AGOSTO aperto |
La Trasfigurazione non era destinata agli occhi di chiunque. Solo Pietro, Giacomo e Giovanni, cioè i tre discepoli a cui Gesù aveva permesso, in precedenza, di rimanere con lui mentre ridava la vita ad una fanciulla, poterono contemplare lo splendore glorioso di Cristo. Proprio loro stavano per sapere, così, che il Figlio di Dio sarebbe risorto dai morti, proprio loro sarebbero stati scelti, più tardi, da Gesù per essere con lui al Getsemani. Per questi discepoli la luce si infiammò perché fossero tollerabili le tenebre della sofferenza e della morte. Breve fu la loro visione della gloria e appena compresa: non poteva certo essere celebrata e prolungata perché fossero installate le tende! Sono apparsi anche Elia e Mosè, che avevano incontrato Dio su una montagna, a significare il legame dei profeti e della Legge con Gesù.
La gloria e lo splendore di Gesù, visti dai discepoli, provengono dal suo essere ed esprimono chi egli è e quale sarà il suo destino. Non si trattava solo di un manto esterno di splendore! La gloria di Dio aspettava di essere giustificata e pienamente rivelata nell’uomo sofferente che era il Figlio unigenito di Dio.
Questi è il figlio mio, l’amato.La Trasfigurazione aveva come scopo di confermare nella fede e nel coraggio i tre testimoni. Ma non sembra sia servita molto, visto che i tre apostoli, la vigilia della passione del Cristo, non hanno vegliato e pregato con lui, anzi sono fuggiti all’arrivo di Giuda e dei congiurati e Pietro ha addirittura rinnegato Gesù davanti ad una donna. È comunque uno degli episodi più belli dell’intero vangelo. Gesù, che secondo Paolo ha svuotato se stesso prendendo forma di schiavo, qui riprende la sua forma di Dio e risplende di luce divina. Gesù ci vuole mostrare ciò che saremo anche noi, con un corpo glorioso. Dobbiamo fidarci di lui ed essere suoi testimoni, come gli apostoli lo furono dopo la risurrezione.Matteo 17,5
Trasfigurazione del Signore 2014. Omelia di Enzo Bianchi.
Bose, 5-6 agosto 2014
Omelia di ENZO BIANCHI
Fratelli e sorelle amati dal Signore,
noi ci ritroviamo qui, come assemblea del Signore, in veglia per celebrare il grande mistero della Trasfigurazione di Gesù. Permettetemi che all’inizio di questa nostra meditazione sul vangelo io dica con esultanza la comunione che questa sera è presente qui, nella nostra assemblea, comunione monastica che tanto è decisiva per confermare la nostra vocazione. Abbiamo qui con noi m. Francesca e s. Gabriella del monastero di Civitella S. Paolo, il monastero in cui vivono anche le nostre sorelle di Bose, con il quale cerchiamo di fare una sola comunità e un solo ministero monastico nella chiesa; vi sono due fratelli del monastero cistercense di Pra’d Mill; c’è un fratello della comunità benedettina di Dumenza; ci sono le nostre sorelle di Cumiana. Certamente molti altri monasteri sono uniti a noi questa sera, non solo perché ci hanno fatto pervenire i loro messaggi e l’assicurazione della loro preghiera, ma perché anche loro vegliano, in questa che è una festa di tutta la chiesa, ma è per eccellenza la grande veglia dei monaci cristiani, dal monte Athos fino alla nostra povera comunità.
Il mistero della trasfigurazione che celebriamo, ci chiede contemplazione e ci riempie di grande gioia ma soprattutto di grande speranza, perché nella trasfigurazione di Gesù possiamo discernere una promessa per ciascuno di noi, per la nostra vita nella carne mortale: la promessa che anche noi saremo trasfigurati, trasfigurati come la carne fragile di Gesù, trasformati dalla potenza dello Spirito santo, e lo saremo per sempre, partecipando alla vita stessa di Dio, quando nella morte cadremo tra le braccia del Signore vivente per sempre. Ma a noi compete “compiere ciò che è giusto, ogni giustizia” (cf. Mt 3,16), e per questo ci mettiamo in ascolto della pagina del vangelo che abbiamo proclamato, il vangelo secondo Matteo. “Sei giorni dopo” la confessione di Pietro a Cesarea, che aveva riconosciuto in Gesù il Figlio del Dio vivente (cf. Mt 16,16), e avvenuto il primo annuncio della sua passione e morte a Gerusalemme da parte di Gesù (cf. Mt 16,21), Gesù sale su un monte, “su un alto monte” per la terza volta.
Vi era salito per essere tentato dal demonio (cf. Mt 4,8-10), vi era salito per dare la sua parola alla comunità dei discepoli da lui radunati (cf. Mt 5,1), vi sale ora con tre discepoli, “Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello”, i tre discepoli che sono i più vicini a Gesù e che avranno un ruolo primario nella chiesa nascente dopo la Pentecoste. Gesù sale sul monte, in disparte, e proprio lui, l’uomo Gesù, interamente uomo come lo siamo noi, subisce una trasfigurazione, muta la sua forma. Ai tre discepoli saliti con lui Gesù appare altro, assomiglia soprattutto a quel Figlio dell’uomo intravisto nei cieli da Daniele, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, “uno simile al Figlio dell’uomo veniente con le nubi del cielo” (Dn 7,13). “Il volto di Gesù risplendette come il sole e le sue vesti divennero bianche, luminose”.
È sempre Gesù, la sua identità non viene meno, la sua umanità non scompare, non è negata, ma il suo corpo, la sua carne è glorificata, permette di vederela gloria di Dio che abita in quel corpo, che è presente in quella carne mortale. È Gesù, ma è veramente l’unica volta in cui egli, durante la sua vita terrena, è stato visto quale Kýrios, Signore, e sarà visto così soltanto nella sua resurrezione e lo vedranno tutti gli uomini e tutto il cosmo nella sua gloriosa venuta, nella sua manifestazione finale. Anche l’autore dell’Apocalisse lo vede in questa forma, con “un volto che brilla come il sole in tutto il suo splendore” (Ap 1,16). Certo, Mosè aveva ricevuto da Dio il dono di un volto luminoso per l’assiduità vissuta con Dio, per la frequenza degli incontri vissuti con il Signore (cf. Es 34,29-35; 2Cor 3,7), ma qui Gesù riceve un volto di luce, una luce che emana da lui non riflessa, una vera glorificazione che riguarda tutta la sua persona.
Quando aveva proclamato la parabola del grano e della zizzania, nel concluderla Gesù aveva promesso: “I giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43), ma ora è lui a risplendere come il sole. È il Signore, è il Figlio dell’uomo veniente nella gloria, è il Figlio di Dio inviato nel mondo in una carne mortale, ma la sua vera identità profonda, che è sempre stata velata dalla sua carne mortale, qui invece si mostra in tutta la sua forza. La trasfigurazione appare così come una profezia, una rivelazione per tre tra tutti i discepoli, una profezia di quella che sarà un’epifania definitiva per tutta l’umanità. In quella gloria luminosa ecco “apparire Mosè ed Elia”, la Legge e i Profeti, “che dialogano con Gesù”.
Proprio nel vangelo secondo Matteo Gesù aveva detto di non essere venuto ad abolire la Legge e i Profeti (cf. Mt 5,17), anche se questa era un’accusa rivolta contro di lui da quanti lo ascoltavano diffidando del suo insegnamento e non credendo alla sua exousía, alla sua autorevolezza (cf. Mt 7,29; 21,23-27). Ma proprio su questo monte Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti che Gesù voleva compiere pienamente, accanto a lui testimoniano la sua fedeltà, la sua autenticità di ermeneuta delle sante Scritture, syllaloûntes met’ autoû, “conversanti con lui”. Gesù è sempre stato in ascolto della Legge e dei Profeti, ha sempre letto le Scritture per nutrire la sua fede e plasmare la sua vita, e ora ecco che i testimoni della sua vocazione, della sua missione e della sua identità stanno accanto a lui.
Le parole di Mosè ed Elia sono ascoltate da Gesù, ma le parole di Gesù sono ascoltate da Mosè ed Elia, e questa conversazione è oggi più che mai la parola di Dio, fatta carne in Gesù (cf. Gv 1,14), donata agli uomini tramite la Legge e i Profeti, e in modo definitivo nel Figlio stesso di Dio. Pietro allora fa una nuova confessione di fede. Aveva detto poco prima, sei giorni prima, rispondendo alla domanda di Gesù sulla sua identità: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16), ma ora gli dice “Kýrie”, lo invoca “Signore”, con il Nome santo di Dio stesso, e gli dice: “Signore, se tu vuoi, io farò tre dimore, una per te, una per Mosè e una per Elia”.
È un atteggiamento adorante quello di Pietro: “Se tu vuoi, Signore, siccome è cosa buona per noi stare qui,” – ecco iniziativa di Pietro – “io farò tre dimore, cioè predisporrò tutto per il compimento e la realizzazione di tutte le promesse”. Ma “mentre ancora parla, la nube luminosa”, quella nube che nascondeva la presenza di Dio sul monte Sinai (cf. Es 19,9.16; 20,21, ecc.), avvolge tutti i protagonisti di quell’evento, “e nella nube (o dalla nube) una voce dice (phonè … légousa): ‘Questi è il Figlio mio, l’amato, in cui mi sono compiaciuto’”. È la voce stessa di Dio che dichiara Gesù suo Figlio amato, è anche una risposta di Dio alla confessione di Pietro: “Tu sei il Figlio del Dio vivente … Signore”. Quella voce che era già risuonata nel battesimo su Gesù (cf. Mt 3,17), ma che solo lui aveva ascoltato, ora è ridetta davanti ai tre testimoni, ai tre discepoli. Siamo di fronte a un’epifania di Cristo spiegata da Dio stesso: “Questi è il Figlio mio, l’amato. Ascoltatelo!”.
Quell’ascolto che è andato finora alla Legge e ai Profeti può andare a Cristo, perché egli li compie, li realizza, li assume. Di fronte a questa rivelazione “i discepoli, presi da grande timore, cadono con la faccia a terra”, e solo la mano di Gesù può rialzarli dicendo loro: “Non temete!”. Cadono con il volto a terra come Ezechiele davanti alla visione della gloria di Dio (cf. Ez 1,28-2,1), come Daniele di fronte alla manifestazione del Figlio dell’uomo, ma i tre hanno visto furtivamente la gloria di Gesù e hanno ascoltato la proclamazione di Dio: è lui il Figlio amato, è lui l’interprete definitivo e ultimo (dopo il quale non ce ne sarà nessun altro!) della Legge e dei Profeti, l’ermeneuta definitivo e ultimo di Dio, l’ultimo volto di Dio, e non ce ne sono altri né da attendere né da cercare. Questo è il mistero che celebriamo in questa notte, mistero nel quale la nostra comunità fin dagli inizi ha voluto innestare la celebrazione della professione monastica di ogni fratello e di ogni sorella.
Sì, perché proprio nella trasfigurazione la parola di Dio appare più che mai come promessa e la promessa di Dio appare più che mai come parola che si realizza. In verità ogni parola di Dio è promessa, perché ogni parola di Dio si realizza, si compie, non può essere diversamente. Quando Dio parla, promette, sempre, sempre, e ogni sua parola è sempre sostenuta da Dio stesso finché non si è compiuta. Non a caso Geremia ha ascoltato questa parola da parte del Signore: “Io veglio sulla mia parola per compierla” (Ger 1,12). La parola di Dio è sempre fedele, affidabile e sicura (cf. Sal 119 passim), è promessa che si compie. È significativo che in ebraico non ci sia il verbo “promettere”, ma solo “parlare”: e quando Dio parla, la sua parola è promessa, perché se non è una promessa è una menzogna. Basta pensare all’inizio del libro della Genesi: “Dio disse: ‘Luce!”, e la luce fu, e Dio vide che era cosa buona” (Gen 1,3-4).
Questo è l’inizio del parlare di Dio, inizio in cui possiamo vedere che ogni sua parola è promessa che si realizza e si realizza per il bene. Quando Dio parla all’uomo – da Abramo in poi –, parlando sempre promette, e non resta all’uomo se non la risposta: “Eccomi” (Hinneni: Gen 22,1, ecc.), e anche la parola umana dunque è, o dovrebbe essere, una promessa. Altrimenti è meglio per l’uomo non parlare, non consegnare la sua parola! Sta scritto all’interno della Torah: “Quando un uomo farà un voto al Signore per assumere un impegno, non profanerà la sua parola e farà sempre ciò che è uscito dalla sua bocca” (Nm 30,3). Promettere-promessa nel nostro linguaggio significa mettere qualcosa davanti agli altri, mettere qualcosa in anticipo. Promessa, o parola data, è dunque la parola che uno consegna a Dio, è una parola che uno dice davanti agli altri, è una parola che già oggi impegna il suo futuro.
Promessa è dare una parola che non lascerà posto ad altre parole in contraddizione con la parola data. In questo senso dovremmo comprendere, soprattutto noi che facciamo vita monastica ma anche voi che vivete una vicenda d’amore, che c’è una differenza profonda tra progetto e promessa. Anche se oggi siamo pronti a confonderli, perché è la cultura che fa emergere il progetto più della promessa: il progetto è qualcosa che è deciso dal mio io, autonomo, è una parola che io decido di realizzare; la promessa, invece, è un impegno preso con Dio e con gli altri, è un impegnarsi con Dio e con gli altri, definendo addirittura tutta una vita, decidendo oggi il futuro fino alla morte.
Chi promette non ha più a sua disposizione la vita, il suo futuro non è consegnato né al caso né alla necessità ma è determinato per sempre. E la parola data, la promessa attesta che così è! Nella promessa c’è sempre un legame con Dio e con gli altri: nel matrimonio, come nella vita monastica la promessa crea un patto, crea un’alleanza in cui Dio non è solo presente e garante, ma è uno dei contraenti, e la sua presenza è conferma, sostegno, forza dell’alleanza, del patto. Quando si contesta la promessa, quando viene meno la parola data, allora si tradisce la relazione con Dio, con l’altro, con gli altri. Questo è il mistero dell’alleanza, in cui Dio è sempre fedele anche quando viene a mancare la nostra fedeltà; ma è un mistero, quello dell’alleanza, nel quale noi di fatto diciamo “sì” alla vita oppure scegliamo una via di morte.
La trasfigurazione di Gesù è una parola data dal Padre su Gesù, una parola data da Mosè ed Elia su Gesù, una parola definitiva: Gesù è il Figlio amato, è la Parola di Dio stessa. Ma la trasfigurazione è anche la parola data da Gesù al Padre, perché proprio da quell’evento scaturisce l’andata di Gesù a Gerusalemme, la determinazione del suo futuro in obbedienza alla conversazione con Mosè ed Elia, i quali – ci dice Luca – “parlavano con Gesù del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme” (Lc 9,31), cioè del suo esodo pasquale, della sua passione e morte. E infatti, subito dopo la trasfigurazione, lo stesso Luca si affretta ad annotare che Gesù “indurì il suo volto per andare a Gerusalemme” (Lc 9,51), dove l’indurimento non è solo un orientamento preso, ma è un guardare avanti senza più guardare indietro, è un rendere dura la faccia come fa il Servo del Signore (cf. Is 50,7), perché non ha più cura di nulla, di niente di ciò che può sopravvenire sulla strada, dovuto al caso, alle disgrazie, o dovuto alla necessità.
I tre testimoni della trasfigurazione di Gesù, anche loro danno a lui una parola, e la riconosceranno quando Gesù sarà risorto dai morti, in modo che la parola data e la promessa prevalgano sull’incertezza degli eventi della vita o sul fato, sulle necessità che nella vita emergono. Non dobbiamo dimenticare questo, soprattutto durante una professione monastica. Emanuele, che questa sera emette la sua professione monastica nella nostra comunità, è consapevole di questo e dovrà ricordarlo di fronte alle tentazioni che gli sbarreranno la strada. Ci saranno tante tentazioni e tante ragioni per lasciare la strada intrapresa e che oggi intraprende con audacia, definendo per sempre il suo futuro fino alla morte. La comunità, che lo ha ammesso con gioia e unanimità a questo atto di alleanza, dovrebbe sentire questa sera tutta la responsabilità della parola data a lui; lui dà una parola a Dio e a noi, attraverso i voti, ma anche noi diamo una parola a lui, entrando in alleanza con lui e dichiarandoci suoi custodi, custodi fedeli, affidabili, fino alla morte.
Oggi il gesto che Emanuele compie può sembrare una follia, culturalmente almeno un azzardo, perché siamo in una società in cui è venuta meno la consapevolezza e la responsabilità che la parola è una promessa, non lo sappiamo neanche più. Ma solo se la parola è promessa, allora è affidabile, parola in cui si può mettere fiducia, per porre la fiducia nell’altro, negli altri; ma se la parola non è tale, allora – permettetemi la domanda – che ne sarà della nostra umanità, della qualità umana di ciascuno di noi, quando siamo consapevoli che l’uomo, a differenza di tutte le altre creature, ha questa capacità di dare e ricevere una parola affidabile? Emanuele dice al Signore che lo ha chiamato: “Eccomi, sono qui davanti a te e per te.
E sono qui davanti a te insieme ai miei fratelli e alle mie sorelle, tutti insieme a causa di Cristo e del Vangelo, e tutti insieme per nessuna altra ragione”. Non c’è nessuna ragione per cui stiamo insieme nella nostra comunità, se non Cristo! Ma questa ragione è il fondamento della nostra vita umana, non della nostra vita spirituale o religiosa; perché di vita ce n’è una sola, una sola vita noi viviamo e non ce n’è data un’altra! A partire da questa meditazione io mi rivolgo soprattutto alla comunità, chiedendo questa consapevolezza: so benissimo che avviene che questa sera c’è qualcuno che abbraccia il fratello e che metterà in discussione, magari tra un anno o due, la sua vocazione e se ne andrà.
Ma costui, costei porterà la sua responsabilità davanti al Signore e si dichiarerà non affidabile. Questo va preso sul serio, umanamente e cristianamente. Alla fine vorrei rivolgere un ringraziamento al padre e alla madre di Emanuele. Non solo gli hanno dato la vita, ma gli hanno dato un’educazione, un orientamento cristiano e lo hanno aiutato a compiere quello che il Signore gli ha chiesto, quella grazia ricevuta nel battesimo e che giunge a una pienezza. Li ringrazio davvero, perché ci hanno dato un fratello, ma l’hanno dato al Signore oltre che a noi. E il Signore questa sera, per l’invocazione e l’intercessione di voi tutti, ci conceda davvero il dono della stabilità: la stabilità, che è questa caratteristica del monaco che sa dimorare, sa rimanere, sa essere affidabile, perché ha dato la parola davanti agli altri e in anticipo per tutta la sua vita.
Immaginiamo, come scrisse Chesterton, di vedere il mondo capovolto: "Se uno ha visto il mondo capovolto, con tutti gli alberi e le torri appesi all’in giù come quando si specchiano in uno stagno, un possibile risultato sarebbe di mettere l’accento sul concetto di dipendenza. La correlazione è latina e letteraria; infatti il termine dipendente propriamente significaappeso". Ecco, contemplando "Gesù trasfigurato davanti a loro", Pietro, Giacomo e Giovanni devono aver fatto un'esperienza simile. Essa è ben rappresentata in moltissima iconografia della "trasfigurazione": Gesù appare "appeso", mentre i tre apostoli lo guardano proprio dal basso, con la testa sul suolo: "avvolti dalla nube luminosa", infatti, all'udire "la voce" del Padre essi "caddero con la faccia a terra". In quei momenti, non stavano guardando il "mondo capovolto"? Sul Tabor quell'uomo, quell'amico e maestro, stava infatti capovolgendo ogni loro idea sull'uomo, sull'amicizia, sulla vita. I loro occhi si erano aperti su un di più che può esplodere nella carne; stavano contemplando una possibilità che appariva loro "appesa" a un biancore e un'intensità che esistono solo in Cielo. Nella sua "trasfigurazione", Gesù stava svelando loro che, nascosta nella carne, esiste una vita che "dipende", nasce dal Cielo e ad esso è legata, "appesa" appunto. Mai visto niente di simile: nella debolezza che, come una "veste", ricopre le ore dell'esistenza, può dunque risplendere una luce mai vista; da ogni colore, anche dal grigio della routine, anche dal rosso della passione e del dolore, anche dal nero della morte e del dolore, può scaturire il "candore" della libertà, della gioia, della pace. Quel "volto" che avevano fissato tante volte, rigato di sudore, corrugato per la fatica, disteso nella gioia, ora "brillava come il sole", ed era un annuncio sconvolgente: la realtà, anche quella più familiare, la realtà delle persone con cui si parla, si cammina, si soffre e si gioisce, si mangia e si beve, non è solo quello che si vede, si ascolta e si tocca. Anzi, essa cela un segreto, pronto a rivelarsi in una "metamorfosi", un "cambio di forma", che è l'originale greco tradotto con "trasfigurazione". L'evento prodigioso al quale i tre apostoli più intimi di Gesù stavano assistendo affermava che soggiace in ciascuno un'identità nascosta, una "forma" diversa da quella che appare ogni giorno. Ma non basta! La trasfigurazione di Gesù desta la storia, risveglia le profezie che sembravano assopite nel ricordo: infatti, "ecco, apparvero Mosè ed Elia che conversavano con Lui". Il destino di tutta la storia della salvezza, il compimento di tutte le Scritture era quel volto radiante e quelle vesti candide. Ciò significa che il destino di ogni evento della vita e il compimento dell'annuncio della Chiesa è la nostra "trasfigurazione". Il "cambio di forma" è la chiamata che ci ha raggiunto, e la nuova forma di essere, ovvero di pensare, di vedere le cose, di parlare, di agire, è l'opera che Dio vuol fare con ciascuno di noi. La "trasfigurazione" è il passaggio dalle nostre opere alle opere di Dio. Un mondo rovesciato, dunque, proprio come scriveva Chesterton a proposito di San Francesco, il santo nel quale si è compiuta al meglio la "trasfigurazione": "Se in uno dei suoi strani sogni san Francesco avesse visto la città di Assisi capovolta, sarebbe stata perfettamente uguale a se stessa, tranne che per il fatto di essere capovolta... San Francesco avrebbe potuto amare la sua cittadina quanto l’amava prima, o forse anche di più; ma pur amandola di più, l’essenza del suo amore sarebbe stata diversa. Avrebbe potuto vedere e amare ogni tegola dei tetti spioventi e ogni uccello posato sui bastioni, ma li avrebbe visti in una prospettiva nuova e soprannaturale di costante pericolo e dipendenza. Invece di essere semplicemente fiero della sua città perché forte e salda, avrebbe ringraziato Dio onnipotente perché non l’aveva lasciata cadere, avrebbe ringraziato Dio perché non lasciava cadere l’intero cosmo come un vaso di cristallo che si infrangesse in una miriade di stelle cadenti". Così anche i tre apostoli avevano visto la realtà da una "nuova prospettiva soprannaturale e di grande pericolo": erano ebrei, e per questo portavano dentro l'esperienza della precarietà vissuta nel deserto, dove "Dio onnipotente non aveva lasciato cadere" il Popolo. Per questo, di fronte a quel rovesciamento di prospettiva, è risuonata in loro la Pasqua, e il "cambiamento di forma" di cui Israele aveva esperienza: dalla schiavitù alla libertà, dalla sottomissione al giogo del faraone al cammino nel deserto sino alla libertà della Terra promessa. E, al centro di quell'esperienza, il Sinai e il dono della Legge, perché fosse osservata da un popolo diverso da tutti gli altri. Per un ebreo, quel cammino di libertà abbracciato alla Torah era la "bellezza". Per questo Pietro dice a Gesù: "Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia". Non era semplicemente un voler catturare quel momento estatico. Pietro intuiva che ciò che stava accadendo aveva relazione con l'esperienza del suo popolo, per questo vorrebbe costruire tre "capanne", come ogni ebreo fa durante la festa di Succot, Le tende, o capanne, infatti sono il segno della permanenza del popolo nel deserto. E proprio in quel momento, quando cioè Pietro ha intuito cosa stava accadendo, mentre "stava ancora parlando, una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo»". Dalla stessa "nube" che aveva guidato gli israeliti durante i quarant'anni dell'Esodo, la voce del Padre ripete agli Apostoli quello che aveva annunciato nel deserto: "Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!". Tra una mormorazione e l'altra, tra le maglie di una debolezza infinita, ogni ebreo aveva fatto l'incomparabile esperienza di poter (e dover) vivere del solo cibo della Parola di Dio, capace di trasformare la roccia in acqua. Pietro, attento ai segni come ogni buon ebreo, aveva saputo riconoscere in quell'evento il compimento dell'Esodo del suo Popolo; su quel Monte Dio aveva di nuovo parlato, ed era di una "bellezza" mai contemplata. Era "bello" quel momento, era "bello" starci dentro, ma che schianto... L'urto di quell'epifania non poteva non stordire le povere carni degli apostoli. In un momento era apparsa dinanzi a loro la visione della Verità, di ciò che di autentico, glorioso, ovvero di peso, consistente, si cela nella realtà. Ma ciò significava anche "precarietà", la stessa vissuta dal popolo nel deserto, identica a quella di Assisi rovesciata, "in costante pericolo e dipendenza". Vivere una vita trasfigurata contempla anche accettare la propria debolezza, e la "dipendenza" da Dio. Essere cristiani significa essere istante dopo istante "appesi" al Cielo, perché i "pericoli" sono "costanti". E il filo che ci lega al Padre, quello al quale siamo "appesi" per vivere in pienezza ogni frammento della nostra vita, è l"ascolto" del Figlio amato di Dio. Non c'è altro cammino sul quale trasfigurare la nostra realtà in un0identità celeste, in un amore oltre la morte, che "ascoltare" Cristo. Sul Tabor iniziava per gli apostoli, come per ciascuno di noi, un cammino nuovo, che li avrebbe condotti con Gesù al Calvario. Un altro Monte, dove si sarebbe compiuto il rovesciamento di ogni realtà, la trasfigurazione della morte in un'esplosione di luce. E' il cammino che Dio ha preparato anche per noi nella Chiesa. Essa è la Madre di ogni trasfigurazione, perché nel suo seno si compie il mistero accaduto sul Tabor. In essa possiamo "ascoltare" le Parole del Figlio che "cambiano forma" al nostro essere, sino a farci "brillare come il sole", rivestiti delle vesti battesimali "candide" di misericordia. Coraggio, il Signore si "avvicina" a noi anche oggi, e ci "tocca", attraverso i sacramenti. E ci dice di "alzarci, di risuscitare e di non temere". E' questa la "trasfigurazione" che ci attende: risorgere dalla morte dei nostri peccati, dalla schiavitù alla menzogna, alla concupiscenza, all'egoismo, per essere trasformati in puro amore. Siamo chiamati a vivere come uomini trasformati dalla Grazia, che camminano nel mondo a testa in giù, indicando a tutti dove guardare: al Cielo, dove ogni uomo è appeso pur non sapendolo. Basta mostrarglielo, come ha fatto Gesù ai suoi apostoli.
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COMMENTI - OMELIE
ESEGESI
PADRI DELLA CHIESA
CATECHISMO
GEOGRAFIA E ARCHEOLOGIA
ARTE E LITURGIA
TERMINI NOTEVOLI
RADICI NELL'EBRAISMO
αποφθεγμα Apoftegma
Proprio nello spaventoso incontro con la gloria di Dio in Gesù
i tre apostoli devono imparare
ciò che Paolo dice ai discepoli di tutti i tempi
nella Prima Lettera ai Corinzi:
«Noi predichiamo Cristo crocifisso,
scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani;
ma per coloro che sono chiamati,
sia Giudei che Greci,
predichiamo Cristo potenza di Dio [dinamis] e sapienza di Dio».
Questa «potenza» del regno futuro
appare loro nel Gesù trasfigurato
che parla con i testimoni dell' Antica Alleanza
della «necessità» della sua passione come via verso la gloria.
Joseph Ratzinger - Benedetto XVI
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