uomini dal cuore in fiamme.
E tu a parlare dai loro roveti
sulle macerie delle nostre parole,
dentro il deserto dei templi: a dire ai poveri
di sperare ancora.
Davide Maria Turoldo
*
L’incontro decisivo della vita di Mosè avviene durante un ordinario giorno di lavoro: “Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb” (3,1). Mosè era un uomo straniero che lavorava per vivere. Come Giacobbe presso Laban, come tanti uomini del suo tempo e del nostro. Ed è dentro questo lavoro umile e dipendente, che accade l’evento che cambierà la sua storia e la nostra.
Le fabbriche, gli uffici, le aule, i campi, le case, possono essere e sono il luogo degli incontri fondamentali della vita, persino delle teofanie. Gli appuntamenti decisivi ci raggiungono nei luoghi del nostro vivere ordinario, e quindi mentre lavoriamo (lavorare è importante anche per questo). Possiamo partecipare a mille liturgie, fare cento pellegrinaggi e decine di ritiri spirituali, e così vivere esperienze splendide; ma gli eventi che veramente ci cambiano accadono nella quotidianità, quando senza cercarla né attenderla, una voce ci chiama per nome nei luoghi umili del vivere. Facendo i piatti, correggendo un compito, guidando un tram. O pascolando un gregge, nei pressi dei roveti che bruciano nelle nostre periferie.
Tutta la prima parte della vita di Mosè è all’insegna della normalità. Le vocazioni bibliche non sono spettacolari, né legate alla straordinarietà dei chiamati né al loro merito (chi ama la ‘meritocrazia’ non trova alleati nella Bibbia). Mosè non è scelto perché buono o migliore degli altri uomini. Come Noè, è chiamato a costruire un’arca di salvezza: “Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe»” (3,4-6).
Un altro grido, questa volta di Dio, che Mosè sa ascoltare; una voce alla quale crede, riconoscendola senza conoscerla. Mosè, infatti, non era stato educato nella sua gente. Era cresciuto con gli egiziani (da cui aveva preso il nome), poi aveva vissuto presso un popolo straniero e idolatra. Non aveva ascoltato le storie dei patriarchi nelle lunghe sere sotto la tenda. Forse gli stessi nomi di Abramo, Isacco, Giacobbe, gli dicevano poco, o niente. Di chi era allora quella voce che gli parlava dal roveto? Come distinguerla dalla voce dei tanti dei che popolavano la terra di Madian? Diversamente dai patriarchi, Mosè dialoga direttamente con Dio, ci discute, gli domanda il nome (YWHW), vuole dei segni, recalcitra, e infine parte: “Va'! Io ti mando dal faraone. Fa' uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!». Mosè dice a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall'Egitto? … Non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce” (3,9-11; 4,1). Dio allora gli dà dei segni (4,2-9), ma Mosè non è ancora convinto: “Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore” (4,10). Ora Mosè mette in discussione la sua capacità di svolgere il compito. Non sa parlare, forse è balbuziente (“sono impacciato di bocca e di lingua”), mancante quindi del principale strumento del profeta. Dio lo convince dicendogli che il primo e vero strumento del profeta non è la bocca, ma la sua persona: la voce gliela presterà suo fratello Aronne: “Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca” (4,15). E così, “Mosè partì” (4,18).
In questo dialogo ci si svela una dimensione essenziale di ogni autentica vocazione profetica (ogni vocazione, se è autentica, è anche profetica). Non sono i mezzi verbali né le tecniche comunicative a dare contenuto e forza alla profezia. Ci sono profeti che hanno salvato e salvano molti senza saper né parlare né scrivere, che hanno parlato e scritto parole di vita. La profezia è gratuità, e la sua prima espressione è riconoscere che la vocazione che si è ricevuta è tutto dono, non un proprio manufatto. È eccedenza, e chi è chiamato non è il padrone della voce. La sola parola necessaria al profeta è Eccomi.
Il parlare eloquente spesso accompagna i falsi profeti, i sofisti che usano talenti e tecniche per manipolare gli altri e le promesse. Cembali risonanti. La percezione soggettiva (e a volte oggettiva) della propria inadeguatezza a svolgere il compito cui si è chiamati, è il primo segnale dell’autenticità di una vocazione. Dubitare della propria voce è essenziale per credere alla verità della Voce che ci chiama. Occorre allora guardare con sospetto chi attende di essere inviato a salvare qualcuno perché si è formato a tale scopo, ha appreso il ‘mestiere del profeta’ e si sente pronto per esercitarlo.
Mosè riconosce quella voce difficile come una voce buona di salvezza. In tutto il suo dialogo non mette mai in discussione la verità della voce che lo chiama. Saper riconoscere la voce buona che ci parla negli incontri decisivi della vita è una capacità che possediamo, che fa parte del repertorio dell’umano. Quando arriva, quella voce è inconfondibile. Possiamo non rispondere, negarla perché ci chiede cose scomode, tapparci le orecchie e l’anima, ma la riconosciamo sempre.
Questo dialogo ci dice molto anche del Dio biblico: non è un sovrano che dà ordini ai suoi sudditi. È il Dio dell’Alleanza, che dialoga, ci convince, si arrabbia, argomenta. E’ un logos. E ha bisogno del ‘sì’ di Mosè per agire nella storia; come ai tempi del diluvio, per salvare il suo popolo ha bisogno della risposta di un uomo. Ha bisogno di diventare amico e compagno dell’uomo – senza le grandi vocazioni bibliche, e senza le vocazioni che continuano a riempire la terra, Dio sarebbe troppo lontano.
La grande vocazione di Mosè ci dice allora che per tornare liberi non è sufficiente trovare la forza e la fede per gridare il nostro dolore dal profondo delle nostre schiavitù. Non basta neanche che questo grido di dolore sia raccolto dal Cielo (“Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido”: 3,7). Per uscire dalle schiavitù profonde e da quelle collettive c’è bisogno che qualcuno risponda “sì” ad una vocazione di liberazione di altri.
Mosè è l’immagine, la più grande, di chi è chiamato a liberare altri dalle schiavitù, senza essere egli stesso schiavo. Mosè non è ai lavori forzati in Egitto, ma un lavoratore emigrato e salariato nella terra di Madian. È però parte del popolo oppresso, un suo figlio, un fratello. Si trova fuori dalla ‘buca’ dove sono precipitati gli altri, e così può liberarli. Non è schiavo ma soffre per la condizione di schiavitù dei ‘suoi fratelli’, al punto di uccidere un egiziano che aveva colpito uno di loro.
Non liberiamo nessuno se prima non sentiamo nella nostra carne il dolore per la sua sofferenza. Gandhi, Madre Teresa, Don Oreste, e migliaia di altri ‘liberatori’, sono stati capaci di rispondere un giorno “Eccomi” ad una chiamata di liberazione di altri, perché prima avevano sofferto e sentito il dolore per la condizione di schiavitù del loro ‘popolo’. Erano fuori dalla fossa, ma soffrivano per e con chi era dentro, si sentivano parte dello stesso popolo, provavano veramente lo stesso dolore.
Non sono i faraoni a liberarci dai lavori forzati. La liberazione degli oppressi viene dagli oppressi: dal popolo, da un suo figlio, da un ‘fratello’ naturale o da chi diventa fratello per vocazione – fratelli si può diventare. Senza provare indignazione, dolore, mal di cuore e di anima, per la sorte dei nostri fratelli oppressi da qualsiasi forma di ‘schiavitù’, senza vivere esuli per fuggire dai faraoni, senza rischiare di finire in tribunale per le denunce dei potenti (e spesso finirci realmente), non si libera nessuno – e qualche volta si scopre che i ‘liberatori’ erano sul libro-paga dei faraoni. Gli imprenditori o i politici che hanno liberato e liberano veramente poveri dalle trappole in cui si trovano, sono quelli che hanno provato dolore spirituale e fisico incontrando e abbracciando gli abitanti delle periferie del mondo. Si sono sentiti solidali, qualche volta sono diventati loro fratelli, e quando hanno udito forte una voce sono stati capaci di diventare altro, di rispondere e di partire. Senza questi dolori, abbracci, ascolti, fraternità, si può fare forse un po’ di filantropia o lanciare una campagna mediatica. Ma le vere liberazioni nascono da un grido, da un ascolto, da un dolore, e da un “Eccomi”.
Non vediamo abbastanza liberazioni perché non gridiamo abbastanza, o perché non riusciamo a gridare al posto di chi non ha più la forza di gridare. Ma il mondo soffre soprattutto per mancanza di persone che sanno soffrire per il loro popolo oppresso, ascoltare la voce buona, lasciarsi convertire, e poi rispondere. Soffrire per le ingiustizie che ci circondano è un’alta forma di amore-agape, la premessa di ogni liberazione.
Ci sono molte spine che ardono nelle periferie dei nostri pascoli. Bruciano da anni, da secoli, e non si consumano mai. Da esse partono voci che ci chiamano, che attendono il nostro ‘Eccomi’.
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