Quale è dunque la giustizia di Cristo?
E’ anzitutto la giustizia che viene dalla grazia,
dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri.
Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù
significa che non sono i sacrifici dell’uomo
a liberarlo dal peso delle colpe,
ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo,
fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta all’uomo,
per trasmettergli in cambio la “benedizione” che spetta a Dio.
Ma ciò solleva subito un’obiezione:
quale giustizia vi è là dove il giusto muore per il colpevole
e il colpevole riceve in cambio la benedizione che spetta al giusto?
Ciascuno non viene così a ricevere il contrario del “suo”?
In realtà, qui si dischiude la giustizia divina,
profondamente diversa da quella umana.
Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto,
un prezzo davvero esorbitante.
Di fronte alla giustizia della Croce l’uomo si può ribellare,
perché essa mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico,
ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso.
Convertirsi a Cristo, credere al Vangelo, significa in fondo proprio questo:
uscire dall’illusione dell’autosufficienza
per scoprire e accettare la propria indigenza
- indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia.
Si capisce allora come la fede sia tutt’altro che un fatto naturale, comodo, ovvio:
occorre umiltà per accettare
di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”,
per darmi gratuitamente il “suo”.
Grazie all’azione di Cristo,
noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”,
che è quella dell’amore,
la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore,
perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare.
Benedetto XVI
Messaggio per la Quaresima 2010
Dal Vangelo secondo Matteo 5,20-26.
Poichè io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio.
Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.
Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono.
Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perchè l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finchè tu non abbia pagato fino all'ultimo spicciolo!
Il commento
Intendere la vita come una scalata al Cielo: la "giustizia di scribi e farisei" aveva i limiti della propria carne, perché fondata su opere che avevano perduto il sapore della gratuità, lettera morta, senza Spirito; vivevano di regole stabilite da uomini per rendersi degni di Dio. Per questo non hanno potuto accogliere Gesù, il Dio fatto uomo per rendere l'uomo degno di Lui. Dio, infatti, ha cercato l’uomo, abbassandosi sino alla carne più corrotta per farne un riflesso della sua Gloria. La Giustizia di Dio è rendere giusto l’ingiusto, per pura grazia. Per questo, nelle parole di Gesù sembra affiorare l’assurdo: un pensiero che sfiora appena la mente, ed è come uccidere un uomo. Un paradosso per significare il veleno che scorre nel cuore di tutti: se non siamo capaci di "pensare bene" come illudersi di poter "compiere il bene" per raggiungere il Cielo? Il solo pensare di poter essere buoni, di migliorare con le proprie sole forze è follia. Peggio, è un'eresia, il pelagianesimo: essa nasce dalle dottrine del monaco irlandese Pelagio, contro le quali si è battuto sant'Agostino e condannate dal Concilio di Efeso nel 451. La dottrina eretica pelagiana affermava che il peccato originale non avrebbe realmente contaminato la natura umana; per questo, l'uomo avrebbe la capacità di scegliere da sé il bene e la forza di non peccare, senza l'aiuto della grazia. Nel corso degli esercizi spirituali tenuti nel 1986 (Guardare Cristo: esempi di fede, speranza e carità), l'allora Cardinale Ratzinger ammoniva circa il pericolo del "pelagianesimo dei pii": "Essi non vogliono avere nessun perdono e in genere nessun vero dono di Dio. Essi vogliono essere in ordine: non perdono ma giusta ricompensa. Vorrebbero non speranza ma sicurezza. Con un duro rigorismo di esercizi religiosi, con preghiere e azioni, essi vogliono procurarsi un diritto alla beatitudine. Manca loro l'umiltà essenziale per ogni amore, l'umiltà di ricevere doni a di là del nostro agire e meritare. La negazione della speranza a favore della sicurezza davanti a cui ora ci troviamo si fonda sull'incapacità di vivere la tensione verso ciò che deve venire e abbandonarsi alla bontà di Dio. Così questo pelagianesimo è un'apostasia dall'amore e dalla speranza, ma in profondità anche dalla fede". E Papa Francesco, nell'omelia della Messa Crismale de 28 marzo 2013, aveva affermato che "Non è precisamente nelle autoesperienze o nelle introspezioni reiterate che incontriamo il Signore: i corsi di autoaiuto nella vita possono essere utili, però vivere la nostra vita sacerdotale passando da un corso all’altro, di metodo in metodo, porta a diventare pelagiani, a minimizzare il potere della grazia, che si attiva e cresce nella misura in cui, con fede, usciamo a dare noi stessi e a dare il Vangelo agli altri, a dare la poca unzione che abbiamo a coloro che non hanno niente di niente". La verità è che siamo poveri peccatori, e, ammoniva Isaia, anche i nostri atti di giustizia sono come panni immondi, e "occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo” (Benedetto XVI).
Siamo mendicanti d’amore, ciechi sul ciglio di una vita arrabbattata e sconfitta. Basta dare un’occhiata al nostro cuore sovrapponendolo al Vangelo di oggi per credere. Messe, preghiere, parole, consigli, sguardi umili, ma il cuore? Che ne è stato di quel vicino di casa, della suocera, di quel collega? Uccisi nel cuore, sepolti e dimenticati. E non solo questo. Il Signore ci parla di "qualcuno che ha qualcosa contro di noi", non necessariamente perché noi si abbia fatto qualcosa di male. No, "se qualcuno ha qualcosa contro di te": parole chiarissime, che mostrano, in filigrana, il cuore di Cristo. Noi tutti ce l'avevamo con Lui, e lo abbiamo inchiodato a una Croce. E non ci aveva fatto nulla, anzi, ci aveva semplicemente amati. Ma Lui ha "lasciato l'offerta all'altare del Tempio", e si è fatto offerta Lui stesso, il suo corpo come il nuovo Tempio, la sua Croce come il nuovo altare. Lui si è ricordato di tutti noi, che avevamo qualcosa contro di Lui, per quella malattia, per quel dolore, per quel fallimento, ed è venuto a cercarci per riconciliarci con Lui. Ma come è possibile? Noi, peccatori e per questo debitori, nel cuore di Cristo diveniamo suoi creditori! Ladri, ma i suoi occhi ci vedono come dei derubati. Ingannatori, ma la sua misericordia ci considera ingannati. Ce l'avevamo, e ce l'abbiamo ancora, ingiustamente, contro di Lui, e Lui che fa? Non contesta, non si difende, non discute: ci cerca, come ha cercato Pietro sulle rive del Mare di Galilea, come ha cercato, da Adamo in poi, ogni uomo, per riconciliarlo con sé, per disinnescare il rancore, e dischiudere il cuore alla pace. E' questo il senso più profondo di tutto il Mistero Pasquale del Signore, il paradosso che il mondo non può conoscere, l'autentica disfatta del demonio, qualcosa di inaudito, che neanche la sua sapienza malvagia poteva prevedere: Gesù ha accettato l'ingiustizia dell'accusa che ogni uomo gli ha fatto per giustificare tutti, senza esclusione.
In Lui è apparsa la Giustizia di Dio, che supera la casuistica farisaica, le regolette da rispettare con cui difendersi e sentirsi a posto. La Giustizia di Dio è offrirsi al nemico, a chi non ci sopporta, a chi ci calunnia, a chi vuol vederci morti. Al lavoro, in famiglia, a scuola, ovunque. E' una Giustizia che supera la carne e la legge degli uomini, è il cuore di Dio che offre se stesso per amore, per cancellare il male, per perdonare e riconciliare, per ricreare e spegnere l'odio. E' Dio che supera la religione naturale fatta di prescrizioni, doveri, paura e schiavitù, la religiosità che beatifica la natura - la giustizia umana - credendola divina, ed è il "panteismo" subdolo e arrogante che cortocircuita con il pelagianesimo. Un po' di acqua santa sui propri criteri, sulla propria giustizia, un'offerta al tempio per certificare la bontà delle proprie convinzioni e delle proprie azioni. A messa a battersi il petto, a leggere, a fare e fare, e poi il silenzio indifferente a casa, così l'altro capisce il suo errore... A messa, e poi il collega disprezzato e cancellato. Volontariato ad aiutare anziani e handicappati, e poi il rancore "giustificatissimo" per il fratello o il cugino che s'è rubato cento euro dell'eredità di quel parente. Elemosine, e contemporaneamente una causa con quel condomino che si trascina da una vita. Filantropia e indignazione, tutto questo con il cristianesimo non c'entra nulla. E' la giustizia dei Farisei, ipocrita, carnale, assassina dell'anima.
Le parole di Gesù, quelle che disegnano la sua Croce, sono follia pura agli occhi e alle menti carnali. Come inginocchiarsi dinanzi a chi ci tradisce, ci calunnia, ci "cita in giudizio"? Come chiedere perdono per quel che non si è commesso? Dove si va a finire? Infatti, non è sapienza mondana, e non c'entra nulla con le leggi di uno Stato. E' lo Spirito della famiglia di Dio, la vita dei figli di Dio, dei cristiani. E Cristo si è fatto peccato, come un agnello muto di fronte ai suoi tosatori. Si è caricato di ogni delitto, innocente si è offerto al patibolo. Solo chi gli appartiene, chi ha sperimentato la misericordia e la liberazione dal giogo del peccato, può comprendere queste parole del Signore, e desidera vivere in esso. Anzi, è un bisogno del cuore, come dell'aria e del cibo, perché ha sperimentato, nella propria vita, una giustizia celeste, un amore che nessuno può offrire. E ha sperimentato anche che questo amore, questa giustizia, hanno il potere di giustificare, di sanare, di ricreare, di deporre, laddove vi era odio, rancore, maldicenza, menzogna, quello stesso amore che tutto copre, tutto crede, tutto sopporta, tutto perdona. La carità di Cristo, l'agape che abbraccia, dalla Croce, ogni uomo.
Abbiamo sperimentato questa giustizia nella nostra vita? Non si tratta di impegnarsi a costruire un mondo nuovo, è, semplicemente, lasciarci riconciliare con Dio nella Giustizia crocifissa di Cristo Gesù. La sua Giustizia, quella che brilla sulla Croce, è l’unica salvezza, l’unica via di accesso al Regno dei Cieli. E se siamo giustificati nella sua misericordia andremo naturalmente anche noi a cercare i tanti che abbiamo cancellato, dimenticato, ferito, per riconciliarci con loro offrendo la nostra vita. Questa è la Giustizia di Dio, il perdono, sempre, senza condizioni. Il Cielo finalmente messo d'accordo con la terra. Lasciamo dunque le nostre ipocrite offerte con le quali crediamo di resettare il cuore e, riconciliati nella giustizia misericordiosa di Dio, ci ricorderemo anche dei tanti che ce l'hanno con noi, e, in Cristo che si è offerto completamente a noi, potremo donarci anche noi quale offerta gradita a Dio, in ginocchio dinanzi a tutti quelli che, non conoscendo l'amore di Dio, azzannano la nostra vita. In noi, tutti potranno riconoscere la giustizia di Dio, e vedere spalancarsi il Cielo di una vita nuova, riconciliata, pacificata. Resistere nelle proprie posizioni, chiudersi alla misericordia di Dio sarebbe imperdonabile, la condanna ad un carcere durissimo, a dover "pagare sino all'ultimo spicciolo". E non lo stiamo vivendo forse oggi? Sempre ansiosi, sempre in debito di tempo e di sguardi; sempre di corsa e angosciati per pagare agli altri quello che non potremo mai pagare e risarcire. Come poter risarcire il male della nostra indifferenza, della gelosia, della violenza e dell’ipocrisia? Come pagare se non abbiamo neanche il “primo” spicciolo? Abbandonandosi alla misericordia di Dio, lasciandoci invadere dal suo amore perché, attraverso di noi, giunga ad ogni nostro prossimo. “Cristo ha pagato per noi il debito all’Eterno Padre” (Preconio Pasquale), e solo in Lui potremo offrire noi stessi perché ogni spicciolo d’amore sottratto ai fratelli possa essere risarcito e moltiplicato dal suo amore riversato nei nostri cuori. Altro che sforzi e strategie, opere e sacrifici della carne, buoni solo a peggiorare ancor più le cose, ad alimentare veleni e rancori. Siamo, invece, chiamati ad accogliere oggi il suo amore che ci giustifica, e, spinti dal fuoco della misericordia, potremo correre a metterci d'accordo, a lasciarci crocifiggere da coloro ai quali, il demonio, ha rubato la speranza. Hanno diritto all'amore che abbiamo sperimentato. E non è cosa di un giorno. E' un cammino, un andare per via, cadendo e rialzandoci, abbandonando ogni pretesa pelagiana e panteista, in un'esperienza dell'amore di Dio che, approfondendosi, genera amore e misericordia. E' il nostro cammino nella Chiesa, affamata e saziata dalla Giustizia di Dio, per mostrare al mondo un amore che supera ogni immaginazione, l'amore che Dio preparato per noi anche oggi.
Quale è dunque la giustizia di Cristo?
E’ anzitutto la giustizia che viene dalla grazia,
dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri.
Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù
significa che non sono i sacrifici dell’uomo
a liberarlo dal peso delle colpe,
ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo,
fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta all’uomo,
per trasmettergli in cambio la “benedizione” che spetta a Dio.
Ma ciò solleva subito un’obiezione:
quale giustizia vi è là dove il giusto muore per il colpevole
e il colpevole riceve in cambio la benedizione che spetta al giusto?
Ciascuno non viene così a ricevere il contrario del “suo”?
In realtà, qui si dischiude la giustizia divina,
profondamente diversa da quella umana.
Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto,
un prezzo davvero esorbitante.
Di fronte alla giustizia della Croce l’uomo si può ribellare,
perché essa mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico,
ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso.
Convertirsi a Cristo, credere al Vangelo, significa in fondo proprio questo:
uscire dall’illusione dell’autosufficienza
per scoprire e accettare la propria indigenza
- indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia.
Si capisce allora come la fede sia tutt’altro che un fatto naturale, comodo, ovvio:
occorre umiltà per accettare
di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”,
per darmi gratuitamente il “suo”.
Grazie all’azione di Cristo,
noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”,
che è quella dell’amore,
la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore,
perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare.
Benedetto XVI
Messaggio per la Quaresima 2010
Dal Vangelo secondo Matteo 5,20-26.
Poichè io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio.
Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.
Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono.
Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perchè l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finchè tu non abbia pagato fino all'ultimo spicciolo!
IL COMMENTO
La vita come una scalata al Cielo: la giustizia di scribi e farisei aveva i limiti della propria carne, perchè fondata su opere senza Spirito. I farisei di cui ci parla il Signore vivevano di regole stabilite da uomini per rendersi degni di Dio. Per questo non hanno potuto accogliere Gesù, il Dio fatto uomo per rendere l'uomo degno di Lui. Dio ha cercato l’uomo, è sceso sino alla sua carne più corrotta per farne un riflesso della sua Gloria. La Giustizia di Dio è rendere giusto l’ingiusto, per pura grazia. Per questo nelle parole di Gesù sembra affiorare l’assurdo: un pensiero appena sfiorato, ed è come uccidere un uomo. Un paradosso per significare il veleno che scorre nel cuore di tutti. Se non siamo capaci di pensare bene come potremmo compiere il bene per raggiungere il cielo? Il solo pensare di poter essere buoni, di migliorare con le proprie sole forze è follia. Peggio, è un'eresia, il pelagianesimo. La verità è che siamo poveri peccatori e anche i nostri atti di giustizia sono come panni immondi, ammoniva Isaia, e "occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo” (Benedetto XVI).
Siamo mendicanti d’amore, ciechi sul ciglio di una vita arrabbattata e sconfitta. Basta dare un’occhiata al nostro cuore sovrapponendolo al Vangelo di oggi per credere. Messe, preghiere, parole, consigli, sguardo umile, ma il cuore? Che ne è stato di quel condomino, della suocera, di quel collega? Uccisi nel cuore, sepolti e dimenticati. E non solo questo.
Il Signore ci parla di qualcuno che ha qualcosa contro di noi. Non necessariamente perchè noi si abbia fatto qualcosa di male. No, "se qualcuno ha qualcosa contro di te": parole chiarissime. Parole che mostrano, in filigrana, il cuore di Cristo. Noi tutti ce l'avevamo con Lui, lo abbiamo inchiodato ad una Croce. E non ci aveva fatto nulla, anzi, ci aveva semplicemente amati. Ma Lui ha lasciato l'offerta all'altare del Tempio, e si è fatto offerta Lui stesso, il suo corpo come il nuovo Tempio, la sua Croce il nuovo altare. Lui si è ricordato di tutti noi, che avevamo qualcosa contro di Lui, per quella malattia, per quel dolore, per quel fallimento, ed è venuto a cercarci per riconciliarci con Lui. Ma come è possibile? noi, peccatori e per questo debitori, nel cuore di Cristo diveniamo creditori! Ladri, ma i suoi occhi ci vedono come dei derubati. Ingannatori, la sua misericordia ci considera ingannati. Ce l'avevamo, ce l'abbiamo ingiustamente contro di Lui e Lui che fa? non contesta, non si difende, non discute: ci cerca, come ha cercato Pietro sulle rive del Mare di galilea, come ha cercato, da Adamo in poi, ogni uomo, per riconciliarlo con sé, per disinnescare il rancore, e dischiudere il cuore alla pace. E' questo il senso più profondo di tutto il Mistero Pasquale del Signore, il paradosso che il mondo non può conoscere, l'autentica disfatta del demonio, qualcosa di inaudito, che neanche la sua sapienza malvagia poteva prevedere: Gesù ha accettato l'ingiustizia dell'accusa che ogni uomo gli ha fatto per giustificare tutti, senza esclusione.
In Lui è apparsa la Giustizia di Dio, che supera la casuistica farisaica, le regolette da rispettare, e con cui difendersi e sentirsi a posto. La Giustizia di Dio è offrirsi al nemico, a chi non ci sopporta, a chi ci calunnia, a chi vuol vederci morti. Al lavoro, in famiglia, a scuola, ovunque. E' una Giustizia che supera la carne e la legge degli uomini. E' il cuore di Dio, che offre se stesso per amore, per cancellare il male, per perdonare e riconciliare, per ricreare e spegnere l'odio. E' Dio che supera la religione naturale fatta di prescrizioni, doveri, paura e schiavitù, la religiosità che beatifica la natura - la giustizia umana - credendola divina. Un po' di acqua santa sui propri criteri, sulla propria giustizia, un'offerta al tempio per certificare la bontà delle proprie convinzioni e delle proprie azioni. A messa e poi il silenzio indifferente a casa, così la moglie (o il marito) capisce l'errore. A messa, e poi il collega disprezzato e cancellato. Volontariato ad aiutare anziani e handicappati, e poi il rancore "giustificatissimo" per il fratello o il cugino che s'è rubato cento euro dell'eredità di quel parente. Elemosine, e contemporaneamente una causa con quel condomino che si trascina da una vita. Filantropia e indignazione, tutto questo con il cristianesimo non c'entra nulla. E' la giustizia dei Farisei, ipocrita, carnale, assassina dell'anima.
Le parole di Gesù, quelle che disegnano la sua Croce, sono follia pura agli occhi e alle menti carnali. Come inginocchiarsi dinanzi a chi ci tradisce, ci calunnia, ci cita in giudizio? Come chiedere perdono per quel che non si è commesso? Dove si va a finire? Infatti non è sapienza mondana, e non c'entra nulla con le leggi di uno Stato. E' lo Spirito della famiglia di Dio, la vita dei figli di Dio, dei cristiani. E Cristo si è fatto peccato, come un agnello muto di fronte ai suoi tosatori. Si è caricato di ogni delitto, innocente si è offerto al patibolo. Chi gli appartiene, chi ha sperimentato la misericordia e la liberazione dal giogo del peccato, può comprendere queste parole del Signore. Perchè ha sperimentato, nella propria vita, una giustizia celeste, un amore che nessuno può offrire. E ha sperimentato anche che questo amore, questa giustizia, hanno il potere di giustificare, di sanare, di ricreare, di deporre, laddove vi era odio, rancore, maldicenza, menzogna, quello stesso amore che tutto copre, tutto crede, tutto sopporta, tutto perdona. La carità di Cristo, l'agape che abbraccia, dalla Croce, ogni uomo.
Abbiamo sperimentato questa giustizia nella nostra vita? Non si tratta di impegnarsi a costruire un mondo nuovo, è, semplicemente, lasciarci riconciliare con Dio nella Giustizia crocifissa di Cristo Gesù. La sua Giustizia, quella che brilla sulla Croce, è l’unica salvezza, l’unica via di accesso al Regno dei Cieli. E se siamo giustificati nella sua misericordia andremo naturalmente anche noi a cercare i tanti che abbiamo cancellato, dimenticato, ferito, per riconciliarci offrendo la nostra vita per loro. Questa è la Giustizia di Dio, il perdono, sempre, senza condizioni. Il Cielo finalmente messo d'accordo con la terra. Lasciamo dunque le nostre ipocrite offerte con le quali crediamo di resettare il cuore.
Lasciamoci riconciliare nella giustizia misericordiosa di Dio. In essa ci ricorderemo dei tanti che ce l'hanno con noi, e, in Cristo che si è offerto completamente a noi, potremo donarci anche noi quale offerta gradita a Dio, in ginocchio dinanzi a tutti quelli che, non conoscendo l'amore di Dio, azzannano la nostra vita. In noi tutti potranno riconoscere la giustizia di Dio, e vedere spalancarsi il Cielo di una vita nuova, riconciliata, pacificata. Resistere nelle proprie posizioni, chiudersi alla misericordia di Dio sarebbe imperdonabile, la condanna ad un carcere durissimo, a pagare sino all'ultimo spicciolo. Siamo avversari di chi ci sta intorno, ammettiamolo, i tanti che ci perseguitano sono nostri nemici. Ma Cristo ci ha liberati, ci ha amati, ci ha perdonati. Corriamo allora oggi a metterci d'accordo, a lasciarci crocifiggere da coloro ai quali, il demonio, ha rubato la speranza. Hanno diritto all'amore che abbiamo sperimentato. E non è cosa di un giorno. E' un cammino, un andare per via, un'esperienza dell'amore di Dio che, approfondendosi, genera amore e misericordia. E' il nostro cammino nella Chiesa, affamata della Giustizia di Dio per mostrare al mondo un amore che supera ogni immaginazione. L'amore di Dio preparato per noi anche oggi.
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Ratzinger - Benedetto XVI. Compromesso e radicalità profetica
Gesù di Nazaret, pagg. 151-156
Partecipando con le nostre riflessioni e argomentazioni al dialogo del rabbino ebreo con Gesù, ci siamo fatti loro compagni nel cammino di Gesù verso Gerusalemme già ben oltre il Discorso della montagna; adesso dobbiamo ritornare ancora alle antitesi del Discorso della montagna in cui Gesù riprende alcune questioni nell'ambito della Seconda tavola del Decalogo contrapponendo ad antiche disposizioni della Torah una nuova radicalità della giustizia di fronte a Dio: non solo non uccidere, ma andare incontro al fratello con cui si è in lite per riconciliarsi con lui. Non più divorzi; non solo uguaglianza nel diritto (occhio per occhio, dente per dente), ma lasciarsi percuotere senza restituire il colpo; amare non solo il prossimo, ma anche il nemico. La sublimità dell'ethos che qui si manifesta continuerà a sconvolgere uomini di ogni provenienza e a impressionarli come il culmine della grandezza morale; pensiamo solo alla simpatia per Gesù del Mahatma Gandhi, che poggiava proprio su questi testi. Ma ciò che viene detto è anche realistico? Si deve, anzi, è legittimo agire così? Certi particolari di quanto viene detto non distruggono forse - come obietta Neusner - ogni concreto ordine sociale? Si può costruire così una comunità, un popolo? La recente ricerca esegetica, esaminando accuratamente l'interna struttura della Torah e della sua legislazione, ha fatto importanti acquisizioni su questo tema. Per la nostra questione è importante soprattutto l'analisi del cosiddetto Codice dell'Alleanza in Esodo 20,22-23,19. In questo codice di leggi si possono distinguere due tipi di diritto: il cosiddetto diritto casuistico e quello apodittico. Il diritto casuistico comporta norme che regolano questioni molto concrete: disposizioni giuridiche circa il mantenimento e l'affrancamento degli schiavi, circa le lesioni fisiche a opera di uomini o animali, circa l'indennizzo in caso di furto eccetera. Qui non vengono date motivazioni teologiche, ma stabilite sanzioni concrete, proporzionali al torto compiuto. Queste norme giuridiche costituiscono un diritto sviluppatosi dalla prassi e riferito a essa. Esso serve alla costruzione di un ordinamento sociale realistico, e si commisura alle possibilità concrete di una società in una situazione storica e culturale ben determinata. In questo senso, si tratta anche di un diritto condizionato storicamente, che è senz'altro suscettibile di critica, spesso anche - secondo la nostra visione etica - bisognoso di critica. Esso, nell'ambito stesso della legislazione veterotestamentaria, è stato ulteriormente sviluppato: norme più recenti contraddicono norme più antiche sulla stessa materia. Le disposizioni di questo genere, pur stando nel contesto fondamentale della fede nel DÃo rivelatore che ha parlato al Sinai, non sono però esse stesse immediatamente diritto divino, bensì diritto che si è sviluppato a partire dal criterio di fondo del diritto divino e quindi diritto suscettibile di ulteriore sviluppo e di correzioni. Di fatto, un ordinamento sociale comprende anche la possibilità di evoluzione: deve commisurarsi a diverse situazioni storiche e orientarsi a ciò che è possibile, senza però perdere di vista il criterio etico in quanto tale, che dà al diritto il suo carattere di diritto. La critica profetica di Isaia, Osea, Amos, Michea riguarda sotto certi aspetti - come ha mostrato per esempio Olivier Artus - anche il diritto casuistico che è presente nella Torah, ma che all'atto pratico è divenuto un'ingiustizia e in concrete situazioni economiche di Israele non serve più alla difesa dei poveri, delle vedove e degli orfani - una difesa che i profeti considerano lo scopo più elevato della legislazione proveniente da Dio. Affini a questa critica profetica, però, sono parti dello stesso Codice dell'Alleanza, che vengono qualificate come «diritto apodittico» (Es 22,20; 23,9-12). Questo diritto apodittico è pronunciato nel nome stesso di Dio: qui non si danno sanzioni concrete. «Non molesterai il forestiero nè lo opprimerai, perchè voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto. Non maltratterai la vedova o l'orfano» (Es 22,20s). In queste grandi norme, la critica dei profeti ha trovato il punto d'appoggio e a partire da tali norme ha ripetutamente messo in discussione consuetudini giuridiche concrete per far valere l'essenziale nocciolo divi-no del diritto quale criterio e linea d'orientamento per ogni sviluppo del diritto e per ogni ordinamento sociale. Frank Crèsemann, a cui dobbiamo nozioni fondamentali in questa materia, ha qualificato le disposizioni del diritto apodittico come «metanorme», che rappresentano un'istanza critica nei confronti delle regole del diritto casuistico. Il rapporto tra diritto casuistico e diritto apodittico - mann - potrebbe essere definito con la coppia concettuale di «regole» e «princìpi».
Vi sono così, all'interno della stessa Torah, livelli di autorità decisamente diversi; c'è in essa - per usare le parole di Artus - un dialogo continuo tra norme condizionate dalla storia e metanorme. Queste ultime espri-èmono quanto è richiesto perennemente dall'Alleanza. L'opzione fondamentale delle metanorme è la garanzia offerta da Dio a favore dei poveri che vengono facilmente privati dei loro diritti e non possono farsi giustizia da soli. A questo è legato un ulteriore aspetto: nella Torah appare in primo luogo quale norma fondamentale, dalla quale solamente dipende tutto, l'affermazione della fede nell'unico Dio. Egli solo, YHWH, può essere adorato. Ma poi, nel corso dello sviluppo profetico, la responsabilità per i poveri, le vedove e gli orfani assume progressivamente lo stesso rango dell'esclusiva adorazione dell'unico Dio: si fonde con l'immagine di Dio, la definisce in modo molto concreto. La guida sociale è una guida teologica e la guida teologica ha carattere sociale - l'amore verso Dio e l'amore per il prossimo non si possono scindere, e l'amore per il prossimo ottiene qui, come percezione della diretta presenza di Dio nel povero e nel debole, una definizione assai pratica.
Tutto ciò è essenziale per la corretta comprensione del Discorso della montagna. All'interno stesso della Torah e poi nel dialogo tra Legge e Profeti vediamo già la contrapposizione tra diritto casuistico mutevole, che forma di volta in volta la struttura sociale, e i princìpi essenziali del diritto divino stesso, alla luce dei quali si devono di continuo misurare, sviluppare e correggere le norme pratiche. Gesù non fa niente di inaudito o di nuovo quando contrappone alle norme casuistiche, pratiche, svilup-pate nella Torah, la pura volontà divina come la «maggiore giustizia» (Mt 5,20) che ci si deve aspettare dai figli di Dio. Egli riprende il dinamismo intrinseco alla stessa Torah, sviluppato ulteriormente dai profeti e, come l'Eletto, come il profeta che con Dio stesso si trova «faccia a faccia» (Dt 18,15), le dà la sua forma radicale. Così si comprende da sè che con queste parole non viene formulato unordinamento sociale; sicuramente, però, vengono premessi agli ordinamenti sociali i criteri fondamentali che, tuttavia, come tali non possono trovare realizzazione piena in nessun ordinamento sociale. La dinamizzazione degli ordinamenti giuridici e sociali concreti che Gesù compie, la loro estrapolazione dall'immediato ambito divino e l'affidamento della responsabilità a una ragione ormai capace di discernere, corrisponde alla struttura intrinseca della Torah stessa. Nelle antitesi del Discorso della montagna Gesù ci sta davanti non come un ribelle nè come un liberale, ma come l'interprete profetico della Torah che Egli non abolisce, ma porta a compimento - la porta a compimento proprio indicando alla ragione che agisce nella storia lo spazio della sua responsabilità. Così anche la cristianità dovrà continuamente rielaborare e riformulare gli ordinamenti sociali - una «dottrina sociale cristiana». Di fronte a nuovi sviluppi la cristianità correggerà ciò che era stato precedentemente stabilito. Nella struttura intrinseca della Torah, nella sua evoluzione mediante la critica profetica e nel messaggio di Gesù che riprende entrambe, essa trova insieme l'ampiezza per i necessari sviluppi storici e la base stabile che garantisce la dignità dell'uomo a partire dalla dignità di Dio.
San Giovanni Crisostomo (circa 345-407), vescovo d’Antiochia poi di Costantinopoli, dottore della Chiesa, Omelie sulla prima lettera ai Corinzi, n° 27
« Va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello »
La Chiesa non esiste perchè rimaniamo divisi pur radunandoci, bensì perchè le nostre divisioni vi siano spente; è questo il senso dell’assemblea. Se veniamo per l’eucaristia, non facciamo nulla che contraddica l’eucaristia, non causiamo dispiacere al nostro fratello. Poichè venite per rendere grazie per i benefici ricevuti, non separatevi dal vostro prossimo.
A tutti senza distinzione, Cristo offre il suo corpo dicendo: “Prendete e mangiatene tutti”. Perchè dunque non ammetti tutti alla tua mensa? ... Fai memoria di Cristo e disprezzi il povero?... Prendi parte a quella divina cena; devi essere il più compassionevole degli uomini. Hai bevuto il sangue del Signore e non riconosci il tuo fratello?
Anche se fin’ora non l’avessi riconosciuto, a quella tavola devi riconoscerlo. Ci occorre essere tutti nella Chiesa come in una casa comune: formiamo un unico Corpo. Abbiamo un solo battesimo, una sola mensa, una sola sorgente, e anche un solo Padre (cfr Ef 4,5 ; 1Cor 10,17).
San Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra, dottore della Chiesa
Introduzione alla vita devota, III, 8
« L’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio » (Gc 1,20)
Il santo ed illustre patriarca Giuseppe, quando dall’Egitto rispedì i fratelli a casa del padre, diede loro un consiglio: “Per via, non adiratevi” (Gen 45,24). A te dico la stessa cosa. Questa vita terrena è soltanto un cammino versa quella beata, non adiriamoci dunque per la strada gli uni contro gli altri; camminiamo tranquillamente e in pace con i fratelli e i compagni di viaggio. Con chiarezza, e senza eccezioni, ti dico: Se ti è possibile, non inquietarti affatto, non deve esistere alcun pretesto perchè tu apra la porta del cuore all’ira. San Giacomo, senza tanti giri di parole, dice chiaramente: “L’ira dell’uomo non opera la giustizia di Dio” (Gc 1,20).
Bisogna resistere seriamente al male e reprimere i vizi di coloro di cui abbiamo la responsabilità, con costanza e con decisione, ma sempre con dolcezza e serenità... La correzione dettata dalla passione, anche quando ha basi ragionevoli, ha molto meno efficacia di quella che viene unicamente dalla ragione... Che se poi giunge fino alla notte e il sole tramonta sulla nostra ira (Ef 4,26), ciò che l’Apostolo proibisce, si tramuta in odio e non te ne liberi più. Perchè essa si nutre di mille false convinzioni. Non si è mai trovato un uomo adirato il quale fosse convinto che la sua ira era ingiusta.
Meglio imparare a vivere senza collera, che volersi servire con moderazione e saggezza della collera, e quando, a causa della nostra imperfezione e debolezza, ci coglie di sorpresa, è meglio respingerla immediatamente che voler entrare in trattativa con essa.
San Giovanni Crisostomo (verso il 345-407), vescovo di Antiochia poi di Costantinopoli, dottore della Chiesa
Commento alla lettera ai Corinzi, n° 24
« Va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono »
«Pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane» (1 Cor 10,17). Cos'è questo pane? Il Corpo di Cristo. E cosa diventano coloro che lo ricevono? Il Corpo di Cristo. Non sono più diversi corpi, ma un solo Corpo. Quanti chicchi di grano compogono il pane! Eppure chi vede questi chicchi? Sono veramente nel pane che hanno formato, eppure nulla li distingue gli uni dagli altri, tanto sono uniti.
Così noi siamo uniti gli uni con gli altri e con Cristo. Non ci sono più parecchi corpi nutriti da parecchi cibi; formiamo un solo corpo nutrito e vivificato da un unico pane. Per questo Paolo dice: «Tutti partecipiamo dell'unico pane». Se partecipiamo tutti dell'unico pane, se siamo nutriti in lui al punto di diventare un medesimo corpo, perché mai non siamo uniti dal medesimo amore, strettamente legati tra noi dalla medesima carità.
Rileggete la storia dei nostri progenitori nella fede e troverete quel quadro insigne: «La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola» (At 4,32). Ma purtroppo, non è così oggi. Ai nostri giorni la Chiesa mostra lo spettacolo contrario; non si vedono che conflitti dolorosi, divisioni accanite tra i fratelli... Eravate lontani da lui, eppure Cristo non ha esitato ad unirvi a lui. E ora non vi degnate di imitarlo per unirvi di tutto cuore con il fratello?... A causa del peccato, i nostri corpi plasmati con la polvere del suolo (Gen 2,7) avevano perso la vita e erano divenuti schiavi della morte; il Figlio di Dio vi ha aggiunto il lievito della sua carne, libera da ogni peccato, in una pienezza di vita. E ha dato il suo corpo in cibo per tutti gli uomini affinché, rinnovati da questo sacramento dell'altare, partecipino tutti della sua vita immortale e beata.
Sant'Agostino (354-430), vescovo d'Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Discorso 211, 5-6 ; SC 116, p. 169
« Va' prima a riconciliarti con il tuo fratello »
Fratelli, mi rivolgo a tutti voi perché, trovandoci in questi giorni sacri [della Quaresima], non rimangano in piedi le vostre discordie... Forse state parlando nella vostra mente e vi state dicendo : « Vorrei mettermi d'accordo, ma è lui che mi ha offeso... e tuttavia non vuol chiedermi perdono ». Che cosa dirò a costui ?... Bisogna stabilire tra di voi alcuni pacieri.... Tu devi semplicemente essere pronto a perdonargli, proprio pronto a perdonargli con tutto il cuore. Se sei disposto a perdonare, hai già perdonato.
Ma hai ancora una cosa che puoi fare : pregare ; prega per lui, perché ti chieda perdono ; poiché sai che va a suo danno se non lo chiede, prega per lui affinché lo chieda. Dì al Signore nella tua preghiera : « Signore, sai che non ho fatto niente contro quel mio fratello ... e che il suo peccato nei miei confronti danneggerebbe lui se non mi chiede perdono. Quanto a me ti chiedo di cuore di perdonargli ».
Ecco ciò che dovete fare per essere in pace con i vostri fratelli... affinché tutti possiamo far Pasqua con coscienza tranquilla, possiamo celebrare serenamente la passione di colui che, pur non dovendo niente a nessuno, ha saldato il debito al posto dei debitori ; parlo del Signore Gesù Cristo il quale non ha fatto torto a nessuno eppure, per così dire, il mondo intero si è scagliato contro di lui. E invece di esigere gravi punizioni ha promesso dei premi... Abbiamo lui come testimone nei nostri cuori : se abbiamo mancato contro qualcuno, chiediamogli perdono con cuore sincero ; se un altro ha mancato nei nostri confronti, siamo pronti a concedere perdono e preghiamo per i nostri nemici.
Benedetto XVI. La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo.
Messaggio per la Quaresima 2010
Giustizia: “dare cuique suum”
Mi soffermo in primo luogo sul significato del termine “giustizia”, che nel linguaggio comune implica “dare a ciascuno il suo - dare cuique suum”, secondo la nota espressione di Ulpiano, giurista romano del III secolo. In realtà, però, tale classica definizione non precisa in che cosa consista quel “suo” da assicurare a ciascuno. Ciò di cui l’uomo ha più bisogno non può essergli garantito per legge. Per godere di un’esistenza in pienezza, gli è necessario qualcosa di più intimo che può essergli accordato solo gratuitamente: potremmo dire che l’uomo vive di quell’amore che solo Dio può comunicargli avendolo creato a sua immagine e somiglianza. Sono certamente utili e necessari i beni materiali – del resto Gesù stesso si è preoccupato di guarire i malati, di sfamare le folle che lo seguivano e di certo condanna l’indifferenza che anche oggi costringe centinaia di milioni di essere umani alla morte per mancanza di cibo, di acqua e di medicine -, ma la giustizia “distributiva” non rende all’essere umano tutto il “suo” che gli è dovuto. Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio. Nota sant’Agostino: se “la giustizia è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo... non è giustizia dell’uomo quella che sottrae l’uomo al vero Dio” (De civitate Dei, XIX, 21).
Da dove viene l’ingiustizia?
L’evangelista Marco riporta le seguenti parole di Gesù, che si inseriscono nel dibattito di allora circa ciò che è puro e ciò che è impuro: “Non c'è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro... Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male” (Mc 7,14-15.20-21). Al di là della questione immediata relativa al cibo, possiamo scorgere nella reazione dei farisei una tentazione permanente dell’uomo: quella di individuare l’origine del male in una causa esteriore. Molte delle moderne ideologie hanno, a ben vedere, questo presupposto: poiché l’ingiustizia viene “da fuori”, affinché regni la giustizia è sufficiente rimuovere le cause esteriori che ne impediscono l’attuazione. Questo modo di pensare - ammonisce Gesù - è ingenuo e miope. L’ingiustizia, frutto del male, non ha radici esclusivamente esterne; ha origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa connivenza col male. Lo riconosce amaramente il Salmista: “Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (Sal 51,7). Sì, l’uomo è reso fragile da una spinta profonda, che lo mortifica nella capacità di entrare in comunione con l’altro. Aperto per natura al libero flusso della condivisione, avverte dentro di sé una strana forza di gravità che lo porta a ripiegarsi su se stesso, ad affermarsi sopra e contro gli altri: è l’egoismo, conseguenza della colpa originale. Adamo ed Eva, sedotti dalla menzogna di Satana, afferrando il misterioso frutto contro il comando divino, hanno sostituito alla logica del confidare nell’Amore quella del sospetto e della competizione; alla logica del ricevere, dell’attendere fiducioso dall’Altro, quella ansiosa dell’afferrare e del fare da sé (cfr Gen 3,1-6), sperimentando come risultato un senso di inquietudine e di incertezza. Come può l’uomo liberarsi da questa spinta egoistica e aprirsi all’amore?
Giustizia e Sedaqah
Nel cuore della saggezza di Israele troviamo un legame profondo tra fede nel Dio che “solleva dalla polvere il debole” (Sal 113,7) e giustizia verso il prossimo. La parola stessa con cui in ebraico si indica la virtù della giustizia, sedaqah, ben lo esprime. Sedaqah infatti significa, da una parte, accettazione piena della volontà del Dio di Israele; dall’altra, equità nei confronti del prossimo (cfr Es 20,12-17), in modo speciale del povero, del forestiero, dell’orfano e della vedova (cfr Dt 10,18-19). Ma i due significati sono legati, perché il dare al povero, per l’israelita, non è altro che il contraccambio dovuto a Dio, che ha avuto pietà della miseria del suo popolo. Non a caso il dono delle tavole della Legge a Mosè, sul monte Sinai, avviene dopo il passaggio del Mar Rosso. L’ascolto della Legge, cioè, presuppone la fede nel Dio che per primo ha ‘ascoltato il lamento’ del suo popolo ed è “sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto” (cfr Es 3,8). Dio è attento al grido del misero e in risposta chiede di essere ascoltato: chiede giustizia verso il povero (cfr Sir 4,4-5.8-9), il forestiero (cfr Es 22,20), lo schiavo (cfr Dt 15,12-18). Per entrare nella giustizia è pertanto necessario uscire da quell’illusione di auto-sufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è l’origine stessa dell’ingiustizia. Occorre, in altre parole, un “esodo” più profondo di quello che Dio ha operato con Mosè, una liberazione del cuore, che la sola parola della Legge è impotente a realizzare. C’è dunque per l’uomo speranza di giustizia?
Cristo, giustizia di Dio
L’annuncio cristiano risponde positivamente alla sete di giustizia dell’uomo, come afferma l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani: “Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio... per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. E’ lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue” (3,21-25).
Quale è dunque la giustizia di Cristo? E’ anzitutto la giustizia che viene dalla grazia, dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri. Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la “benedizione” che spetta a Dio (cfr Gal 3,13-14). Ma ciò solleva subito un’obiezione: quale giustizia vi è là dove il giusto muore per il colpevole e il colpevole riceve in cambio la benedizione che spetta al giusto? Ciascuno non viene così a ricevere il contrario del “suo”? In realtà, qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana. Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero esorbitante. Di fronte alla giustizia della Croce l’uomo si può ribellare, perché essa mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico, ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso. Convertirsi a Cristo, credere al Vangelo, significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza - indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia.
Si capisce allora come la fede sia tutt’altro che un fatto naturale, comodo, ovvio: occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”. Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Grazie all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare.
Proprio forte di questa esperienza, il cristiano è spinto a contribuire a formare società giuste, dove tutti ricevono il necessario per vivere secondo la propria dignità di uomini e dove la giustizia è vivificata dall’amore.
Cari fratelli e sorelle, la Quaresima culmina nel Triduo Pasquale, nel quale anche quest’anno celebreremo la giustizia divina, che è pienezza di carità, di dono, di salvezza. Che questo tempo penitenziale sia per ogni cristiano tempo di autentica conversione e d’intensa conoscenza del mistero di Cristo, venuto a compiere ogni giustizia. Con tali sentimenti, imparto di cuore a tutti l’Apostolica Benedizione.
Benedetto XVI. L’intercessione di Abramo per Sodoma (Gen 18,16-33)
Catechesi del 18 maggio 2011
Cari fratelli e sorelle,
Il primo testo su cui vogliamo riflettere si trova nel capitolo 18 del Libro della Genesi; si narra che la malvagità degli abitanti di Sodoma e Gomorra era giunta al culmine, tanto da rendere necessario un intervento di Dio per compiere un atto di giustizia e per fermare il male distruggendo quelle città. È qui che si inserisce Abramo con la sua preghiera di intercessione. Dio decide di rivelargli ciò che sta per accadere e gli fa conoscere la gravità del male e le sue terribili conseguenze, perché Abramo è il suo eletto, scelto per diventare un grande popolo e far giungere la benedizione divina a tutto il mondo. La sua è una missione di salvezza, che deve rispondere al peccato che ha invaso la realtà dell’uomo; attraverso di lui il Signore vuole riportare l’umanità alla fede, all’obbedienza, alla giustizia. E ora, questo amico di Dio si apre alla realtà e al bisogno del mondo, prega per coloro che stanno per essere puniti e chiede che siano salvati.
Abramo imposta subito il problema in tutta la sua gravità, e dice al Signore: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?» (vv. 23-25). Con queste parole, con grande coraggio, Abramo mette davanti a Dio la necessità di evitare una giustizia sommaria: se la città è colpevole, è giusto condannare il suo reato e infliggere la pena, ma – afferma il grande Patriarca – sarebbe ingiusto punire in modo indiscriminato tutti gli abitanti. Se nella città ci sono degli innocenti, questi non possono essere trattati come i colpevoli. Dio, che è un giudice giusto, non può agire così, dice Abramo giustamente a Dio.
Se leggiamo, però, più attentamente il testo, ci rendiamo conto che la richiesta di Abramo è ancora più seria e più profonda, perché non si limita a domandare la salvezza per gli innocenti. Abramo chiede il perdono per tutta la città e lo fa appellandosi alla giustizia di Dio; dice, infatti, al Signore: «E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?» (v. 24b). Così facendo, mette in gioco una nuova idea di giustizia: non quella che si limita a punire i colpevoli, come fanno gli uomini, ma una giustizia diversa, divina, che cerca il bene e lo crea attraverso il perdono che trasforma il peccatore, lo converte e lo salva. Con la sua preghiera, dunque, Abramo non invoca una giustizia meramente retributiva, ma un intervento di salvezza che, tenendo conto degli innocenti, liberi dalla colpa anche gli empi, perdonandoli. Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia “superiore”, offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio e confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch’essi giusti, senza più necessità di essere puniti.
È questa la richiesta di giustizia che Abramo esprime nella sua intercessione, una richiesta che si basa sulla certezza che il Signore è misericordioso. Abramo non chiede a Dio una cosa contraria alla sua essenza, bussa alla porta del cuore di Dio conoscendone la vera volontà. Certo Sodoma è una grande città, cinquanta giusti sembrano poca cosa, ma la giustizia di Dio e il suo perdono non sono forse la manifestazione della forza del bene, anche se sembra più piccolo e più debole del male? La distruzione di Sodoma doveva fermare il male presente nella città, ma Abramo sa che Dio ha altri modi e altri mezzi per mettere argini alla diffusione del male. È il perdono che interrompe la spirale del peccato, e Abramo, nel suo dialogo con Dio, si appella esattamente a questo. E quando il Signore accetta di perdonare la città se vi troverà i cinquanta giusti, la sua preghiera di intercessione comincia a scendere verso gli abissi della misericordia divina. Abramo - come ricordiamo - fa diminuire progressivamente il numero degli innocenti necessari per la salvezza: se non saranno cinquanta, potrebbero bastare quarantacinque, e poi sempre più giù fino a dieci, continuando con la sua supplica, che si fa quasi ardita nell’insistenza: «forse là se ne troveranno quaranta … trenta … venti … dieci» (cfr vv. 29.30.31.32). E più piccolo diventa il numero, più grande si svela e si manifesta la misericordia di Dio, che ascolta con pazienza la preghiera, l’accoglie e ripete ad ogni supplica: «perdonerò, … non distruggerò, … non farò» (cfr vv. 26.28.29.30.31.32).
Così, per l’intercessione di Abramo, Sodoma potrà essere salva, se in essa si troveranno anche solamente dieci innocenti. È questa la potenza della preghiera. Perché attraverso l’intercessione, la preghiera a Dio per la salvezza degli altri, si manifesta e si esprime il desiderio di salvezza che Dio nutre sempre verso l’uomo peccatore. Il male, infatti, non può essere accettato, deve essere segnalato e distrutto attraverso la punizione: la distruzione di Sodoma aveva appunto questa funzione. Ma il Signore non vuole la morte del malvagio, ma che si converta e viva (cfr Ez 18,23; 33,11); il suo desiderio è sempre quello di perdonare, salvare, dare vita, trasformare il male in bene. Ebbene, è proprio questo desiderio divino che, nella preghiera, diventa desiderio dell’uomo e si esprime attraverso le parole dell’intercessione. Con la sua supplica, Abramo sta prestando la propria voce, ma anche il proprio cuore, alla volontà divina: il desiderio di Dio è misericordia, amore e volontà di salvezza, e questo desiderio di Dio ha trovato in Abramo e nella sua preghiera la possibilità di manifestarsi in modo concreto all’interno della storia degli uomini, per essere presente dove c’è bisogno di grazia. Con la voce della sua preghiera, Abramo sta dando voce al desiderio di Dio, che non è quello di distruggere, ma di salvare Sodoma, di dare vita al peccatore convertito.
E’ questo che il Signore vuole, e il suo dialogo con Abramo è una prolungata e inequivocabile manifestazione del suo amore misericordioso. La necessità di trovare uomini giusti all’interno della città diventa sempre meno esigente e alla fine ne basteranno dieci per salvare la totalità della popolazione. Per quale motivo Abramo si fermi a dieci, non è detto nel testo. Forse è un numero che indica un nucleo comunitario minimo (ancora oggi, dieci persone sono il quorum necessario per la preghiera pubblica ebraica). Comunque, si tratta di un numero esiguo, una piccola particella di bene da cui partire per salvare un grande male. Ma neppure dieci giusti si trovavano in Sodoma e Gomorra, e le città vennero distrutte. Una distruzione paradossalmente testimoniata come necessaria proprio dalla preghiera d’intercessione di Abramo. Perché proprio quella preghiera ha rivelato la volontà salvifica di Dio: il Signore era disposto a perdonare, desiderava farlo, ma le città erano chiuse in un male totalizzante e paralizzante, senza neppure pochi innocenti da cui partire per trasformare il male in bene. Perché è proprio questo il cammino della salvezza che anche Abramo chiedeva: essere salvati non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita. Non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo. Dirà il profeta Geremia al popolo ribelle: «La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio» (Ger 2,19). È da questa tristezza e amarezza che il Signore vuole salvare l’uomo liberandolo dal peccato. Ma serve dunque una trasformazione dall’interno, un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l’odio in amore, la vendetta in perdono. Per questo i giusti devono essere dentro la città, e Abramo continuamente ripete: «forse là se ne troveranno …». «Là»: è dentro la realtà malata che deve esserci quel germe di bene che può risanare e ridare la vita. E’ una parola rivolta anche a noi: che nelle nostre città si trovi il germe di bene; che facciamo di tutto perché siano non solo dieci i giusti, per far realmente vivere e sopravvivere le nostre città e per salvarci da questa amarezza interiore che è l’assenza di Dio. E nella realtà malata di Sodoma e Gomorra quel germe di bene non si trovava.
Ma la misericordia di Dio nella storia del suo popolo si allarga ulteriormente. Se per salvare Sodoma servivano dieci giusti, il profeta Geremia dirà, a nome dell’Onnipotente, che basta un solo giusto per salvare Gerusalemme: «Percorrete le vie di Gerusalemme, osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se c’è un uomo che pratichi il diritto, e cerchi la fedeltà, e io la perdonerò» (5,1). Il numero è sceso ancora, la bontà di Dio si mostra ancora più grande. Eppure questo ancora non basta, la sovrabbondante misericordia di Dio non trova la risposta di bene che cerca, e Gerusalemme cade sotto l’assedio del nemico. Bisognerà che Dio stesso diventi quel giusto. E questo è il mistero dell’Incarnazione: per garantire un giusto Egli stesso si fa uomo. Il giusto ci sarà sempre perché è Lui: bisogna però che Dio stesso diventi quel giusto. L’infinito e sorprendente amore divino sarà pienamente manifestato quando il Figlio di Dio si farà uomo, il Giusto definitivo, il perfetto Innocente, che porterà la salvezza al mondo intero morendo sulla croce, perdonando e intercedendo per coloro che «non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Allora la preghiera di ogni uomo troverà la sua risposta, allora ogni nostra intercessione sarà pienamente esaudita.
Cari fratelli e sorelle, la supplica di Abramo, nostro padre nella fede, ci insegni ad aprire sempre di più il cuore alla misericordia sovrabbondante di Dio, perché nella preghiera quotidiana sappiamo desiderare la salvezza dell’umanità e chiederla con perseveranza e con fiducia al Signore che è grande nell’amore. Grazie.
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