Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

giovedì 20 giugno 2013

Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.





Guardate figlie mie, 
ciò che Dio ha dato al Figlio suo che egli amava al di sopra di tutto; 
in questo potrete riconoscere quale sia la sua volontà. 
Sì, tali sono proprio i beni che egli fa a noi in questo mondo. 
Dà in proporzione all'amore che nutre per ognuno di noi.


Santa Teresa d'Avila







Mt 6, 7-15

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Pregando, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome;
venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male.
Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe».



Il commento


Si può vivere da orfani o da figli. Schiavi o liberi. Infelici o felici. Chiediamoci oggi se viviamo da figli liberi; o se siamo schiavi di un sorriso, di un'attenzione, di un affetto. Oggi più che mai il mondo ci offre gadget da orfani, kit di sopravvivenza per anime prosciugate di senso e sostanza. Li abbiamo visti i nostri figli? Sembrano automi, la mano si infila in automatico nella tasca ogni tre – quattro minuti per tirar fuori lo smartphone, e lo sguardo inebetito a fissarne lo schermo, sperando un commento, un post, qualcosa che riempia il vuoto pneumatico di un tempo che ha il solo compito di scivolare via come una parentesi tra un messaggio e l’altro. Ma forse anche noi, padri e madri, siamo incapsulati nella stessa nevrosi che fa della vita un pedaggio da pagare per entrare nelle grazie degli altri, “sprecata” come quella dei nostri figli. 


Allo stesso modo, una preghiera piena di parole “sprecate” è il sintomo di chi si sente tradito, inutile, disprezzato, dimenticato ai bordi della storia che conta, delle scelte importanti, e tenta, con le parole, di farsi notare e di essere importante. Come noi, spesso orfani che cercano di costruirsi un’identità che non sia ignorata. Le “tante parole” della preghiera, come i post gettati parossisticamente nei social networks, segnano una vita in ginocchio davanti agli uomini e alle cose, perché prostrata dinanzi a sé stessi; “come i pagani”: molti dei, nessun Padre. Conoscere Lui, infatti, è la vita eterna, è sapere d’essere amati, ora, così come siamo, senza condizioni.


I rabbini raccontavano questa breve parabola: "Il figlio di un re aveva preso una cattiva strada. Il re gli inviò il suo precettore con questo messaggio: “Ritorna figlio mio!”. Ma il figlio gli fece rispondere: “Con che faccia posso tornare? Mi vergogno a comparirti dinanzi”. Il padre allora gli mandò a dire: “Può un figlio vergognarsi di tornare da suo padre? E se tu torni, non torni da tuo padre?" (Dt R. 2,24). Chi ha conosciuto il Padre ha la libertà di ritornare sempre alla fonte e all'origine del proprio essere, di gettarsi tra le sue braccia con semplicità schietta, fiducia filiale, umile audacia, nella certezza di essere accolti con misericordia: “La consapevolezza che abbiamo della nostra condizione di schiavi ci farebbe sprofondare sotto terra, il nostro essere di terra si scioglierebbe in polvere se l’autorità dello stesso nostro Padre e lo Spirito del Figlio suo non ci spingessero a proferire questo grido: “Abbà, Padre!”. Quando la debolezza di un mortale oserebbe chiamare Dio suo Padre se non soltanto allorché l’intimo dell’uomo è animato dalla potenza dall’alto?” (S. Pietro Crisologo, Ser. 71).


Chi ha “una stanza” dove ritirarsi e sfogare le proprie angosce, confessare i propri peccati, piangere e stringersi al petto di suo Padre, non ha più bisogno di prostrarsi agli idoli, e la sofferenza procurata dai rifiuti, dalle incomprensioni, dai fallimenti, non ha il potere di strappargli la speranza e la pace. Conoscere il Padre nell’'esperienza del suo amore presente in ogni evento della nostra vita, ci sazia e ci fa persone, ci rende la dignità che ci spetta, l’attenzione, la stima, l’amore. Chi attinge al cuore del Padre sa amare gli altri di un amore libero, sganciato dalle rincorse affannate e deluse, sfugge ai compromessi, lotta per la castità, vive nella luce della verità, dona la sua vita senza appropriarsi di quella altrui: "Chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino" (Benedetto XVI, Deus caritas est, 42). 



L'incontro con Dio mio Padre fa scaturire il Padre nostro nel quale vivere ogni istante. Nell'intima preghiera che si abbandona totalmente a Lui, ritroviamo anche tutti gli altri uomini. In mio Padre nessuno mi è più estraneo, e ogni relazione assume i contorni della libertà e della verità. Come fu per Gesù nel Getsemani, l'Abbà che sgorga dal cuore attira a Dio, misteriosamente, schiere di uomini. Il Padre nostro è la prima missione che ci è affidata: avere nel cuore ogni figlio di nostro Padre, ogni nostro fratello. Per loro - perduti, dispersi, sofferenti - è la nostra vita di figli, ritmata e accompagnata dalle parole della preghiera: esse invocano il “Nome di Dio santificato” nelle nostre esistenze, perché si veda “il Cielo in terra” nelle opere che Dio compie in ciascuno, opere sante, ovvero separate e diverse da quelle del mondo ma ben presenti nella sua storia; implorano “l'avvento del Regno” nel quale vivere come figli del Re, regnando sul denaro e sugli idoli mondani, per dischiudere a tutti le porte sul destino che attende ogni uomo; desiderano il “compimento della volontà di Dio” che è "umiltà nella conversazione, fermezza nella fede, discrezione nelle parole, nelle azioni giustizia, nelle opere misericordia, nei costumi severità... non fare dei torti e tollerare il torto subito, mantenere la pace con i fratelli, amare Dio con tutto il cuore... nulla assolutamente anteporre a Cristo, poiché neppure lui ha preferito qualcosa a noi. Volontà di Dio è stare inseparabilmente uniti al suo amore, rimanere accanto alla sua croce con coraggio e forza" (S. Cipriano, Trattato «Sul Padre nostro»); sono le parole di chi è affamato del “pane quotidiano”, l’unico che alimenta la vita divina, il cibo di cui si è alimentato Gesù, la Croce che ci attende ogni “oggi”; parole che sperano la “libertà” dal demonio e “il male”, che desiderano “il perdono” sul quale infrangere l'odio e il rancore. Il Padre Nostro è il respiro interiore dei figli che hanno perduto la propria vita per amore.




APPROFONDIRE









Quando sei unito a Dio mediante la preghiera, 
esamina chi sei in verità; 
parlagli se puoi, 
e se questo ti è impossibile, 
fermati, rimani davanti a lui. 
Non darti altra preoccupazione.



San Pio (Padre Pio)







Dal Vangelo secondo Matteo 6,1-6.16-18.

Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli.
Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra,
perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.

Il Commento


Il Signore ci chiama a chiudere la porta e cercare nostro Padre; a scendere le scale del cuore e scoprire di vivere come orfani, chiasso all'esterno, tra impegni e parole, e far tutto per essere notati; anche quando ci nascondiamo scappando dagli altri, in fondo è perché la nostra vita dipende da loro. Una parola, questa di oggi, per gli affamati di vita e di amore. Ed è una buona notizia: c'è speranza, perché c'è la conversione, la Teshuvà direbbe un pio israelita, il ritorno. La conversione è il figlio prodigo, la fitta che gli percuote il petto, la percezione chiara d'aver buttato la vita e di essere ormai un relitto in secca, perso nella solitudine, con il nulla nel cuore, nessun viso, nessuna parola, tutto perduto. Ma, per una Grazia misteriosa, quella che scocca al termine della discesa, rientra in sé stesso, nella verità dalla quale era uscito ingannato da seducenti sirene di fumo. Rientra, e si trova da solo, e intuisce quello che ha smarrito: suo Padre. "Mi alzerò e tornerò da mio Padre". Questo Vangelo accende oggi in noi la stessa scintilla per indurci a chiudere la porta del cuore e rientrare lì da dove siamo usciti, perduti tra i tentacoli del lavoro, degli impegni, delle cose, degli affetti, di noi stessi spalmati sul cuore, ruvido e secco, degli "altri", proni tra giornate disordinate, cercando invano una ghianda, un affetto, un sorriso, una parola, un qualcosa di autentico che dia verità e valore alla nostra vita. Per questo siamo tante volte prede della concupiscenza. E' per aver smarrito la nostra identità di figli che buttiamo i nostri corpi in relazioni fugaci. La sensualità, i peccati legati al sesso, siano essi i rapporti prematrimoniali o i rapporti coniugali egoistici e non aperti alla vita, o siano essi i peccati di una sessualità disordinata, la masturbazione o i rapporti omosessuali, sono tutti originati da una perdita di senso e di identità. Sono i peccati che caratterizzano gli orfani; anche la psicologia ci rivela che i disordini sessuali hanno sempre origine nella disintegrazione dei rapporti con i propri genitori. A maggior ragione essi sono il frutto avvelenato del demonio che ha soppiantato il Padre nel cuore dell'uomo. Quando è lui a far da padre, i suoi figli ne vorranno compiere i desideri. E sono sempre desideri di morte, realizzati attraverso relazioni egoistiche, che succhiano la vita dell'altro per restarne poi uccisi. Come i giudizi, le invidie, le gelosie, i desideri carnali di gadget e persone, rivelano che molto facciamo per attirare l'attenzione, accaparrarsi il cuore, i pensieri, la stima e gli affetti di chi ci sta intorno. E' la concupiscenza che alberga nel nostro cuore, che ci fa vivere fuori dalla tenda, come Esaù, cacciando amore e sostentamento laddove non ve ne sono, rischiando così, seriamente, la primogenitura. Vivere proiettati al di fuori di sé stessi in una continua esibizione dei propri sentimenti, delle proprie parole, delle proprie buone azioni, frecce con le quali crediamo di infilzare le nostre prede: l'amico, la fidanzata, il marito, la moglie, il capoufficio, chiunque sia, compromettendo il rapporto esistenziale con nostro Padre. E' il trionfo di Facebook, sempre connessi e in vetrina, sperando un "mi piace" che colmi il vuoto inaccettabile.



E' tempo, dunque, di rientrare nel cuore e scoprire, senza paura, la solitudine e, da essa, cercare nel segreto lo sguardo di Chi abbiamo dimenticato. "Il digiuno, l'elemosina, la preghiera", sono, infatti, innanzi tutto i segni d'una realtà che il mondo e il demonio ci occultano: la solitudine profonda della dimenticanza di Dio, il modo che ci ha dato di accettare, consapevolmente, l'assenza che erode le nostre giornate. Avendo tradito lo Sposo, in noi non c'è posto per il Padre. Siamo soli e affamati d'amore, anche se strepitiamo e ci facciamo notare. Per questo oggi Gesù ci richiama ad un segreto, a ritornare alla stanza più intima, tameion nell'originale greco del Vangelo, che può significare un magazzino o una dispensa, oppure la stanza più intima, quella meno adatta ad attirare l'attenzione degli ospiti, probabilmente perché senza finestre. Chiudere la porta, e scendere laddove non vi sono finestre, gli occhi e la bocca chiusi di fronte alle tentazioni della concupiscenza, in un'intimità di figli che tutto attendono da loro Padre. E' il pudore a cui siamo chiamati, il segreto intimo di una relazione che ci mostra solo a nostro Padre, esattamente come siamo. Il pudore, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica "è una parte integrante della temperanza. Il pudore preserva l'intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. È ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione... Il pudore è modestia. Ispira la scelta dell'abbigliamento. Conserva il silenzio o il riserbo là dove traspare il rischio di una curiosità morbosa. Diventa discrezione". E' esattamente ciò che Tobi dice a suo figlio Tobia: "E' bene tenere nascosto il segreto del re, ma è cosa gloriosa rivelare e manifestare le opere di Dio" (Tb. 12,7). E' l'atteggiamento di Maria che custodisce ogni parola ed ogni avvenimento come i luoghi del suo intimo rapporto con Dio, meditando, ruminando la storia nel suo cuore con timore e stupore: il pudore e la castità che custodiscono il proprio intimo nell'amore di Dio, ma che prorompono altresì nel Magnificat che benedice e rivela le opere del Padre: "Come nella relazione tra uomo e donna esiste la sfera totalmente personale, che necessita dello spazio protettivo della discrezione, e allo stesso tempo il rapporto a due nel matrimonio e nella famiglia per sua essenza include pure una responsabilità pubblica, così è anche nella relazione con Dio: il «noi» della comunità orante e la dimensione personalissima di ciò che si può comunicare solo a Dio si compenetrano a vicenda" (J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Volume I). In ogni caso è fondamentale fissare i propri occhi su Cristo, principio e perfezionatore della nostra fede. Lasciarci guardare da Lui solo, desiderare solo il suo sguardo di misericordia, senza mostrare il nostro intimi agli altri, nell'illusione che lo sguardo altrui ci dia quell'identità che abbiamo perduto; altrimenti, continueremo ad irretire gli occhi di chi ci è intorno nelle nostre parole, nelle nostre opere, nella simpatia, nelle battute, nell'ipocrisia, per restarene a nostra volta accalappiati. E' l'ophtalmodoulia (Ef. 6,6), la schiavitù degli occhi, sorella di quella delle parole: "Mi viene in mente una bellissima parola della prima lettera di san Pietro, nel primo capitolo, versetto 22. In latino suona così: 'Castificantes animas nostras in oboedentia veritatis'. L'obbedienza alla verità dovrebbe ‘castificare’ la nostra anima, e così guidare alla retta parola e alla retta azione. In altri termini, parlare per trovare applausi, parlare orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire, parlare in obbedienza alla dittatura delle opinioni comuni, è considerato come una specie di prostituzione della parola e dell'anima. La 'castità' a cui allude l’apostolo Pietro è non sottomettersi a questi standard, non è cercare gli applausi, ma cercare l’obbedienza alla verità" (Benedetto XVI, Omelia alla Commissione Teologica Internazionale, 6 febbraio 2007). E la Verità è Cristo, e in Lui risplende anche la verità di ciascuno, la debolezza e l'incapacità pronte ad accogliere l'onnipotenza divina. E' lui infatti che conosce sino in fondo chi siamo davvero, e, in questa conoscenza rompe ogni ipocrisia, togliendo ogni maschera che ci rende anonimi, senza identità se non quella vana, senza peso, che viene dalla vana-gloria. Cercare dunque il suo sguardo, la sua Gloria, il peso specifico della nostra esistenza in Lui; tutto, in pensieri, parole ed opere in Cristo e per Lui. E' questa la Parola di oggi, meravigliosa. In tutto quello che pensiamo, diciamo e facciamo (elemosina, digiuno e preghiera ne sono i simboli "religiosi") "è sempre in gioco il bisogno di riconoscimento. Se lo cerco negli altri, non ne avrò mai abbastanza; resterò sempre schiavo e del giudizio degli altri e dell'immagine (idolatria) del mio invece che della realtà di Dio. Se lo cerco in Dio, allora ritrovo la mia realtà in colui che mi ama di amore eterno, ai cui occhi sono prezioso e degno di stima, addirittura un prodigio (Ger. 31, 3; Is. 43, 4) Sal. 139,14)... Il mio essere è il suo vedermi e amarmi" (S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Matteo I, Bologna 1999, pag. 84). Torniamo a casa dunque, insieme a Gesù torniamo a nostro Padre; ci attende la Sua ricompensa, il suo abbraccio di misericordia, che sono le braccia distese di Cristo sulla Croce che ci attende oggi, il suo amore fatto carne e sangue, l'amore che non si esaurisce. Ritorniamo a casa. Papà è alla finestra e freme nell'attesa di correrci intorno. Ma il cammino è cosa nostra, senza di esso non c'è amore vero. Il Figlio lo ha inaugurato per noi risalendo dal sepolcro prima di noi. Le sue orme ci conducono dalla morte alla vita, sino alla notte delle notti, la notte dei figli nel Figlio, la Pasqua che ci consegnerà all'eternità dell'amore del Padre. In Lui, nell'intimità di un pudore che si abbandona confidente, possiamo oggi tornare a casa, e, come San Francesco, essere davvero persone, uomini, donne, cristiani in comunione con ogni creatura, vivi di una vita che non muore da spendere nell'amore.







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