“Qual è il vostro mestiere”?, chiese il faraone ai fratelli di Giuseppe. “Pastori di greggi”, risposero (47,3). Quella sul mestiere è la prima domanda della vita adulta. E quando non sappiamo rispondere a quella prima domanda, a soffrire è il nostro posto al mondo, non solo il nostro posto di lavoro. Il mestiere è la sintassi con cui componiamo il nostro discorso sociale.
Così quando a un giovane non è donato un mestiere (che è dono prima di essere talento e fatica: il mestiere si apprende da qualcuno), gli mancano parole per parlare di sé, agli altri e a se stesso. La grave indigenza di posti di lavoro della nostra epoca è anche conseguenza di una profonda crisi dei mestieri. Quelli generati dalla cultura artigiana, marinara e contadina, dalle professioni, dalla fabbrica e dagli uffici, si stanno rapidamente contraendo, molti sono scomparsi; e noi, in questa carestia di promesse e di sogni, non riusciamo a generarne abbastanza.
Giacobbe “visse nella terra d’Egitto diciassette anni, gli anni della vita di Giacobbe furono centoquarantasette” (47,28). Sentendo vicina la morte, Giacobbe-Israele rilegge e ricapitola la sua lunga vita: “El Shaddày mi apparve a Luz, nella terra di Canaan, e mi benedisse. Mi disse: ‘Ecco, io ti renderò fecondo, ti moltiplicherò, …’. Quanto a me, mentre giungevo da Paddàn, Rachele mi morì accanto in terra di Canaan … La seppellii là, lungo la via di Efràtah, ovvero a Betlemme” (48,3-7). La vocazione, la voce, e Rachele. L’Alleanza, la promessa, le lotte, gli abbracci, la fedeltà. Gli abitanti di questa storia sono le persone amate, i luoghi, Dio; tutti sempre presenti, tutti sempre protagonisti. Quando si ha il dono di vivere coscienti gli ultimi preziosi momenti della vita (ed è autentico dono), ritornano in noi i volti e rivivono i luoghi degli amori e dei dolori, delle buone scelte fatte e degli appuntamenti mancati negli incroci decisivi; e non è raro che l’ultimo sguardo su un volto o su un luogo sia quello della piena riconciliazione con la vita, dove strappiamo l’ultima benedizione all’angelo della morte. Siamo tempo e siamo spazio, che alla fine sfumano l’uno nell’altro: Rachele e Betlemme, El Shaddày e Luz, Paola e il liceo G. Leopardi dove ci siamo incontrati: tutti rivivono e dicono insieme le nostre ultime-prime parole.
Poi Giacobbe pose le mani sulla testa dei nipoti Manasse e Efràyim, e li benedisse con parole di cielo (48,15-16). Quindi chiamò i suoi figli e disse: “Raccoglietevi e ascoltate, figli di Giacobbe” (49,1-2). E così pronuncia per ogni figlio parole ultime, “dando a ciascuno la propria benedizione” (49,28), senza nascondere gli errori e le colpe (di Ruben, di Levi e Simeone). Ma ancora una volta la benedizione più bella è quella donata a Giuseppe, come in un salmo: “Un torello è Giuseppe, un torello nei pressi di una fonte; al pascolo saltella presso il toro. L’hanno contristato, l’hanno bersagliato, l’hanno osteggiato i tiratori di frecce, ma il suo arco è rimasto stabile …: benedizioni del cielo dall’alto, benedizioni dell’abisso che giace nel profondo, benedizioni delle mammelle e del grembo …” (49,22-26). Come ultimo desiderio chiede ai figli di essere sepolto nella grotta di Makpelàh (49,31), quella comprata da Abramo per Sara dagli Ittiti, acquistata “come proprietà” (49,30), con un regolare contratto (50,13). E quando terminò di parlare ai suoi figli, Giacobbe “raccolse i piedi nel letto, spirò e fu riunito al suo popolo” (49,33). Morirà in Egitto, ma riposerà nella terra di Canaan.
La splendida morte di Giacobbe – in questa nostra età di inimicizia con la morte, e quindi con il limite, dovremmo rileggere molte volte le belle morti dei patriarchi, per farci amare da esse -, generò una nuova crisi nella fraternità: “I fratelli di Giuseppe, quando videro che loro padre era morto, dissero: ‘E se Giuseppe nutrisse astio verso di noi e ci rendesse tutto il male che gli abbiamo fatto?’” (50,15). Presi da questo timore, fanno arrivare a Giuseppe un messaggio contenente una (probabile) menzogna: “Tuo padre prima di morire ci ha comandato: ‘Così direte a Giuseppe: ‘Su, perdona, te ne prego, il misfatto dei tuoi fratelli’” (50,16-17). Ma Giuseppe “pianse quando gli parlarono così”, e disse ancora una volta: “Voi avevate pensato contro di me del male; Dio lo ha pensato a fin di bene”. “Non temete” (50,19-21). E come nel primo perdono, Giuseppe usa le migliori parole per ogni riconciliazione: “Non voi, ma Dio”.
Nella cura della fraternità ferita, e quando, come nel caso di Giuseppe e i suoi fratelli, il perdono non è dimenticare il passato ma investire in un nuovo rapporto ‘risorto’, non è sufficiente il perdono della vittima: è necessario che chi ha commesso il delitto creda veramente nel perdono ricevuto. I fratelli, di fronte al primo perdono, potevano aver pensato: “Lo sta facendo per noi, o per nostro padre?”. La morte di Giacobbe fa emergere quel dubbio e lo fa evolvere in una nuova crisi: in una nuova bugia, in un nuovo pianto, in un nuovo perdono.
Non è raro che la morte di un genitore generi una crisi nel rapporto di fraternità-sororità. E non solo, né tanto, per ragioni di eredità e di interessi. La morte dell’ultimo genitore, anche quando avviene in tarda età sua e dei figli-e, è sempre un passaggio decisivo nei rapporti tra fratelli-sorelle. Si torna, realmente, di nuovo in una situazione di orfanezza, e si sente che una radice profonda si secca dentro. Il principio di unità della famiglia – che era anche un ‘luogo’, la casa materna dove ci si trovava, si faceva festa, ci si riconciliava – non c’è più, o c’è in un modo diverso, e occorre trovarne uno nuovo e rinnovato. E se il rapporto aveva conosciuto profonde ferite, occorre a volte ri-perdonare per donare al perdonato lo spazio e il tempo necessari per accogliere il nostro perdono: “Così li confortò e parlò al loro cuore” (50,21). Il perdono non è un atto, è un processo: si perdona e si riperdona, due, sette volte, settanta volte sette.
Poi “Giuseppe morì all’età di centodieci anni: lo imbalsamarono e fu deposto in un sarcofago in Egitto”. Così termina, dopo venticinque settimane, questo commento al libro della Genesi. Da domenica prossima ci attende l’Esodo, inseguendo la stessa voce, la stessa promessa.
Abbiamo iniziato questa avventura dell’anima, difficilissima e stupenda, in cerca di nuove parole per l’economia. Abbiamo trovato molto di più: viaggiando al ‘termine della notte’ abbiamo intravisto l’albero della vita. Ci siamo risvegliati, chiamati all’esistenza, nel giardino della creazione, e lì, stupiti dall’essere, abbiamo parlato con Dio alla brezza del giorno, e assistito al primo incrocio tra due sguardi umani, ‘occhi negli occhi’. Poi, nei campi, siamo stati testimoni del primo fratricidio-omicidio e l’odore del sangue del primo uomo-fratello ucciso è giunto fino a noi; e abbiamo visto Lamek assassinare un fanciullo. Il tempo si è fermato, siamo morti con tutti gli Abele e i fanciulli uccisi in tutte le guerre del mondo, e continuiamo ancora a morire oggi (è stato doloroso commentare questi ultimi capitoli mentre i razzi cadevano sulla ‘terra di Canaan’). Siamo saliti su un’arca costruita dall’unico giusto, e ci siamo salvati, uomini, donne, animali. Dopo il diluvio ci siamo fermati a Babele: lì abbiamo sentito la tentazione del comunitarismo, l’abbiamo superata, e ci siamo messi in cammino, dispersi e salvati lungo la storia. E così siamo giunti a Ur dei Caldei, dove abbiamo incontrato un arameo errante partito credendo ad una voce diversa e più vera di quella degli dèi di legno. Lo abbiamo stimato e ringraziato per aver creduto anche per noi, e abbiamo desiderato essere come lui. Abbiamo sorriso per un figlio avuto nella vecchiaia, e poi siamo fuggiti, cacciati da Sara, nel deserto insieme ad Agar e Ismaele. Siamo saliti con Abramo ed Isacco sul monte Moria; e su quel monte, e in tanti altri luoghi, abbiamo perso e ritrovato un figlio, ma soprattutto abbiamo rincontrato e riascoltato la prima voce e ricreduto alla sua promessa. Ci siamo innamorati di Rachele nei pressi di un pozzo, e poi siamo morti con lei partorendo Ben-Omi. Abbiamo guadato un torrente per tornare da nostro fratello ingannato, e lì siamo stati attaccati, combattuti, feriti, benedetti, e con Giacobbe siamo diventati Israele. Abbiamo visto il paradiso, sognato angeli e sognato Dio, il sogno dei sogni. Infine ci siamo ritrovati, con Giuseppe, dentro un pozzo-tomba, da cui siamo risorti, per arrivare in Egitto e diventare interpreti di sogni. Lì, in compagnia di Thomas Mann, abbiamo reimparato la fraternità, abbiamo capito che la terra promessa è la terra di tutti, e scoperto l’importanza dei sogni. Ma prima e sopra di tutto siamo stati inondati, sommersi, travolti, amati dalle benedizioni, che hanno superato le tante ambiguità e cattiverie che pur abbiamo incontrato, sentendole vive nelle nostre carni. Benedizioni che ci hanno detto, mille volte e in mille modi, che l’ultima parola sul mondo e sull’uomo non è quella di Caino, anche se è quella che più si fa udire su tutta la terra, ieri, oggi, forse domani. La Genesi ci ha donato orecchi per sentire altre voci, meno rumorose ma più vere: cercare di captarle nel frastuono della storia è il nostro primo compito se vogliamo restare umani, esseri spirituali capaci d’infinito. Ma soprattutto ci ha lasciato dentro una domanda, che è anche impegno, grido, desiderio: quando ricominceremo a sognare Dio?
Avvenire
Nessun commento:
Posta un commento