Quando passa Gesù
di Paolo Pugni
Sembra che lo faccia apposta, il tempo, a tornarmi addosso con violenza, con quella malagrazia con la quale ti torna su l’alcool quando hai esagerato. Anche quando è per il bene, non è mai esente dall’acido e dalla forza. Così a fine maggio si son compiuti trent’anni da quando Giovanni Paolo II, dopo oltre cinque secoli, portò il Papa a Milano. Proprio davanti alla nostra chiesa, all’epoca solo di Franca, oggi di tutta la famiglia. Correva l’anno 1983, e correva proprio dato che noi andavamo di corsa verso il matrimonio che sarebbe stato celebrato meno di due anni dopo, e i sogni correvano veloci anche nell’Italia che usciva dal anni bui e si ubriacava con la Milano da bere.
Correva il Papa, dopo l’attentato di due anni prima, e si faceva fatica a stargli dietro. E qui venne a concludere il congresso eucaristico nazionale, quello del “tuo popolo in cammino” con una S.Messa celebrata nell’acqua scrosciante e illuminata dalla presenza di madre Teresa.
Trent’anni dopo ci si accontenta della processione eucaristica diocesana, con il Santissimo portato dal Cardinal Scola. Accontentarsi poi, che invece del Vicario cammina per strada Cristo stesso.
Ecco, io c’ero. Anzi noi c’eravamo trent’anni fa come oggi, questa volta con il sole che pian piano si inchina dietro le case.
E siccome mi sforzo di guardarmi intorno, mentre cammino in questa processione folta e commossa, ecco che guardo le case che riflettono la società: da alcuni balconi scendono drappi rossi e bianchi –corpus domini- capolavori di creatività (dalla tovaglia di Natale all’accappatoio da mare, l’amore tira fuori quello che ha per rendere omaggio a Gesù che passa) accompagnati da lumini e dagli sguardi di chi dall’altro si gusta il fiume di persone; da altri sembra sgorgare fuori l’indifferenza quando non il fastidio per quel rumore che sale dalla strada e per un attimo oscura Lilli Gruber o Maria de Filippi.
Eppure Gesù passa per tutti e noi siamo lì a rendere vero quel Suo invito. Passa in silenzio, cullato da preghiere e canti, da riflessioni e invocazioni. Passa e solca la strada, non perché faccia Lui distinzioni, ma perché siamo noi a scegliere da che parte metterci, come porci rispetto a questo segno di contraddizione.
Che cosa mi chiede? Non ho la grazia di Andrea Giovanoli che sa leggere in ogni particolare della vita, anche nella pappa di un bambino, quella carezza di Dio e quella sua parola leggera. Son grezzo io, cerco la mediazione della ragione e spesso ne resto deriso e abbandonato. Però ci provo, e in quella marcia che collega due parrocchie e che trascina con sé molti da tutta la diocesi, ci leggo questa necessità di camminare sempre, cioè di essere sempre pronti a lasciare le nostre comode abitudini per farci interrogare da Lui e da quello che ci dice. Con la voce di chi ci chiede la strada. O con gesti che affondano, come questo: proprio mentre andavo di corsa alla Messa che ha avviato la processione, passo dalla nostra casbha, un luogo di smercio di pacottaglia e di ritrovo di nord africani. Uno di loro, nell’angolo della siepe, urina. Provo sdegno. Gli passo accanto, senza guardarlo. Sento però la sua voce, timida, umiliata, percossa: “scusami” dice. No, sono io che devo scusarmi.
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