Non ha detto «Non peccare non tradire,
non essere incoerente».
Non ha toccato nulla di questo.
Ha detto:« Simone, mi ami tu?».
Ognuno di noi
non riesce a sfuggire completamente
al fatto che Cristo è amabile a da noi
esattamente così come siamo.
Cristo è chi si compiace di noi
di me, dice san Pietro piangendo,
la Maddalena, la Samaritana, l'assassino
Cristo è colui che si compiace di me
e perciò mi perdona.
Mi ama e mi perdona.
Don Giussani
Gv 21,1-19
In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
Il commento
«Ipse est Petrus cui dixit: “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam”. Ubi ergo Petrus, ibi Ecclesia; ubi Ecclesia, ibi nulla mors, sed vita aeterna» «Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa; dove c'è la Chiesa, lì non c'è affatto morte ma vita eterna». (Sant'Ambrogio, Enarrationes in XII Psalmos davidicos; PL 14, 1082) «Ipse est Petrus cui dixit: “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam”. Ubi ergo Petrus, ibi Ecclesia; ubi Ecclesia, ibi nulla mors, sed vita aeterna» (Enarrationes in XII Psalmos davidicos; PL 14, 1082). «Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa; dove c'è la Chiesa, lì non c'è affatto morte ma vita eterna». Pietro e la Chiesa. E la vita, e la fine della morte. E' questo il desiderio d'ogni uomo, il nostro desiderio d'oggi, il più profondo, il più intenso, l'anelito che freme insopprimibile in ogni parola, pensiero, azione. La vita e mai più nessuna morte. I peccati stessi gridano il nostro desiderio di felicità eterna, che si tramuta purtroppo in fuga da ogni sofferenza confondendo il piacere con l'eterno esistere a cui aspiriamo. Le guerre, i divorzi, financo gli aborti, e gli abomini genetici, e le nostre ore intrise di rabbia, malinconia, ribellioni e mormorazioni. Non ci arrendiamo all'ineluttabile scorrere, v'è dentro un grido più forte di tutto, l'accorato appello lanciato ad una vita che sembra sorda ad ogni richiamo, che sfugge malvagia senza risposta. Tutti drogati di qualcosa o di qualcuno, sperando il cristallizzarsi, seppur effimero, d'un secondo almeno, un istante di tregua e di pace dove cullare le deluse speranze vissute solo in un sogno. Leopardi descriveva magistralmente i sentimenti che s’affastellano in noi:
"Questo è quel mondo? questi
i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano" (G. Leopardi, A Silvia).
Il "vero" che ci travolge, e ci spalanca "ignude tombe", e dolori, e lacrime, e delusioni. La vita come il cammino dei due di Emmaus, che avevano sperato in Lui, Gesù di Nazaret, profeta potente in parole ed opere, che li avrebbe liberati e invece.... Anche Lui chiuso in una "tomba ignuda", anche Lui "all'apparir del vero" è caduto "misero" e solo. E son tre giorni ormai. E le lacrime di Pietro, il tradimento e un amore strozzato nella paura di morire, di fare la stessa fine atroce. Come noi, come tutti. Lacrime e delusioni, sconfitte e "ignude tombe". E nudo il Signore è sceso nella tomba, un sudario a venerarne le piaghe, e una pietra a sigillare le speranze. Nudo come tutti noi. Tre giorni. Un'eternità. Il silenzio e le lacrime. Tutto infranto e i desideri spezzati. E una sera, all'imbrunire d'un giorno di paura, i chiavistelli della vita ben serrati, nella stanza d’una pasqua appena volata via, ecco d’improvviso apparire un volto incandescente di luce, una voce, un saluto di Pace che trapassa i muri e i cuori. La Sua voce, il Suo volto, le Sue piaghe. E' Lui, è proprio Lui, I segni del Suo amore inchiodato ad un legno, e quella luce da quelle ferite. E la gioia, incontenibile, era morto ed ora è qui, è vivo, è tornato dall'ignuda tomba. Vittorioso. Sulla morte. Sul peccato. Lì, in quel cenacolo, la vita. E' scomparsa la morte, è apparsa la vita. La vita eterna. In mezzo a quel manipolo terrorizzato, che è scappato, che ha tradito, l'amore è esploso in una vita più forte della morte. Il perdono per ogni peccato. E Pietro, lui, la roccia, lui, il primo, il primo ad essere perdonato. Il primato del perdono e la roccia della Chiesa, della Sua Chiesa, è la misericordia. La beatitudine di Pietro, e di noi con lui, è tutta in questa esperienza: Pietro, il papa, perdonato da una Grazia celeste; un perdono che nè carne e nè sangue possono rivelare. Un perdono che viene dal sepolcro, che ha attraversato l'inferno, che s'è fatto dono gratuito e immeritato. Perdonato. Solo uno sguardo perdonato può riconoscere Dio. I puri di cuore vedono Dio; gli occhi purificati nella Sua misericordia riconoscono Dio in un povero rabbì di Nazaret. Il figlio di Giuseppe, un uomo, Lui è il Messia. Dio fatto uomo. Nella precarietà, nelle contraddizioni della carne, in un corpo corruttibile abita Dio, e vive la Sua Vita immmortale. La Vita nella morte. E' la fede della Chiesa, la risposta ad ogni speranza, sulla strada di Emmaus e sulle strade d'ogni uomo, all'apparir d'ogni vero e in tutte le ignude tombe, la vita che brilla nel perdono più forte della morte. L'amore di Dio che vince il sepolcro. Pietro, amato e perciò vivo. Pietro, perdonato e per questo roccia e fondamento della Chiesa. «Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa; dove c'è la Chiesa, lì non c'è affatto morte ma vita eterna».Con Pietro nella Chiesa si apprende l'amore. Ed in esso la Vita. Quella preparata per ogni uomo. La Chiesa porta del Cielo per ogni carne. Ed un Pastore a guidare il cammino. Un Pastore incarnato nel pastore che ci è donato. Pietro, ed ogni papa, schiude le porte del Cielo offrendo gratuitamente ad ogni uomo l'amore di Dio, la Sua misericordia. Un Pastore che prende il largo gettando le reti sulle parole di Gesù. "Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo - a Dio, a Cristo, alla vera vita. I Padri hanno dedicato un commento molto particolare anche a questo singolare compito. Essi dicono così: per il pesce, creato per l'acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all'uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita. Nella missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio. È proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell'evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l'amicizia con lui. Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso. Ma è bello e grande, perchè in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo" (Benedetto XVI, omelia alla Santa Messa di inizio Pontificato). E sulla porta del mondo Pietro, garante e custode della Parola d'amore incarnata qui ed ora, in questa nostra storia che sembra accendersi solo alla vista del sangue, dell'odio e della vendetta. A questo mondo, che è fuori e dentro ciascuno di noi, Pietro dischiude le porte della sua casa, la Chiesa dov'è vivo Cristo. La casa di Pietro, le viscere di misericordia di Dio. Dialogo, tolleranza, rispetto. Tutto va bene per le umane, povere forze spese ad arginare il male. La casa di Pietro invece spalanca il Cielo, l'amore eterno, che è perdono e misericordia e dono, unico scoglio ad infrangere ogni male. E' la Chiesa, Madre e Maestra d'amore e di pace. E' Pietro, che presiede nella carità un manipolo di poveri uomini strappati all'inganno. La Chiesa e il suo gregge, uniti a Pietro, in ogni generazione segno dell'unica speranza, Cristo, lo sguardo di misericordia del Padre su ogni uomo. Oggi, e sempre.
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Le omelie della III^ Domenica di Pasqua
Mettiamo in rete le omelie delle ns.
Parrocchie,della III Domenica di Pasqua – Anno C – 14 marzo 2013,
Parrocchie,della III Domenica di Pasqua – Anno C – 14 marzo 2013,
e di don Francesco Scimè
omelia (file audio mp3-27′)
alla Parrocchia Sammartini, Ronchi-Bolognina, Caselle.
omelia (file audio mp3-27′)
alla Parrocchia Sammartini, Ronchi-Bolognina, Caselle.
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Ravasi - III Domenica di Pasqua 14 aprile 2013
La grande storia - Ipotesi su Gesù
La storia siamo noi - L'inchiesta su Gesù Bambino
il filo d'Oro
La vita eterna - Enzo Bianchi
Fonte: monasterodibose
Avvenire, 14 aprile 2013
La mia generazione ha ancora conosciuto la grazia di una catechesi sui novissimi, cioè sulle “realtà ultimissime” che ci attendono tutti: morte, giudizio, inferno e paradiso. Su queste colonne abbiamo già offerto nel tempo di Avvento una riflessione sul giudizio; ora nel tempo pasquale vogliamo sostare sul tema della vita eterna, chiamata anche, come situazione finale, “paradiso” (da pardes, parola persiana che significa “giardino”: Ne 2,8; Qo 2,5; Ct 4,13).
Prima di andare al cuore della riflessione conviene però cogliere l’oggi nel quale viviamo, un oggi nel quale non solo il tema dei novissimi è sovente dimenticato ed evaso, ma in cui predomina il desiderio della vita presente, e dunque manca o non è esercitato il desiderio della vita eterna. Anche i cristiani, se non in certe ore di sofferenza, non si sentono più “esuli, … gementi e piangenti in questa valle di lacrime” – come si canta nell’antifona mariana Salve Regina –, e dunque non hanno molta attesa della vita in Cristo al di là della morte e sentono il paradiso come un sogno, una chimera. Sì, come ha scritto Benedetto XVI, i cristiani non sembrano volere la vita eterna, anzi la vita eterna appare ad alcuni un ostacolo al vivere bene oggi la vita in questo mondo.
Da monaco, conosco tra gli strumenti della vita cristiana questo esercizio: “Desiderare la vita eterna con tutta la concupiscenza spirituale” (Regola di Benedetto 4,46): Vorrei però ricordare anche una pratica che mi era stata insegnata fin da quando ero piccolo. Forse per il fatto di avere perso mia madre a otto anni, tutte le domeniche pomeriggio dopo la liturgia dei vespri venivo portato, e poi più tardi andavo da solo, al cimitero, per compiere la visita ai morti. Nel fare ritorno a casa avevo ricevuto la raccomandazione di sgranare la corona del rosario sussurrando a ogni passo: “Gesù Cristo è la vita eterna”. Parole che mi sono sempre rimaste impresse, che certo allora mi consolavano nella mia orfanità, ma che più tardi sono diventate parole martellanti nel dubbio, nella paura, nella perdita di persone care. Gesù Cristo è la vita eterna perché, se è lui il Risorto vivente, se è lui che ha vinto la morte, chi può separarci dal suo amore (cf. Rm 8,35)? Se lui si fa sentire accanto a me, se posso dire che io e lui viviamo insieme (cf. 1Ts 5,10), se lui mi ama, mi consola e mi ispira ogni giorno, potrà abbandonarmi al di là della morte? Impossibile! Cristo è fedele e, se ora è accanto a me, lo sarà anche nella morte, e al di là della morte sarà pronto ad abbracciarmi perché io sia sempre con lui e con i suoi e miei amici. È così che la vita eterna può essere non solo una speranza, ma può anche essere desiderata, pur nella consapevolezza del dover attraversare le acque oscure della morte, acque che – secondo il grande Origene – possono essere espiazione dei peccati.
Di vita eterna ci ha parlato Gesù, per indicare quella vita salvata dal peccato e dalla morte che Dio donerà al discepolo che segue fedelmente il suo Maestro e Signore Gesù Cristo. La vita eterna è ciò che si può ottenere osservando i comandamenti, cioè facendo la volontà di Dio, amando dunque Dio al di sopra di tutto e con tutto il proprio essere (cf. Dt 6,5; Mc 12,30 e par.); la vita eterna è l’eredità che Dio dà ai suoi eletti, ai credenti in suo Figlio Gesù Cristo; la vita eterna è lo zampillare dell’acqua viva che Gesù fa sgorgare dal cuore del discepolo (cf. Gv 4,14); la vita eterna è il dono fatto dal Padre a chi muore avendo operato il bene. E tuttavia la vita eterna è sì una realtà che fiorisce e sboccia dopo la morte fisica, ma è una vita già innestata nel credente qui e ora, a partire da quell’immersione nelle acque del battesimo in cui si depone la vita dell’uomo vecchio e si risale dall’acqua rivestiti di Cristo (cf. Gal 3,27) e dotati della capacità di vivere la vita eterna. Per questo sta scritto: “Chi ama il fratello passa dalla morte alla vita” (cf. 1Gv 3,14). Chi aderisce a Gesù, ascolta la sua parola e vive di essa, mangia la sua carne e beve il suo sangue, e lo segue ovunque vada (cf. Ap 14,4), ha in sé la vita eterna come un seme che crescerà e darà il suo frutto nel Regno. E così si compie la parola di Gesù: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3).
Per esprimere e raccontare la vita eterna, le sante Scritture ricorrono al linguaggio simbolico, un linguaggio aperto, evocativo e allusivo, un linguaggio rispettoso del mistero, dell’alterità e della santità di Dio. È un linguaggio iconico, dunque poetico, e non dimentichiamo che solo la creatività poetica può osare dire (Audemus dicere…) Dio e cercare di evocare il suo Regno. Ecco perché, per raccontare la vita eterna, si è imposta soprattutto un’immagine biblica, simbolo della beatitudine eterna: il paradiso. Gesù sulla croce, al ladrone crocifisso con lui che lo prega, dichiara solennemente: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43), ovvero “oggi tu sarai con me, accanto a me, insieme a me, e dunque sarai anche tu in Dio, in quel pardes, in quel giardino dove si vive la vita eterna”. Nell’in-principio creazionale Dio ha piantato per l’uomo “un giardino in Eden” (gan be-‘eden: Gen 2,8) come luogo della comunione tra sé e l’uomo stesso, l’adam, luogo teologico posto agli inizi della storia ma che profetizza la fine della storia. I profeti, soprattutto Ezechiele e il deutero-Isaia, hanno poi fornito alla speranza escatologica delle immagini, dei simboli, quasi ad aprire un varco che chiede ai lettori una lettura teleologica, aperta sulle realtà finali, sicché i padri della chiesa hanno potuto scrivere: “Dio creò l’uomo e lo pose nel paradiso, cioè in Cristo”. Sì, Cristo è il paradiso, è il luogo u-topico, senza luogo, della comunione piena e priva di ombre con Dio. Il paradiso è la nostra patria, la nostra vocazione, il dono che ci attende. Per questo dicono ancora i padri della chiesa, in particolare quelli orientali: “L’uomo è un essere che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio”.
Per narrare questa verità, questa speranza indicibile, la Bibbia ricorre a immagini diverse che indicano la vita piena (shalom), la gioia (beatitudine), la vita eterna (per sempre) e di conseguenza la convivialità (comunione) e la luce (non più le tenebre del peccato). Sono immagini che si riferiscono ai bisogni umani della sfera affettiva, sessuale, sociale e politica: il cibo, l’amore, l’incontro sessuale, l’amicizia, la convivenza pacifica, l’assenza di pianto e di lutto. Sono le promesse del Dio vivente, del Dio fedele all’alleanza, “che non mente” (Dt 32,4), che è “amante della vita” (Sap 11,26), del “Dio misericordioso e compassionevole” (Es 34,6, ecc.). Sono immagini tanto semplici quanto universalmente umane, umanissime: il banchetto con cibi e vini squisiti (cf. Is 25,6; Mt 22,1-10); le nozze, che sono sempre comunione profonda di tutto l’essere (cf. Ap 17,7-9; 21,2); la pace tra i popoli e la scomparsa della guerra (cf. Is 2,4; 9,6); la concordia tra gli animali e tra gli uomini e le bestie feroci (cf. Is 11,6-8). Si ricorre anche a dimensioni ludiche, come il giocare del lattante con il serpente velenoso (cf. Is 11,8), la danza, la festa della nuova creazione, in cui i cieli nuovi e la terra nuova innalzano la lode a Dio (cf. Is 65,17; 66.22; Ap 21,1). È una lode cosmica in cui tutte le creature esprimono il loro “amen”, il loro “sì” a Dio, è un ringraziamento per il compimento dell’opera divina…
Come annunciare questa realtà della vita eterna, del paradiso? L’Apocalisse di Giovanni, al termine delle sante Scritture, tenta a più riprese questa profezia: un banchetto di nozze per l’Agnello sgozzato ma risorto e ora in piedi e vittorioso; attorno a lui tutti i salvati impegnati in una liturgia, in una danza, in una pericoresi, vera circolazione di amore, l’amore del Padre amante, del Figlio amato, dello Spirito amore. Dio è la dimora dell’umanità, il Regno è la dimora del cosmo e la festa è trasfigurazione di tutti e di tutto in Cristo, con Cristo e per Cristo, uomo e Dio. Questa comunione è comunione tra Dio e ogni volto, comunione personalissima, ed è comunione tra umani: Dio “sarà Uno” (cf. Zc 14,9) e una in Dio sarà l’umanità redenta.
Di fronte a queste immagini bibliche della vita eterna, in ogni epoca si è cercata una rappresentazione dei beati, del paradiso, sovente contrapposta a quella dei dannati, dell’inferno. Nelle chiese medioevali, dove dominava il Pantocratore, il Veniente glorioso, si potevano vedere alla sua destra i beati e alla sua sinistra i dannati. Era un ammonimento per quanti vedevano questa raffigurazione, un richiamo alla realtà del giudizio universale che un giorno sarà manifestato ma che si decide già oggi nella nostra vita. Domani, in quel giorno escatologico, il giorno del Signore, si udrà: “Venite, benedetti…”, ma tutto è già deciso nella nostra vita; lo decidiamo quando vediamo un affamato, uno straniero, un malato, un povero (cf. Mt 25,31-46). Dall’atteggiamento che assumiamo ora e qui decidiamo se a noi saranno rivolte le parole: “Venite, benedetti…” (Mt 25,34), oppure: “Andate via, maledetti…” (Mt 25,41). Decidiamo se saremo nell’amore della comunione con Dio o fuori di quella comunione, cioè in una situazione di morte. È in ogni nostro oggi che Dio dice a ciascuno di noi: “Oggi io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male … Scegli dunque la vita!” (Dt 30,15.19).
Al termine di queste tracce sulla vita eterna oso pensare al Giudizio universale di Michelangelo nella Cappella Sistina: i beati sono tutti in festa, spesso abbracciati tra di loro, nell’atto di baciarsi, guardando ognuno il volto dell’altro, in cui si vede il volto di Cristo. Ispirato da questa immagine, concludo citando uno stupendo canto liturgico previsto dalla liturgia ortodossa per la notte pasquale:
O danza mistica! O festa dello Spirito!
O Pasqua divina che scende dal cielo sulla terra
e dalla terra sale di nuovo al cielo!
O festa nuova e universale, assemblea cosmica!
Per tutti gioia, onore, cibo, delizia:
per mezzo tuo sono state dissipate le tenebre della morte,
la vita viene estesa a tutti,
le porte dei cieli sono state spalancate.
Dio si è mostrato uomo
e l’uomo è stato fatto Dio.
Entrate tutti nella gioia del Signore nostro;
primi e secondi, ricevete la ricompensa;
ricchi e poveri, danzate insieme;
temperanti e spensierati, onorate questo giorno:
abbiate o no digiunato,
rallegratevi oggi!
Nessuno pianga la sua miseria:
il Regno è aperto a tutti!
Prima di andare al cuore della riflessione conviene però cogliere l’oggi nel quale viviamo, un oggi nel quale non solo il tema dei novissimi è sovente dimenticato ed evaso, ma in cui predomina il desiderio della vita presente, e dunque manca o non è esercitato il desiderio della vita eterna. Anche i cristiani, se non in certe ore di sofferenza, non si sentono più “esuli, … gementi e piangenti in questa valle di lacrime” – come si canta nell’antifona mariana Salve Regina –, e dunque non hanno molta attesa della vita in Cristo al di là della morte e sentono il paradiso come un sogno, una chimera. Sì, come ha scritto Benedetto XVI, i cristiani non sembrano volere la vita eterna, anzi la vita eterna appare ad alcuni un ostacolo al vivere bene oggi la vita in questo mondo.
Da monaco, conosco tra gli strumenti della vita cristiana questo esercizio: “Desiderare la vita eterna con tutta la concupiscenza spirituale” (Regola di Benedetto 4,46): Vorrei però ricordare anche una pratica che mi era stata insegnata fin da quando ero piccolo. Forse per il fatto di avere perso mia madre a otto anni, tutte le domeniche pomeriggio dopo la liturgia dei vespri venivo portato, e poi più tardi andavo da solo, al cimitero, per compiere la visita ai morti. Nel fare ritorno a casa avevo ricevuto la raccomandazione di sgranare la corona del rosario sussurrando a ogni passo: “Gesù Cristo è la vita eterna”. Parole che mi sono sempre rimaste impresse, che certo allora mi consolavano nella mia orfanità, ma che più tardi sono diventate parole martellanti nel dubbio, nella paura, nella perdita di persone care. Gesù Cristo è la vita eterna perché, se è lui il Risorto vivente, se è lui che ha vinto la morte, chi può separarci dal suo amore (cf. Rm 8,35)? Se lui si fa sentire accanto a me, se posso dire che io e lui viviamo insieme (cf. 1Ts 5,10), se lui mi ama, mi consola e mi ispira ogni giorno, potrà abbandonarmi al di là della morte? Impossibile! Cristo è fedele e, se ora è accanto a me, lo sarà anche nella morte, e al di là della morte sarà pronto ad abbracciarmi perché io sia sempre con lui e con i suoi e miei amici. È così che la vita eterna può essere non solo una speranza, ma può anche essere desiderata, pur nella consapevolezza del dover attraversare le acque oscure della morte, acque che – secondo il grande Origene – possono essere espiazione dei peccati.
Di vita eterna ci ha parlato Gesù, per indicare quella vita salvata dal peccato e dalla morte che Dio donerà al discepolo che segue fedelmente il suo Maestro e Signore Gesù Cristo. La vita eterna è ciò che si può ottenere osservando i comandamenti, cioè facendo la volontà di Dio, amando dunque Dio al di sopra di tutto e con tutto il proprio essere (cf. Dt 6,5; Mc 12,30 e par.); la vita eterna è l’eredità che Dio dà ai suoi eletti, ai credenti in suo Figlio Gesù Cristo; la vita eterna è lo zampillare dell’acqua viva che Gesù fa sgorgare dal cuore del discepolo (cf. Gv 4,14); la vita eterna è il dono fatto dal Padre a chi muore avendo operato il bene. E tuttavia la vita eterna è sì una realtà che fiorisce e sboccia dopo la morte fisica, ma è una vita già innestata nel credente qui e ora, a partire da quell’immersione nelle acque del battesimo in cui si depone la vita dell’uomo vecchio e si risale dall’acqua rivestiti di Cristo (cf. Gal 3,27) e dotati della capacità di vivere la vita eterna. Per questo sta scritto: “Chi ama il fratello passa dalla morte alla vita” (cf. 1Gv 3,14). Chi aderisce a Gesù, ascolta la sua parola e vive di essa, mangia la sua carne e beve il suo sangue, e lo segue ovunque vada (cf. Ap 14,4), ha in sé la vita eterna come un seme che crescerà e darà il suo frutto nel Regno. E così si compie la parola di Gesù: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3).
Per esprimere e raccontare la vita eterna, le sante Scritture ricorrono al linguaggio simbolico, un linguaggio aperto, evocativo e allusivo, un linguaggio rispettoso del mistero, dell’alterità e della santità di Dio. È un linguaggio iconico, dunque poetico, e non dimentichiamo che solo la creatività poetica può osare dire (Audemus dicere…) Dio e cercare di evocare il suo Regno. Ecco perché, per raccontare la vita eterna, si è imposta soprattutto un’immagine biblica, simbolo della beatitudine eterna: il paradiso. Gesù sulla croce, al ladrone crocifisso con lui che lo prega, dichiara solennemente: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43), ovvero “oggi tu sarai con me, accanto a me, insieme a me, e dunque sarai anche tu in Dio, in quel pardes, in quel giardino dove si vive la vita eterna”. Nell’in-principio creazionale Dio ha piantato per l’uomo “un giardino in Eden” (gan be-‘eden: Gen 2,8) come luogo della comunione tra sé e l’uomo stesso, l’adam, luogo teologico posto agli inizi della storia ma che profetizza la fine della storia. I profeti, soprattutto Ezechiele e il deutero-Isaia, hanno poi fornito alla speranza escatologica delle immagini, dei simboli, quasi ad aprire un varco che chiede ai lettori una lettura teleologica, aperta sulle realtà finali, sicché i padri della chiesa hanno potuto scrivere: “Dio creò l’uomo e lo pose nel paradiso, cioè in Cristo”. Sì, Cristo è il paradiso, è il luogo u-topico, senza luogo, della comunione piena e priva di ombre con Dio. Il paradiso è la nostra patria, la nostra vocazione, il dono che ci attende. Per questo dicono ancora i padri della chiesa, in particolare quelli orientali: “L’uomo è un essere che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio”.
Per narrare questa verità, questa speranza indicibile, la Bibbia ricorre a immagini diverse che indicano la vita piena (shalom), la gioia (beatitudine), la vita eterna (per sempre) e di conseguenza la convivialità (comunione) e la luce (non più le tenebre del peccato). Sono immagini che si riferiscono ai bisogni umani della sfera affettiva, sessuale, sociale e politica: il cibo, l’amore, l’incontro sessuale, l’amicizia, la convivenza pacifica, l’assenza di pianto e di lutto. Sono le promesse del Dio vivente, del Dio fedele all’alleanza, “che non mente” (Dt 32,4), che è “amante della vita” (Sap 11,26), del “Dio misericordioso e compassionevole” (Es 34,6, ecc.). Sono immagini tanto semplici quanto universalmente umane, umanissime: il banchetto con cibi e vini squisiti (cf. Is 25,6; Mt 22,1-10); le nozze, che sono sempre comunione profonda di tutto l’essere (cf. Ap 17,7-9; 21,2); la pace tra i popoli e la scomparsa della guerra (cf. Is 2,4; 9,6); la concordia tra gli animali e tra gli uomini e le bestie feroci (cf. Is 11,6-8). Si ricorre anche a dimensioni ludiche, come il giocare del lattante con il serpente velenoso (cf. Is 11,8), la danza, la festa della nuova creazione, in cui i cieli nuovi e la terra nuova innalzano la lode a Dio (cf. Is 65,17; 66.22; Ap 21,1). È una lode cosmica in cui tutte le creature esprimono il loro “amen”, il loro “sì” a Dio, è un ringraziamento per il compimento dell’opera divina…
Come annunciare questa realtà della vita eterna, del paradiso? L’Apocalisse di Giovanni, al termine delle sante Scritture, tenta a più riprese questa profezia: un banchetto di nozze per l’Agnello sgozzato ma risorto e ora in piedi e vittorioso; attorno a lui tutti i salvati impegnati in una liturgia, in una danza, in una pericoresi, vera circolazione di amore, l’amore del Padre amante, del Figlio amato, dello Spirito amore. Dio è la dimora dell’umanità, il Regno è la dimora del cosmo e la festa è trasfigurazione di tutti e di tutto in Cristo, con Cristo e per Cristo, uomo e Dio. Questa comunione è comunione tra Dio e ogni volto, comunione personalissima, ed è comunione tra umani: Dio “sarà Uno” (cf. Zc 14,9) e una in Dio sarà l’umanità redenta.
Di fronte a queste immagini bibliche della vita eterna, in ogni epoca si è cercata una rappresentazione dei beati, del paradiso, sovente contrapposta a quella dei dannati, dell’inferno. Nelle chiese medioevali, dove dominava il Pantocratore, il Veniente glorioso, si potevano vedere alla sua destra i beati e alla sua sinistra i dannati. Era un ammonimento per quanti vedevano questa raffigurazione, un richiamo alla realtà del giudizio universale che un giorno sarà manifestato ma che si decide già oggi nella nostra vita. Domani, in quel giorno escatologico, il giorno del Signore, si udrà: “Venite, benedetti…”, ma tutto è già deciso nella nostra vita; lo decidiamo quando vediamo un affamato, uno straniero, un malato, un povero (cf. Mt 25,31-46). Dall’atteggiamento che assumiamo ora e qui decidiamo se a noi saranno rivolte le parole: “Venite, benedetti…” (Mt 25,34), oppure: “Andate via, maledetti…” (Mt 25,41). Decidiamo se saremo nell’amore della comunione con Dio o fuori di quella comunione, cioè in una situazione di morte. È in ogni nostro oggi che Dio dice a ciascuno di noi: “Oggi io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male … Scegli dunque la vita!” (Dt 30,15.19).
Al termine di queste tracce sulla vita eterna oso pensare al Giudizio universale di Michelangelo nella Cappella Sistina: i beati sono tutti in festa, spesso abbracciati tra di loro, nell’atto di baciarsi, guardando ognuno il volto dell’altro, in cui si vede il volto di Cristo. Ispirato da questa immagine, concludo citando uno stupendo canto liturgico previsto dalla liturgia ortodossa per la notte pasquale:
O danza mistica! O festa dello Spirito!
O Pasqua divina che scende dal cielo sulla terra
e dalla terra sale di nuovo al cielo!
O festa nuova e universale, assemblea cosmica!
Per tutti gioia, onore, cibo, delizia:
per mezzo tuo sono state dissipate le tenebre della morte,
la vita viene estesa a tutti,
le porte dei cieli sono state spalancate.
Dio si è mostrato uomo
e l’uomo è stato fatto Dio.
Entrate tutti nella gioia del Signore nostro;
primi e secondi, ricevete la ricompensa;
ricchi e poveri, danzate insieme;
temperanti e spensierati, onorate questo giorno:
abbiate o no digiunato,
rallegratevi oggi!
Nessuno pianga la sua miseria:
il Regno è aperto a tutti!
Enzo Bianchi
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