Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

martedì 2 aprile 2013

«Donna, perché piangi?».







Quando il Papa cantò al Meeting...


 

Il 2 aprile di 8 anni fa, dopo 26 anni di pontificato, moriva Giovanni Paolo II. Nelvideo sotto lo si vede cantare al termine dell'incontro al Meeting di Rimini del 29 agosto 1982.

Giovanni Paolo II meeting cl




Ogni cristiano rivive l’esperienza di Maria di Magdala. 
E’ un incontro che cambia la vita: 
l’incontro con un Uomo unico, 
che ci fa sperimentare tutta la bontà e la verità di Dio, 
che ci libera dal male non in modo superficiale, momentaneo, 
ma ce ne libera radicalmente, 
ci guarisce del tutto e ci restituisce la nostra dignità. 
Ecco perché la Maddalena chiama Gesù "mia speranza": 
perché è stato Lui a farla rinascere, 
a donarle un futuro nuovo, 
un’esistenza buona, 
libera dal male. 
"Cristo mia speranza" significa che ogni mio desiderio di bene 
trova in Lui una possibilità reale: 
con Lui posso sperare che la mia vita sia buona e sia piena, eterna, 
perché è Dio stesso che si è fatto vicino 
fino ad entrare nella nostra umanità.


Benedetto XVI, Messaggio per la Pasqua, 8 aprile 2012







Dal Vangelo secondo Giovanni 20,11-18.

Maria invece stava all'esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto». Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo». Gesù le disse: «Maria!». Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: «Rabbunì!», che significa: Maestro! Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma và dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Maria di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: «Ho visto il Signore» e anche ciò che le aveva detto.

Il Commento

Maria e Gesù. Un incontro, un cammino alla verità e alla fede. Una tomba vuota e tante lacrime, un approdo alla speranza sicura, perchè "ogni desiderio di bene trova in Cristo una possibilità reale" (Benedetto XVI). Secondo il noto biblista Ignace De La Potterie "Maria spiega la ragione della sua pena con le parole "Hanno portato via il mio Signore e io non so dove l'hanno posto". Non sospetta minimamente che possa essere risuscitato. E' convinta che abbiano messo in qualche altro posto il corpo del suo Signore. Vuole conoscere questo posto per andare a riprendere lei stessa quel corpo inerte: potrà almeno ricordarle colui che essa ha conosciuto... Maria deve essere liberata da un attaccamento troppo sensibile al Gesù terreno, deve abbandonare la sua volontà di possederlo... Ecco perchè Gesù le chiede: "Chi cerchi?". Con questo invita Maria a prendere coscienza dell'equivoco della sua ricerca e a purificarla nella fede. Invece di tormentarsi a proposito del luogo dove pensa abbiano messo il corpo del suo Signore, deve cercare Cristo, il Signore vivente. La sua ricerca deve cessare di essere preoccupazione di trovare il Signore per sé, e trasformarsi in un movimento verso di Lui" (I. De La Potterie, Saggi di cristologia giovannea). Proprio così. Anche noi, con la Maddalena, cerchiamo oggi qualcosa o qualcuno. Ma chi cerchiamo davvero? Le nostre preghiere, le nostre stesse lacrime, la nostra vita spirituale verso chi è veramente orientata? Si tratta della stessa domanda rivolta da Gesù a Giovanni e ad Andrea che lo avevano seguito: "Che cercate?". Il verbo "cercare" è molto importante nel Vangelo di Giovanni. Cercare un luogo, una persona. Alla richiesta dei discepoli che volevano sapere dove abitasse, all'alba della missione, Gesù risponde invitandoli a seguirlo, ad andare e vedere il luogo della sua dimora. Risuona nelle parole del Signore la promessa di Dio ad Abramo fatta sulla soglia della Storia della Salvezza, un luogo, la terra promessa, e una persona, un figlio e, in lui, una discendenza. Tutti noi portiamo impresso l'anelito ad un luogo dove abitare, dove vivere, per essere felici e in pace; e il desiderio di qualcuno nel quale trascenderci, qualcuno da amare. Questi desideri sono "santi desideri", sigilli del Creatore nel cuore e nella mente della creatura. Ma sono impastati di carne. Occorre un cammino di purificazione, un percorso che ci conduca alle sorgenti della fede dove ricevere occhi nuovi e cuore nuovo. Non si tratta di cercare il Signore in un posto qualsiasi, un "altrove" della nostra vita, diverso da quello che essa è oggi. Siamo, come Maria, dinanzi alla tomba vuota, e siamo smarriti. Vorremmo poter piangere la disfatta, il fallimento della nostra vita, e che qualcuno ci desse ragione nelle nostre mormorazioni, che ci consolasse nelle nostre "ingiuste" sofferenze. Vorremmo fermarci e poter singhiozzare la delusione, il tradimento; vorremmo un posto dove accarezzare il nostro dolore, legittimando lo sconforto, sdoganando la tristezza, affermando così l'ingiustizia di un destino avverso che crediamo accanitosi contro di noi; vorremmo dare cittadinanza alla solitudine che sentiamo avvolgerci come un mantello, alla disperazione sottile che ci stringe in un cappio mortale. Vorremmo riportare il Signore laddove lo abbiamo visto deporre, come per decretare a noi stessi e al mondo l'esito fallimentare di un amore, di un lavoro, di un'amicizia, chissà, forse anche della missione. Quella tomba sigillata è l'unica certezza, l'abbiamo vista, ci è quasi familiare, il luogo dove piangerci addosso, e stabilirci, prendere dimora nell'unica identità che ci sembra conveniente e adeguata per noi: quella di una persona contro la quale il destino ha puntato il dito sino a schiacciarla nell'ineluttabile fallimento. Quella tomba, come una sirena, ci chiama per sedurci e gettarci nelle braccia della depressione, spirituale prima e patologica poi. Quella tomba, guardata con gli occhi della carne, è l'altare subdolo eretto al nostro io, all'uomo vecchio che si corrompe dietro alle passioni ingannatrici, che non sono solo sesso, droga e rock and roll, ma anche, più sottili e perniciose, quelle che ci spingono a piantarci al centro dell'universo come fossimo gli unici sofferenti, incompresi, rifiutati, traditi, anche in ciò che pensavamo santo, retto, puro. Anche questo è cercare il Signore per se stessi, facendo di Lui un pupazzetto di peluche cui consegnare i nostri cuori spezzati, o per metterlo alla testa del nostro sindacato dei falliti. 
E qui, accanto al capolinea di ogni gioia e speranza, Gesù ci attende attraverso i suoi angeli vestiti di risurrezione, immagine degli apostoli che giungono sino agli estremi confini della terra che è la vita di ogni uomo, sino alle "periferie" dell'esistenza, le soglie della tomba che ha raccolto progetti e speranze. Essi, nel luogo esatto dove era stato deposto il Signore, quasi a descrivere il perimetro della sua esistenza terrena ormai trasformata, seduti laddove erano la testa e i piedi di quel corpo non più preda della morte, vibrano la domanda capace di svegliarci dalla rassegnazione mortale che ci ha rapito il desiderio di vivere e continuare a sperare rischiando noi stessi; proprio sulla soglia dell'abisso che ci sta per risucchiare nella disperazione, nelle ore grigie dove trasciniamo stancamente l'esistenza ripetendo gesti e parole svuotati d'ogni nerbo, accanto alla tomba che è divenuta la nostra vita, gli angeli ci scuotono per ridestarci alla vita vera: "donna, perché piangi?". Prendi in mano la tua vita di oggi, così com'è, e guardala bene e cerca la sorgente delle tue lacrime! Donna, che è come dire anima, perché piangi? Come Maria, come i discepoli, anche noi abbiamo camminato nella ricerca di unperché al nostro dolore, di una risposta alla delusione che spegne a poco a poco ogni desiderio di bene, di pace, di felicità e di amore. Ma stiamo sbagliando oggetto e direzione. La paura continua ad afferrare la nostra esistenza, quella che sorge dal dubbio che è sempre il frutto di una carne ripiegata su se stessa. Essa conosce solo i limiti della morte, ha paura del futuro perché il presente è avvelenato. La resurrezione è impensabile perché non è nel Dna della carne, che non può fornire alcun parametro per riconoscerla ed accoglierla. L'esperienza che portiamo dentro è quella del limite invalicabile che segna la morte; per questo la tomba diviene il luogo familiare dove poter piangere, dove fermare il carro della vita perché più oltre non si può andare. Per questo la tomba è l'unico luogo possibile per l'amore umano di Maria e per il nostro, carnale, ovvero infranto sul limite della finitezza umana. Ella amava il Signore, eccome, ma il suo amore era destinato a divenire lacrime, dolore struggente di un cuore che non può andare oltre quella pietra. Il destino di ogni amore e di ogni sentimento carnale, dal più perverso al più sublime, è sempre e solo l'infrangersi contro il limite imposto dalla morte. E allora non si può far altro che piangere, raggomitolarsi nei ricordi, nelle speranze scivolate via, nei rimpianti. O cercare di dimenticare tutto, di fare come se nulla fosse, mentre quella pietra resta esattamente al suo posto, nell'attesa che, ad una delusione più grande, frantumi la corteccia dell'indifferenza per far sgorgare le lacrime riposte a forza in un angolo oscuro del cuore. La domanda degli angeli risveglia il quesito più profondo, il bisogno di sapere perché oggi siamo quel che siamo, soffrendo quel che soffriamo. Quella domanda riscatta la stessa domanda che ci portiamo dentro, quella che angosciava anche Giobbe, e che abbiamo chiuso nel carcere della rassegnazione, spegnendola nell'unica ragione capace di placarci un po': siamo vittime di un'ingiustizia, e tanto basta a deporci, come automi, sulla soglia di una tomba a piangere sconsolati. Ma quella domanda come uno scrutinio, fondamentale in ogni percorso di iniziazione alla fede; essa risuscita in noi innanzi tutto la verità, la forza e la prepotenza del bisogno di senso e pienezza per la nostra vita. E così, come Maria, ridestati dal sonno spirituale che ci chiude gli occhi su ogni possibile prospettiva celeste e su ogni risposta diversa da quella che la carne sa dare, siamo ormai quasi pronti ad accogliere l'assoluta novità capace di cambiare la nostra vita. Prendiamo consapevolezza di quello che ci è accaduto, ci rendiamo conto che il nostro Signore, il senso primo e ultimo della nostra vita, Colui nel quale avevamo riposto la speranza, non c'è più. Che la ragione delle nostre lacrime non è l'ingiustizia, presunta o autentica, che ci ha colpiti. Il motivo del nostro pianto è che neanche davanti alla tomba dove pensavamo di spegnere desideri e progetti nell'accidia e nel cinismo con cui attraversare il frammento di vita che ci rimane, riusciamo a riposare; soffriamo ancora e sempre di più perché neanche l'evidenza della morte e la sua presunta accettazione bastano a imbalsamare il nostro cuore. Desideriamo di più, nel cuore grida inesausto il bisogno di un al di là oltre la fine; siamo fatti per passare all'altra riva, le illusioni, la rassegnazione e neanche il dolore possono cancellare l'immagine e la somiglianza dell'eterno Dio nella quale e per la quale siamo stati creati. Piangiamo perché abbiamo fatto la stessa esperienza di Maria, come quella di Abramo sul Moria: un midrash racconta infatti cosi l'istante in cui Abramo stava per sacrificare suo figlio: "sgorgavano lacrime dagli occhi di Abramo e le lacrime cadevano su Isacco legato". Abbiamo incontrato il Signore, ne abbiamo gustato l'amore e il perdono, la nostra vita ha cominciato a cambiare, ma ora, più nulla, ed è il dolore più grande, la speranza strappata dal cuore come accaduto a Maria; come ha sperimentato Abramo, il dolore per un figlio, il miracolo stesso di Dio nella nostra vita, da dover abbandonare, sacrificare, perdere. Tutto questo è sintetizzato nelle parole di Maria: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto». Ci hanno portato via la speranza e non sappiamo dove sia, perché qui, nella tomba dove l'avevamo vista discendere, non c'è più. Vogliamo piangere il nostro Signore e non possiamo. 

Gesù è risorto, è vivo, e non lo sappiamo, ma è accanto a noi proprio per risvegliare il desiderio invincibile seminato in noi da sempre, la scintilla di eternità che nessuna morte può spegnere. La Chiesa con i suoi angeli ci attendono e ci raggiungono ogni giorno laddove precipitiamo privi di speranza per prepararci all'incontro con Gesù risorto. E' nostra madre, è inviata dall'Amato e per questo ci ama dialogando con il nostro cuore, ci spinge a guardare al Signore che è già accanto a noi; attraverso la predicazione e i sacramenti sana la nostra carne perché possa accogliere il Cielo. E' un dialogo fecondo, che accompagna il cammino alla Verità. E, come Maria, cominciamo a capire, lentamente, il nostro dolore. Solo così potremo vedere e credere e accogliere il Signore risorto. Ed è qui che Gesù aggiunge alla prima domanda degli angeli il "Chi cerchi?" con cui scende deciso ancora più in fondo nel nostro cuore. Piangiamo perché cerchiamo qualcuno, e non per la disfatta che sembra la nostra vita! Le lacrime sono per Lui, ed è il primo passo per uscire da noi stessi, dall'egocentrismo che ci schiaccia. Sono lacrime d'amore, nonostante tutto ci dica il contrario; nonostante i peccati svelati, l'egoismo che muove ogni gesto e parola, la carne che vorrebbe afferrare tutto ci dica che non amiamo nessuno; no, le lacrime con le quali ci accostiamo alla tomba, anche se rivestite di pura carne, celano un amore invincibile, quello deposto dal Padre nel nostro cuore, l'amore che ci ha intessuto nel seno di nostra madre, la calamita che cerca il polo opposto a cui attaccarsi, il destino della vita, Cristo, l'unico per il quale siamo nati, abbiamo vissuto e, ora, stiamo piangendo. Ecco, così comincia il cammino! Abbiamo ancora nel cuore il "mio Signore"! E' per Lui che piangiamo! Desideriamo ancora Lui! Comincia così la guarigione perché, come ha detto Benedetto XVI, Gesù risorto "ci libera dal male non in modo superficiale, momentaneo, ma ce ne libera radicalmente, ci guarisce del tutto e ci restituisce la nostra dignità" (Benedetto XVI). Sì, la dignità, perché essa si rivela solo in un cuore che desidera Lui e Lui incontra, perché Lui è la nostra dignità. Chi piange se stesso, chi fa della tomba la sua dimora dove coccolare il suo uomo vecchio, perderà velocemente la dignità, si abbandonerà ai compromessi e poi ai peccati, perché essi sorgono sempre da un cuore che ha smarrito la speranza. Piangiamo perché Cristo è risorto! Ecco il paradosso della nostra vita! Piangiamo per la sua vittoria sulla morte, sui nostri fallimenti, e non ce ne rendiamo conto. Piangiamo di dolore senza sapere che quelle lacrime sono i distillati della gioia più pura, sono l'amore che attende di incontrare il suo Amore: "Quello che era un semplice gesto, un fatto, compiuto certo per amore - il recarsi al sepolcro – ora si trasforma in avvenimento, in un evento che cambia veramente la vita. Nulla rimane più come prima, non solo nella vita di quelle donne, ma anche nella nostra vita e nella storia dell’umanità. Gesù non è morto, è risorto, è il Vivente! Non è semplicemente tornato in vita, ma è la vita stessa, perché è il Figlio di Dio, che è il Vivente (cfr Nm 14,21-28; Dt 5,26; Gs 3,10). Gesù non è più nel passato, ma vive nel presente ed è proiettato verso il futuro, è l’«oggi» eterno di Dio. Così la novità di Dio si presenta davanti agli occhi delle donne, dei discepoli, di tutti noi: la vittoria sul peccato, sul male, sulla morte, su tutto ciò che opprime la vita e le dà un volto meno umano. E questo è un messaggio rivolto a me, a te, cara sorella e caro fratello. Quante volte abbiamo bisogno che l’Amore ci dica: perché cercate tra i morti colui che è vivo? I problemi, le preoccupazioni di tutti i giorni tendono a farci chiudere in noi stessi, nella tristezza, nell’amarezza… e lì sta la morte. Non cerchiamo lì Colui che è vivo!" (Papa Francesco, Omelia nella Veglia di Pasqua, 30 marzo 2013). Per questo la Scrittura profetizza che che sarà cambiato in gioia il nostro lutto. Gesù non è più dentro quella tomba, non è lo stesso di prima, ha varcato la soglia della morte, del peccato, della carne. E' vivo, è il "mio Signore", ma qualcosa in Lui è cambiato radicalmente; viene dal Cielo, è vivo della vita celeste, una vita che non abbiamo ancora conosciuto. Le apparizioni di Gesù risorto ci indicano inequivocabilmente il cambiamento che lo hanno coinvolto. E' carne, ma non è più solo carne. Ciò che durante la vita terrena era stato svelato in anticipo nella Trasfigurazione, è divenuto la sua realtà definitiva: nella carne brilla, permanentemente, la sua divinità. Per questo, la sola carne non può riconoscerlo. La carne non è preparata, per credere alla resurrezione è necessario un parametro nuovo, che non ci appartiene; occorre un intervento esterno, qualcuno che ci dia questo parametro, e ci insegni ad usarlo. Un segno che possiamo riconoscere e che ci sospinga al di là dei nostri limiti; un anello che congiunga la nostra realtà alla sua realtà; una chiave che apra in noi la porta per entrare, esattamente come siamo, poveri, deboli, precari e limitati, laddove ora Egli è, il Regno celeste che non conosce i confini della carne. E' Lui, è lo stesso che i discepoli avevano conosciuto, ma è anche molto di più. E' necessario qualcosa di inconfondibilmente suo a cui aggrapparsi per riconoscerlo; una parola, un segno che desti nei discepoli la memoria e la induca ad un salto al di là della carne. Occorre una breccia nel Cielo, un indizio che parli al cuore e dischiuda gli occhi perché riconoscano lo stesso Gesù visto e ascoltato in quella presenza assolutamente nuova e sorprendente, al punto d'essere scambiata per il "custode del giardino". Occorre che Lui li chiami a sé, in quel nuovo sé che è diventato. Un cammino attraverso la carne per superare la carne, senza dimenticare la carne. L'esperienza di Maria e dei discepoli sarà quella di essere attirati da Cristo risuscitato nel suo Mistero Pasquale, nella dinamica che lo ha fatto passare dal Venerdì, attraverso il Sabato, all'aurora della Domenica; dalla Passione, attraverso la morte, alla resurrezione. Quest'ultima non è un evento slegato da ciò che lo ha preceduto, ne è il compimento, non l'annullamento. Per questo Gesù mostra le ferite, accompagnando coloro ai quali appare risuscitato nello stesso passaggio da Lui compiuto, senza eludere alcun momento, ma sigillandolo nella luce nuova e trasfigurante della Pasqua. E qui, il momento decisivo. Maria ha compreso la ragione delle sue lacrime, ma cerca la soluzione e la consolazione nell'unica forma che conosce: prendere Gesù morto e riportarlo nella tomba, dove poterlo piangere. Ma la Sua voce, il suo nome scaturito da quelle labbra, "Maria", e nessun giardiniere poteva chiamarla così, e quel brivido nell'udire quella voce colma del suo nome. E' Lui, è il Maestro del mio cuore! E' Lui, mi ha spiegato l'amore, e ora mi insegna che è eterno! Così anche per noi, il nostro nome pronunciato dalle Sue labbra in modo così unico e così Suo, ci ha aperto gli occhi e il cuore ad una possibilità impensabile. La sua voce e dentro la sua parola che pronuncia il nostro nome, ecco la chiave, il parametro che ci fa accogliere l'impossibile: E' risorto! Solo Lui mi può chiamare così, solo Lui mi conosce così: Maria!, Quel nome in quella voce era tutta la sua storia, il suo intimo, ogni centimetro, ogni secondo. Quel nome veniva dal Cielo, in Gesù era già scritto nell'eternità; era accaduto l'impossibile, il salto da un'esistenza carnale limitata ad una vita che non ha limite. E' l'incontro con Gesù risorto, che ha vinto la morte, che ha distrutto alla radice ogni motivo per fallire, per aver paura, per tradire, per illudersi, per dubitare! E' l'incontro che canta il preconio pasquale "Il santo mistero di questa notte sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l'innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti. Dissipa l'odio, promuove la concordia e la pace". Quel nome pronunciato, "Maria!" le ha ricordato il suo amore, il perdono si è fatto di nuovo cosa viva, quell'esperienza unica di essere stata amata laddove nessuna l'aveva amata, e ora ascolta nel suo nome la notizia vera che quell'amore non era finito dentro ad una tomba ma aveva oltrepassato il limite di ogni altro amore; in quel nome il Signore le consegnava la certezza che nessuno le aveva portato via quell'amore, e che non era più la tomba il luogo dove andarlo a cercare per riviverlo nel ricordo e nel dolore, nella delusione di un'occasione unica di riscatto andata anch'essa in frantumi. Maria può riconoscere il Maestro trasformato, risorto, e così si vede trasformata anche lei, perché colma di un amore che non aveva mai gustato, più grande di quello già sperimentato, un amore che non conosce morte. In quel suo nome che scendeva dal Cielo, Maria poteva contemplare la sua vita ormai ascesa con Cristo alla destra del Padre. Era risorta anche lei con Lui! Tutta la sua vita era stata trasfigurata da quell'amore che non solo l'aveva perdonata laddove tutti l'avevano disprezzata; quell'amore l'aveva esaltata nel compimento di una vita che sembrava destinata alla morte. Quell'amore l'aveva trasformata nello stesso eterno e infinito amore: "Maria!" ed era una sola cosa in Lui, era viva laddove viveva Lui, poteva amare come Lui, senza limite alcuno: Maria, immagine della Chiesa, dei cristiani rinati con Cristo, non temono più di "avvicinarsi alla carne, alla carne che ha fame e sete, alla carne malata e ferita, alla carne che sta scontando la propria colpa, alla carne che non ha di che vestirsi, alla carne che conosce l’amarezza corrosiva della solitudine nata dal disprezzo. 
E, alla fine dei tempi, potrà godere della contemplazione di questa carne glorificata solo chi ha saputo riconoscerla e avvicinarla anche quando la sua gloria era celata dalla lordura e dalle piaghe che la ricoprivano – uomo reietto e disprezzato –, quando la sua gloria era nascosta poiché «venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14) come un nostro fratello. Si tratta di preparare la nostra carne a questa visione; la nostra carne sarà glorificata, la stessa carne con cui cercheremo di riconoscere il Verbo di Dio nel nostro prossimo. Preparare la nostra carne alla contemplazione significa servire il prossimo e comparire quindi alla presenza di Dio, sottoporre la nostra vita all’azione del Verbo e dello Spirito per la gloria del Padre; metterla a servizio, un servizio che sfinisce e stanca: ritornare poveri, in cammino, pellegrini... Porsi con tutta la carne «alla presenza di Dio» significa anche pregare. La preghiera ci guiderà nel cammino, a volte facile, a volte insidioso, per riconoscere il Verbo nella carne sofferente, per consegnare la nostra carne alla volontà di Dio e per vivere secondo lo Spirito" (Papa Francesco, Aprite la mente al vostro cuore). E' questa la risurrezione per Maria di Magdala, la stessa offerta anche a noi oggi. Lui infatti appare anche a noi allo stesso modo, chiamandoci per nome attraverso la sua Chiesa, la predicazione, la liturgia e i sacramenti, attraverso la Parola che ci raggiunge e che porta incastonato il nostro nome, la nostra storia, senza che nulla di essa sia disperso. Anche oggi il Signore ci ricorda la sua opera d'amore con noi, e ci dona la certezza che essa non è destinata ad esaurirsi, ma si compie ogni giorno nel risuscitarci per farci apostoli e servi del suo amore, bocca e voce della sua Parola, che si "sfiniscono e stancano" nel cercare ogni carne per chiamarla con il nome nuovo capace di ridestarla alla vita autentica. La Pasqua è la fonte e la garanzia che quanto Dio ha operato in noi è vero, autentico, e non si corromperà mai; la Pasqua è il fondamento della speranza che non delude, per noi e per ogni uomo!

E' la risurrezione che appare oggi dinanzi a noi, come apparve agli occhi di Maria quel mattino di Pasqua, come apparve l'agnello agli occhi di Abramo nell'istante in cui si preparava a sferrare il colpo su suo figlio. E' qualcosa di totalmente nuovo, che dobbiamo imparare a conoscere, per passare dalla paura alla Pace. E' un inizio che non teme quello che sarà perchè non ha paura di quello che già è: nella carne vi è già il seme di una vita nuova, che supera le angustie di quanto è destinato a perire. Ciascuno di noi è quello che è, e sarà ciò che sarà, e a nessuno è dato di sapere come sarà tra dieci anni, non sappiamo neanche cosa accadrà tra un istante. Ma il punto non è qui! La certezza che cerchiamo in un luogo e in una persona non sono in un sepolcro; la domanda autentica e per questo decisiva che Gesù pone a Maria, come ad Andrea e a Giovanni ha una sola risposta: Colui che abbiamo compreso di cercare, il "mio Signore" non è più qui dove lo avevamo visto discendere cadavere; non è nella tomba a noi così familiare! Non è prigioniero nei nostri fallimenti, dove è disceso con compassione, perchè essi non sono la parola definitiva, l'assoluto della nostra esistenza. Essi sono il passaggio nel sepolcro, sono reali le sofferenze accidenti, il male ferisce, ma non finisce nel male la nostra vita, no! Non si esaurisce l'amore perchè si evapora una passione o un'affezione; ogni aspetto della nostra vita, ogni esperienza, ogni dolore, tutto in noi ci conduce nel "passaggio" che trasfigura la carne, che purifica la visione dei fatti e delle persone nella nuova luce della Pasqua, che sottrae all'assolutezza tutto ciò che assoluto e definitivo non è: "l'amore misericordioso ha inondato di luce il corpo morto di Gesù e lo ha trasfigurato, lo ha fatto passare nella vita eterna. Gesù non è tornato alla vita di prima, alla vita terrena, ma è entrato nella vita gloriosa di Dio e ci è entrato con la nostra umanità, ci ha aperto ad un futuro di speranza" (Papa Francesco, Messaggio di Pasqua, 31 marzo 2013). E' il cammino di Maria, lo svelamento dalla Verità che schiude gli occhi sino a riconoscere nella propria vita, accanto al proprio dolore, la novità che è l'unico e legittimo assoluto che abbraccia l'intera esistenza: Non è qui, è risorto! Non cercate tra i morti Colui che è vivo! Venite e vedete il luogo dove era stato deposto, guardate, è vuoto! 

Eppure la carne, come in Maria, la fa ancora da padrona: riconosciutolo, lo vorremmo "trattenere". Vivo sì, ma per noi, per la nostra vita, per i nostri affetti, per ridar vita a quanto di noi credevamo perduto. Per sistemare i nostri cuori, le nostre menti, le nostre vite. Lo vorremmo trattenere nei limiti angusti della nostra esistenza terrena. "Un' ultima soglia deve essere varcata, la più importante di tutte: quella che permetterà a Maria di elevarsi dall'attaccamento al sensibile al livello della fede. Di non volgersi più verso il passato ma verso l'avvenire.... Ma bisogna che Gesù stesso le comunichi il messaggio pasquale: "Io salgo verso il Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro" (cfr. De La Potterie, cit.). Il luogo è dunque il Cielo, e la persona è Gesù risuscitato, il Messia atteso e vincitore di ogni morte. Conoscere il Signore e credere, vederlo con occhi nuovi, di fede, nella nostra vita, percorrendo, ogni giorno, il cammino della Maddalena. Dalla carne allo Spirito. Dalla terra al Cielo. Imparare a non trattenere il Signore, vivere ogni rapporto nella totale libertà della novità di vita dettata dalla Spirito Santo. Essere nuova creatura. Dimentichi del passato e protesi verso il futuro, le cose vecchie ormai passate, e non ritornare a rimescolare la stanca minestra dei dubbi, delle debolezze, dei fallimenti. Abbandonarci a Lui, alla sua vita celeste che viene a prendere dimora in noi. Morti e risorti con Lui, per non vivere più nulla per noi stessi, foss'anche Cristo stesso, ma vivere tutto per Lui, in Lui, con Lui. Camminare in una vita nuova, nelle opere che Dio Padre ha preparato "già" per noi, perché noi le praticassimo. Andare dai suoi fratelli più piccoli, come Bernadette e i pastorelli di Fatima furono ai loro vescovi, ma anche dai più piccoli, da chi ha perduto la speranza, sino ad ogni periferia della storia, in ufficio, a scuola, in ospedale, ovunque, a far risuonare l'annuncio di vittoria incarnato nella nostra vita. Non dobbiamo cercare o inventare nulla per essere santi. Basta solo camminare sulle orme di Cristo, che tracciano la via della Croce, il candelabro preparato per noi. E' questa la novità: la vita di Cristo in noi crocifissi con Lui. Morti ma vivi. Nella semplicità della vita di ogni giorno, nell'amore di Cristo che ci spinge a compiere la volontà del Padre. Non ci sono "altrove", c'è il "qui ed ora" della Sua volontà. Lì è vivo Cristo. Lì, come i rinati dallo Spirito, vivere ogni giorno come il vento, discernendo il momento presente, il kairos della Grazia, e uniti a Lui, offrirci a chi si fa nostro prossimo. Con il cuore e la mente nel Cielo e il corpo qui sulla terra. Liberi, abbandonati, la nostra vita tutta per Lui, il Signore che ha donato tutto per noi. I nostri nomi pronunciati oggi dalla voce inconfondibile di Gesù sono il sigillo sulla nostra vita, la garanzia che tutto è santo in noi! Il nostro nome pronunciato per amore è scritto in Cielo, ed è l'unica ragione per la nostra gioia.

Un verso di una poesia di Antonio Machado, poeta straordinario, dice:

«Si un grano del pensar arder pudiera,
no en el amante, en el amor,
sería la mas honda verdad la que se viera».

Che, tradotto alla lettera, significa:

"se un seme del pensare potesse ardere,
non nell’amante, ma nell’amore,
si potrebbe vedere la verità più profonda".

E' l'esperienza a cui siamo chiamati, la stessa di Maria: un seme, un piccolissimo seme dei nostri pensieri, circa la storia, noi stessi, il matrimonio, il lavoro, un seme di quello che ora stiamo pensando ardere in Lui, nel suo Amore, e non nella nostra povera carne, amante sì ma inesorabilmente limitata; se un seme del nostro intimo, sofferente o felice che sia, potesse ardere in Colui che pronuncia il nostro nome, in Cristo che ci ama, potremmo vedere la verità più profonda, il fondamento eterno della nostra vita, la risurrezione che assorbe ogni istante della nostra storia, facendone un frammento di eternità. La verità più profonda, l'amore infinito che vince la morte e ci fa liberi e felici davvero.


APPROFONDIRE
















MISTERO PASQUALE











ESEGESI





TEOLOGIA







COMMENTI PATRISTICI





EUCARESTIA


La Pasqua dell''ebreo Gesù



Unità dei cristiani separati da Ilfoglio

Lo stile ecumenico esibito all’esordio da Bergoglio al vaglio della teologia. Ortodossi e riformati

Nessun commento:

Posta un commento