sono belle le tue tende, Giacobbe, le tue dimore, Israele!" (cfr. Nm. 23-24). Un popolo che dimora solo, e proprio per questo testimone e vessillo di salvezza. Israele, ed il Messia che ha compiuto questa profezia, e i suoi fratelli, la santa Chiesa di Dio, e ciascuno di noi. Soli con il Solo, per strappare il mondo a stesso. Soli nel rifiuto del figlio, per salvarlo. Soli nella gelosia della moglie, per amarla. Soli ovunque, nell'intimità piena con Gesù, e in Lui con il Padre, per mostrare a tutti la bellezza delle tende di Israele, la vita divina nella debole tenda della carne; dimorare soli tra le Nazioni, nella santità dello Shemà, perché la maledizione del mondo si trasformi, come fu per Balaam, in benedizione. Perché ogni uomo possa desiderare la stessa solitudine, la Croce di un amore infinito, la morte, la fine, il compimento dei giusti, di ciascuno di noi, frutti splendenti della vittoria di Cristo.
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