Alcuni artisti hanno saputo dipingere questa preghiera.
Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai, detto Masaccio, è sicuramente un dei grandi artisti fiorentini del Quattrocento. La sua vita è molto breve, muore, infatti, all’età di ventisette anni mentre lavorava con Masolino agli affreschi della cappella Brancacci nella Chiesa di San Clemente a Roma, coinvolto nella furiosa epidemia che colpisce la città durante l’estate del 1428. Nonostante la brevità, la sua vita è costellata di capolavori tanto ammirati che alla notizia della sua morte, Filippo Brunelleschi esclamò: «Noi habbiamo fatto una grande perdita». Forse il suo più famoso capolavoro è l’affresco universalmente conosciuto come La Trinità, realizzato intorno al 1426, all’età di venticinque anni, nella chiesa domenicana di Santa Maria Novella a Firenze. Questo affresco fu subito ammirato per la sua resa spaziale e prospettica, come possiamo comprendere dalla descrizione offerta da Vasari nelle Vite dell’edizione del 1568: «una volta a mezza botte tirata in prospettiva, e spartita in quadri pieni di rosoni che diminuiscono e scortano così bene, che pare che sia bucato quel muro». Infatti, come ben descrive il Vasari, Masaccio riesce a rappresentare il muro della chiesa come sfondato, e la scena dipinta sembra accadere sulla soglia di una cappella realmente esistente. Il fedele che si pone di fronte ad essa ha la reale impressione di poter toccare con mano quanto accade davanti agli occhi; il fedele che si pone in ginocchio, ha la sorpresa di trovarsi proprio nel punto giusto di osservazione, dato che la prospettiva è costruita in modo tale da mettere il punto di fuga proprio all’altezza dei suoi occhi, in quella posizione.
Analizziamo con attenzione il dipinto. Nella parte alta, è rappresentato Cristo crocifisso, costruito pittoricamente attraverso la prospettiva in modo da darci l’impressione di poterlo realmente vedere dal basso verso l’alto come se fossimo veramente ai piedi della croce sul Golgota tanto da sovvenirci le parole scritte da San Bonaventura nell’Albero della vita nelmistero della Passione;«O Dio mio, buon Gesù, concedimi, sebbene ne sia del tutto immeritevole e indegno, che io, non avendo meritato di parteciparvi fisicamente, considerando questi misteri con animo fedele, sperimenti quell’affetto di compassione verso di te, Dio mio per me crocifisso e morto, che l’innocente tua Madre e Maddalena penitente sentirono nell’ora della tua Passione!».
Ai lati di Gesù crocifisso, poco più in basso, sul pavimento della “finta” cappella, troviamo alla nostra destra Giovanni, raccolto in preghiera, che guarda verso Maria che è dipinta sul lato sinistro, come se egli fosse intento a meditare le parole che gli hanno svelato la sua nuova identità, e il compito che lo attende: «Donna, ecco tuo figlio! Poi disse al discepolo: Ecco la tua madre!» e come racconta il vangelo di Giovanni «da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.» Maria, invece, è dipinta mentre ci guarda, con una espressione di pianto a stento trattenuto, e sembra invitarci a guardare il Figlio sulla croce, in un invito a meditare sull’Incarnazione nella prospettiva della salvezza, nella prospettiva della redenzione, nella prospettiva dell’economia trinitaria. Infatti Dio Padre, rappresentato come l’Antico dei giorni nella tradizione del libro di Daniele, e lo Spirito Santo, rappresentato in forma di colomba come nell’apparizione epifanica del Battesimo nel Giordano, sono raffigurati insieme al Figlio in croce nel momento culmine della morte. In questo affresco la morte non è argomento laterale, anzi possiamo dire che ne è il cuore, il centro prospettico, tutto ruota attorno ad essa.
Infatti, nella parte bassa, all’altezza del fedele posto in ginocchio su di un piano marmoreo, giace uno scheletro, perfettamente scarnito, magistralmente dipinto. E’ li, sotto i nostri occhi, con la sua impudica presenza a farci riflettere sulla nostra miseria, a condurci col pensiero al freddo gelido della morte e, ad accrescere il messaggio, una scritta ci ammonisce recitando «Io fui quel che voi siete e quel che sono voi anco sarete».
Il tragico destino dell’uomo, la corruzione del corpo, la sua miseria, sono incorniciate all’interno di una unica architettura che contiene la Trinità in alto, nel fornice dell’arco di trionfo, e la nostra fragilità umana nel basso, mentre nel piano mediano sono dipinti i committenti, ricchi signori che pur avendo ricchezze sufficienti da poter far dipingere questo capolavoro, nulla possono contro la morte. Ecco allora il senso di questo affresco, che si svela nel gesto di Maria che invita a guardare il Figlio, e a contemplarlo nella Trinità.
Cristo morendo sulla croce vince la morte e ci attira a sé, come dice Cirillo di Gerusalemme: «Solo sulla croce si muore con le braccia stese. Così era giusto che il Signore subisse questa morte e distendesse le braccia per attirare a sé con uno l’antico popolo e con l’altro quanti provengono dalle genti, e riunire gli uni e gli altri in Se stesso» o come dice sant’Agostino «E’ come se qualcuno riuscisse a vedere da lontano la Patria, ma ci sia il mare che lo separi da essa...Perciò, affinché ci fosse il mezzo con cui andare, venne di là colui al quale volevamo andare. E che cosa ha fatto? Ha preparato il legno con cui potessimo attraversare il mare».
Dio è la nostra Patria, la nostra casa, e la porta attraverso la quale giungervi è Cristo: qui sta tutto il senso trinitario di questo affresco, che mostra in modo chiaro che se si rimane intrappolati nell’ombra di quella mensola sotto la quale uno scheletro si esibisce, nella soverchiante paura della morte, non si può tornare a casa, ma se si attraversa la vita sul legno della salvezza si giungerà alla meta, come ci ricorda ancora san Tommaso d’Aquino «Chiunque vuole condurre una vita perfetta non deve fare nient’altro che disprezzare ciò che il Cristo ha disprezzato sulla croce e desiderare ciò che egli ha desiderato. Non esiste infatti un solo esempio di virtù che la croce non ci dia. Cerchi tu un esempio di carità? Non c’è amore più grande la vita per i propri amici, ed il Cristo lo ha fatto sulla croce».
In conclusione, l’arte ha escogitato tanti modi per dire il sacro, ma tra tutti ha inventato la prospettiva per collocarci nel giusto punto di vista per contemplare il mistero di Dio Uno e Trino.
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