NATIVITA' DI SAN GIOVANNI BATTISTA (Messa del Giorno)
Il messaggio del Battista
è quello di invitare il popolo di Israele
a guardarsi dentro e a convertirsi
per poter riconoscere, nell'ora della salvezza,
Colui che Israele ha sempre atteso e che ora è presente.
Giovanni impersonifica in questo senso
l'ultimo dei profeti
e l'economia specifica della speranza dell'Antica Alleanza.
Benedetto XVI
Dal Vangelo secondo Luca 1,57-66.80.
Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei. All'ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c'è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta, e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: «Che sarà mai questo bambino?» si dicevano. Davvero la mano del Signore stava con lui. Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.
Il commento
Insieme al Signore, Giovanni Battista è il solo di cui si celebra la natività. Il Profeta, l’ultimo, il più prossimo al Salvatore: Giovanni, un "nome nuovo" che significa Dio fa grazia ora, per una storia che comincia ora, quella di ciascun uomo battezzata nelle viscere d’amore a cui tutti aneliamo. Che cos' è la nostra vita se non una continua ricerca di misericordia? Di un amore che ci accolga nel suo grembo senza condizioni, così come siamo, che non presenti conti da pagare, per il quale non doversi acconciare? Un amore che ci faccia liberi d’essere esattamente quel che siamo. Nessuno nella nostra parentela porta il nome di questo amore, la carne non la prevede. I rapporti, infatti, si infrangono tutti sul limite severo della debolezza carnale. Siamo il frutto di una storia concreta, fatta di persone, di incontri, di eventi. Come la storia del Popolo di Israele, l’eletto incapace di reggere la prova della libertà, chiamato e amato ma infedele. Una storia di schiavitù e liberazioni, di adulteri e perdoni. Come la nostra vita, una strada sconnessa e piena di buche, ma che segue un percorso certo e diritto sulle orme di una promessa: l'avvento del Messia, il Salvatore, il Figlio che compirà, con la sua carne, la Legge che la nostra carne ha reso irrealizzabile. Giovanni è la soglia della speranza, l’uscio socchiuso sul compimento di ogni promessa.
La sua nascita dal grembo sterile di Elisabetta ne è il segno. Elisabetta è la sintesi di Israele, della vicenda di ciascuno dei suoi figli. Tutta la loro storia si coagula in quel grembo, sterile vigna senza frutto. Come le nostre esistenze, spalmate di sforzi, battaglie e dure contese per ottenere un pugno di mosche. Eppure, proprio la catena di fallimenti e disillusioni, il vuoto e l'aridità del deserto nel quale è trasformata spesso la nostra esistenza, proprio la vita di oggi, grigia, afferrata dal dubbio, precaria e angosciata, è il grembo sterile preparato per accogliere il mistero di un miracolo insperato, la vita dove stava la morte. Come al principio della storia, Isacco di Abramo e di Sara, avvizziti patriarchi dinanzi alla vita. Una storia di salvezza iniziata con il miracolo che ne profetizzava il compimento. Così la nostra vita, e ogni sua giornata chissà. Un miracolo d’amore è stato il nostro apparire nel mondo; ma poi ecco giungere le sofferenze, a volte addolcite da gioie e consolazioni, e quel senso di incompiutezza da far stringere il cuore. E lì, nel suo fondo più intimo, una promessa e una speranza: l’amore. Qualcosa ci ha sempre detto che esiste l’amore, che siamo fatti d’amore, per amare ed essere amati. Un miracolo, occorreva per noi e per ogni uomo un miracolo concreto, che avesse carne e respirasse come noi: Giovanni, la misericordia di Dio, la sua Grazia proprio ora, quando forse tutto sembra remarci contro; non l’abbiamo conosciuta nella carne, non v’è n’è traccia nella storia del mondo. E’ un nome nuovo, l'assoluta novità di uno sguardo posato su Cristo, il Messia capace di salvarci e far bella la nostra vita di oggi: famiglia, lavoro, amicizie, tutto rinnovato perché compiuto nell'amore. Giunge oggi Giovanni, la Parola di Dio per noi oggi. Parla al nostro cuore e ci annuncia la buona notizia che è finita la nostra schiavitù. Ai rapporti malsani inchiodati ai compromessi, al dare e avere d’ogni nostra relazione, ai padri che vorrebbero fare dei propri figli il prolungamento di se stessi, e ai figli schiacciati dall'eredità carnale dei propri genitori. Ecco oggi la buona notizia per le nostre storie che sembrano non aver nulla di nuovo da dire, per gli anziani ormai rassegnati, per i giovani cui il mondo ha sottratto la speranza; per le coppie sedutesi sulla routine, quando il volto del marito e della moglie appaiono ormai come un soprammobile in più; ai preti e religiosi infilatisi, senza accorgersene, nell'accidia che dà spazio ai compromessi e inaridisce lo zelo; ai tanti presi al laccio dell'insoddisfazione che li schiaccia in una continua, sterile, rivendicazione di diritti; a chi non riesce più a vedere la propria vita, e quella di chi è accanto, come un prodigio. Attraverso Giovanni è annunciata oggi a ogni uomo la buona notizia: come "la mano di Dio era su di lui", sigillo della nuova ed eterna alleanza, così la mano del Padre è su di noi, per realizzare qualcosa di assolutamente nuovo, e fare, della nostra vita, una porta spalancata verso il Signore Gesù.
Oggi possiamo guardare la nostra vita con occhi diversi. Dio, infatti, "ha esaltato anche in noi", come in Elisabetta, "la sua misericordia". Si è chinato sulla nostra sterilità e ne ha fatto un prodigio di fecondità. Giovanni è oggi immagine del nostro cuore assetato d’amore, il segno dell’intimo di noi che anela a Cristo. La misericordia attesa e bramata bussa oggi al nostro cuore, Giovanni ce la offre gratuitamente a nome del Messia. Oggi si compiono "i nostri giorni del parto", e tutto di noi brilla di luce nuova: ogni istante del passato trasfigurato nel miracolo d’amore del Signore. Nulla è impossibile a Dio, non vi è sterilità che non possa essere trasformata in fecondità, nessun peccato che non possa essere perdonato. La nostra storia ci ha condotto a quest’oggi di Grazia e di gioia. Tutto in noi, ogni evento e ogni persona apparsi della nostra vita, come doni di Dio, hanno preparato l’incontro con la sua misericordia. Lasciamoci "meravigliare" di fronte all'amore di Dio, ai dettagli che lo avvicinano alle nostre giornate. Come Giovanni, "cresciamo e rafforziamoci nello Spirito", perché ci attende una missione meravigliosa, quando e come Dio vorrà, dove Lui ha già pensato: Annunciare il Messia, l’atteso delle genti. Fin dal grembo materno ci ha chiamati, oggi ce lo rivela. Siamo amati, salvati, redenti, perdonati, e la nostra vita è un vaso attraverso il quale Dio offre al mondo la sua misericordia; per questo, tutto di noi è un prodigio, il più grande, le braccia distese nella consegna di noi stessi per gli altri. Che timore, che gioia! Davvero, “che sarà mai questo bambino?”, che sarà mai la nostra vita? Il Signore, giorno dopo giorno, ce lo rivelerà, ma sappiamo già che giungerà esattamente dove è approdata la vita di Giovanni: a divenire, nel martirio, un segno, una luce che indichi la salvezza, l'Agnello che toglie il peccato del mondo. In famiglia, al lavoro, a scuola, ovunque, questa vita concreta è un prodigio, il segno autentico ed efficace dell'amore che salva ogni "ora", che fa di ogni istante il principio di una novità che riscatta e infonde pace e felicità. Gettiamoci allora, senza paura, nell’avventura che Dio ci ha preparato.
APPROFONDIMENTI
se non ti tieni per lo peggiore di tutti,
e se non desideri di esser posposto a tutti:
perché questo è proprio di quei,
che sono grandi negli occhi di Dio,
essere piccoli negli occhi propri:
e quanto più sono gloriosi innanzi al Signore,
tanto più vili appariscono appresso se medesimi.
S. Teresa d'Avila
Dal Vangelo secondo Matteo 7,1-5.
Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.
IL COMMENTO
Giudicare “krinein”, in greco significa separare setacciando o vagliando. Molto del nostro tempo è passato a vagliare. Pesare con il bilancino ogni parola, ogni atto, ogni sguardo degli altri e di noi stessi, sempre senza misericordia. La parola chiave del Vangelo di oggi è “misura”, ovvero il criterio di Dio nel giudizio: l'unica unità consentita è la misericordia, le viscere materne capaci di rigenerare nell'amore. Essa ha sempre la meglio sul giudizio. Gli occhi di Dio che riflettono un cuore ricolmo d’amore, che dimentica il male, che cerca testardamente il bene.
Lo sguardo di Dio, le sue viscere di misericordia. E le sue parole, di verità, di amorevole correzione, quella d’un Padre che ama davvero suo figlio. Lui ha guardato la trave dinanzi ai suoi occhi, la Croce del Figlio, il peso d’ogni peccato rovesciato sulle sue membra. Il prezzo del nostro riscatto, il suo Figlio fatto peccato per ciascuno di noi. Smettiamola dunque di giudicare una pagliuzza, di setacciare nel prossimo – marito, moglie, figli, genitori, colleghi – ogni sospiro e ogni presunto pensiero. Cercando chissà quale movente, quale ingiustizia, quale disprezzo. Smettiamola di appiccicare i nostri occhi su chi ci sta intorno, e fissiamoli sulla trave che pesa sulle spalle di Cristo. Pesante. Assassina. Il legno sul quale sono incisi i nostri peccati. Fissiamola allora, fissiamola bene, arrossata dal sangue del Signore, fissiamola ancora, vi leggeremo il perdono.
Perchè vi è una risposta, ad ogni peccato: la misericordia. Non accorgersi della trave che abbiamo negli occhi significa non aver conosciuto l’amore di Dio, non aver sperimentato la sua misericordia. Cercare la pagliuzza negli occhi altrui, significa essere stanchi di noi stessi, dei tanti difetti, peccati, stranezze che vorremmo dimenticare. Quelle che non abbiamo saputo accettare, le cadute dove non abbiamo sperimentato il perdono, la pazienza e l’amore di Dio. Giudicare il prossimo senza misericordia è frutto d’un giudizio senza misericordia nei confronti di noi stessi.
Una trave ci salva. La misericordia crocifissa, il documento del nostro debito appeso e annullato. Non sbattiamoci contro la trave, guardiamola senza timore, e lasciamoci amare. Basta ipocrise, vite mascherate che ci trasformano in aguzzin, con noi stessi e con gli altri. Vi è una trave, il peso dei nostri peccati e una misericordia infinita: La misura con la quale siamo stati giudicati, la misura con cui giudicare. La misura dell’ultimo giorno.
La misericordia, il criterio d’ogni discernimento, di ogni legittima, auspicata correzione. In latino cum-regere significa sorreggersi insieme, sostenersi nel cammino. Non si tratta infatti di non giudicare, vivendo come impauriti d’ogni pensiero, incapaci d’ogni valutazione. Attenzione, è facile cadere in un moralismo schiacciante. "Mantenete l'amore e state tranquilli. Perché temi di far male a qualcuno? Chi fa del male a colui che ama? Ama: non può capitare se non che tu faccia del bene. Forse tu riprendi qualcuno? Questo è opera di amore, non di cattiveria" (S. Agostino, Trattato sul Vangelo di Giovanni). La misericordia genera la libertà, ed in essa si possono dire anche le cose più dure, la verità più cruda, rischiando un'amicizia, una relazione, pur di non perdere l'anima del fratello. La misericordia brucia il compromesso affettivo che impedisce di dire la verità, camuffando la paura di perdere la stima dell'altro con una carità che è pura ipocrisia. Quando la misura delle parole, degli sguardi, degli atteggiamenti è la misericordia, le nostre parole, i nostri sguardi, i nostri atti, divengono come un utero nel quale accogliere ogni uomo, un porto sicuro dove chi è debole, chi ha peccato, può trovare riparo dai marosi dell'inganno che ghermiscono la sua vita. "Avrò la certezza che veramente ami il Signore e me, suo servo e tuo, se farai in modo che non ci sia un frate in tutto il mondo che, per quanto abbia peccato, incontrando il tuo sguardo non senta di avere ottenuto il perdono, se lo avrà chiesto. E se non fosse lui a chiedere perdono, tu incoraggialo a chiederlo. E se mille volte si presentasse a te in simile situazione, dimostra per lui più affetto di quanto ne nutri per me stesso. In questo modo ti sarà possibile riportarlo al Signore." (S. Francesco d'Assisi, Lettera ad un ministro).
Condurre a Cristo ogni uomo, marito, figlio, amico che sia; condurlo attraverso la trave che ci ha salvato, la Croce ci unisce a Lui. Non vi è da togliere nessuna pagluizza, non è affar nostro. Vi è solo da amare, sapendoci, istante dopo istante, amati. Infinitamente.
LA SANTITA'
Orando un dì S. Antonio, intese questa voce: Antonio tu non sei ancora giunto alla perfezione di un tal Coriario, ch'è in Alessandria. Andò subito il Santo a trovar colui; e richiestolo dalla sua vita, quegli rispose: Io non so d'aver mai fatto bene alcuno; onde alzato che sono la mattina, dico tra me, che tutta la gente di questa Città si salverà per le sue buone opere, ed io solo mi perderò per li miei peccati; e l'istesso dico pure la sera con tutta sincerità prima d'andare a letto. No, no, ripigliò S. Antonio, tu coll'arte tua t'ha assicurato il Cielo; ed io, come senza discrezione, non sono arrivato alla tua misura.
Nelle vite dei Santi Padri. si narra di un certo Monaco, il quale dando conto del suo interno all'Abate Sisois, disse, che portava quasi di continuo dentro di se la memoria di Dio. L'Abate gli rispose. Questa non è gran cosa: la gran cosa sarebbe se tu vedessi sempre te stesso sotto ogni creatura. Essendo stato ricevuto in un Monastero un uomo principale d'Alessandria, l'Abate, che nel suo aspetto, e da altri segni lo prese per uomo aspro, altiero, e gonfio della vanità del secolo, volle guidarlo per la via sicura dell'Umiltà, e però lo mise alla porteria con ordine di gettarsi a' piedi di tutti quelli, ch'entravano ed uscivano, dicendo, che pregassero Dio per lui, ch'era un peccatore. Ubbidì colui esattamente, e dopo d'essere stato sette anni in quell'esercizio, e di aver acquistata una grande Umiltà, stimò bene l'Abate di fargli prendere l'ordine, ed ammetterlo in compagnia degli altri. Ma egli, ciò inteso, tanto lo pregò e lo scongiurò di lasciarlo in quell'impiego per quel poco tempo, che dicea dovergli restar di vit , che finalmente l'ottenne. E fu indovino, perché dieci giorni dopo se ne morì con gran quiete, e sicurezza della sua salute. Il fatto vien riferito da S. Giovanni Climaco, il quale dicea di aver parlato con quest'uomo; e che avendogli domandato in che si occupasse in tutto quel tempo che stava alla porta; rispose, che tutto il suo esercizio era di riputarsi indegno di stare in quel Monastero, e di godere la compagnia e vista dei Padri, e di neppur alzar gli occhi per guardarli.
Si legge della V. M. Serafina di Dio, che parea non avesse gli occhi, che per guardare ed esagerare i propri difetti, e per ammirare negli altri la loro virtù. Ond'è che quando vedea, che gli altri facessero alcun bene, con gran sentimento dicea: o beati loro! Tutti attendono a servire Iddio fuorché io. E quando ne vedea a' piedi de' Confessori, stima, che d'altro non parlassero, che di Dio; e si rammaricava con se medesima, che altro non andava a dire a quelli, che scelleraggini e peccati. E se mai vedea farsi da alcuno qualche difetto, lo sapea facilmente scusare e compatire. Ed in questa maniera ella sapea mantenersi anche in vista degli altrui mancamenti nel concetto, che di se avea di esser peggiore di tutti.
San Giovanni Climaco (circa 575-circa 650), monaco nel Monte Sinai
La scala santa, 10° grado
« Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello ? »
Sentiti alcuni maledire il prossimo, li ho rimproverati. Per difendersi, questi operatori di iniquità hanno risposto: «Per carità e per sollecitudine parliamo così!» Ho risposto loro: Smettete di praticare simile carità, altrimenti accuserete di menzogna colui che ha detto: «Chi calunnia in segreto il suo prossimo io lo farò perire» (Sal 100,5). Se ami quell'uomo, come dici, prega in segreto per lui e non disprezzarlo. Questo modo di amare piace al Signore; non perdere di vista questo, e applicati con molta cura a non giudicare i peccatori. Giuda era del novero dei discepoli e il ladrone faceva parte dei malfattori, eppure quale cambiamento stupendo in un attimo!...
Rispondi dunque a colui che parla male del prossimo: «Smetti, fratello! Io stesso cado ogni giorno in colpe più gravi; come allora potrei condannare costui? « Ne trarrai un doppio profitto: guarirai te stesso e guarirai il tuo prossimo. Non giudicare è una scorciatoia che conduce prontamente al perdono dei peccati, se è vera questa parola: «Non giudicate e non sarete giudicati»... Alcuni hanno commesso grandi colpe alla vista di tutti, ma hanno compiuto in segreto i più grandi atti di virtù. Così i loro accusatori si sono ingannati attaccandosi solo al fumo senza vedere il sole...
I censori frettolosi e severi cadono in tale inganno perché non conservano il ricordo e il pensiero costante dei propi peccati... Giudicare gli altri, è usurpare senza vergogna una prerogativa divina; condannarli, è rovinare la propria anima... Come un buon vendemmiatore mangia l'uva matura e non coglie l'uva verde, così uno spirito benevolo e sensato nota con cura tutte le virtù che vede negli altri; è insensato invece colui che scruta le colpe e le deficenze.
Doroteo di Gaza ( circa 500- ?), monaco in Palestina
Lettere, 1 ; SC 92, 495
« Poi ci vedrai bene »
Alcune persone convertono in umore cattivo ogni alimento che assorbon anche se questo alimento è sano. La colpa non è dell’alimento, bensì del loro temperamento che altera gli alimenti. Allo stesso modo, se la nostra anima è in una cattiva disposizione, tutto le fa del male; essa trasforma, persino le cose utili per lei in cose nocive. Se si getta un po' di erbe amare in un vaso di miele, non altereranno forse tutto il barattolo, rendendo tutto il miele amaro? È proprio quello che facciamo: diffondiamo un poco della nostra amarezza e distruggiamo il bene del prossimo, guardandolo secondo la nostra cattiva disposizione.
Altre persone invece hanno un temperamento che trasforma ogni cosa in buoni umori, persino gli alimenti cattivi... I porci hanno una buonissima costituzione. Mangiano le carrube, i noccioli di datteri e immondizie. Eppure trasformano questo cibo in una carne succulenta. Anche noi, se abbiamo buone abitudini e un buono stato d’animo, possiamo trarre profitto da tutto, persino da quello che non è utile. Lo dice benissimo il libro dei Proverbi: “Chi guarda con benevolenza otterrà misericordia” (12,13). Ma altrove: “Per l’uomo insensato, ogni cosa è contraria” (14,7).
Ho sentito dire di un fratello che se, recandosi da un altro, trovava la sua cella trascurata e in disordine, diceva dentro di sé : « Quanto è felice questo fratello poiché è totalmente distaccato dalle cose terrene e porta così bene tutto il suo spirito in alto, da non avere più il tempo per riordinare la sua cella!” Se poi andava da un’altro fratello e trovava la sua cella in ordine e pulita, diceva dentro di sé: “La cella di questo fratello è pulita quanto la sua anima. Tale è lo stato della sua anima, tale quello della sua cella!” Mai diceva riguardo a qualcuno: “Questi è disordinato” oppure: “quello è frivolo”. Grazie al suo stato eccellente, traeva profitto da tutto. Dio nella sua bontà dìa anche a noi uno stato d’animo buono perché possiamo godere di tutto e non pensare mai del male del prossimo. Se la nostra malizia ci ispira giudizi o sospetti, trasformiamo presto questi in buoni pensieri. Infatti il non vedere il male del prossimo genera, con l’aiuto di Dio, la bontà.
Beata Teresa di Calcutta (1910-1997), fondatrice delle Suore Missionarie della Carità
A Simple Path
« Non giudicate, per non essere giudicati »
L'amore non è più amore se non è condiviso. Deve essere tradotto nei fatti. Dovete amare senza aspettare nulla in cambio, agire solo per amore e non per un qualsiasi vantaggio che potreste trarne. Se sperate in qualche cosa in cambio, non amate veramente, poiché l'amore vero ama senza condizione, senza secondi fini.
Se sorge una necessità nuova, Dio vi guiderà, come ha guidato coloro che servono i malati del AIDS. Non giudichiamo questi malati, li curiamo senza domandarci cosa sia successo loro, né come si sono ammalati. Credo che Dio ci trasmetta un messaggio insistente riguardo all'AIDS : vuole che non vediamo in questa malattia altro che l'occasione di manifestare il nostro amore. I malati di AIDS forse hanno svegliato un amore pieno di tenerezza in molte persone che l'avevano scacciato fuori dalla loro vita.
APPROFONDIMENTI
LA SANTITA'
Orando un dì S. Antonio, intese questa voce: Antonio tu non sei ancora giunto alla perfezione di un tal Coriario, ch'è in Alessandria. Andò subito il Santo a trovar colui; e richiestolo dalla sua vita, quegli rispose: Io non so d'aver mai fatto bene alcuno; onde alzato che sono la mattina, dico tra me, che tutta la gente di questa Città si salverà per le sue buone opere, ed io solo mi perderò per li miei peccati; e l'istesso dico pure la sera con tutta sincerità prima d'andare a letto. No, no, ripigliò S. Antonio, tu coll'arte tua t'ha assicurato il Cielo; ed io, come senza discrezione, non sono arrivato alla tua misura.
Nelle vite dei Santi Padri. si narra di un certo Monaco, il quale dando conto del suo interno all'Abate Sisois, disse, che portava quasi di continuo dentro di se la memoria di Dio. L'Abate gli rispose. Questa non è gran cosa: la gran cosa sarebbe se tu vedessi sempre te stesso sotto ogni creatura. Essendo stato ricevuto in un Monastero un uomo principale d'Alessandria, l'Abate, che nel suo aspetto, e da altri segni lo prese per uomo aspro, altiero, e gonfio della vanità del secolo, volle guidarlo per la via sicura dell'Umiltà, e però lo mise alla porteria con ordine di gettarsi a' piedi di tutti quelli, ch'entravano ed uscivano, dicendo, che pregassero Dio per lui, ch'era un peccatore. Ubbidì colui esattamente, e dopo d'essere stato sette anni in quell'esercizio, e di aver acquistata una grande Umiltà, stimò bene l'Abate di fargli prendere l'ordine, ed ammetterlo in compagnia degli altri. Ma egli, ciò inteso, tanto lo pregò e lo scongiurò di lasciarlo in quell'impiego per quel poco tempo, che dicea dovergli restar di vit , che finalmente l'ottenne. E fu indovino, perché dieci giorni dopo se ne morì con gran quiete, e sicurezza della sua salute. Il fatto vien riferito da S. Giovanni Climaco, il quale dicea di aver parlato con quest'uomo; e che avendogli domandato in che si occupasse in tutto quel tempo che stava alla porta; rispose, che tutto il suo esercizio era di riputarsi indegno di stare in quel Monastero, e di godere la compagnia e vista dei Padri, e di neppur alzar gli occhi per guardarli.
Si legge della V. M. Serafina di Dio, che parea non avesse gli occhi, che per guardare ed esagerare i propri difetti, e per ammirare negli altri la loro virtù. Ond'è che quando vedea, che gli altri facessero alcun bene, con gran sentimento dicea: o beati loro! Tutti attendono a servire Iddio fuorché io. E quando ne vedea a' piedi de' Confessori, stima, che d'altro non parlassero, che di Dio; e si rammaricava con se medesima, che altro non andava a dire a quelli, che scelleraggini e peccati. E se mai vedea farsi da alcuno qualche difetto, lo sapea facilmente scusare e compatire. Ed in questa maniera ella sapea mantenersi anche in vista degli altrui mancamenti nel concetto, che di se avea di esser peggiore di tutti.
San Giovanni Climaco (circa 575-circa 650), monaco nel Monte Sinai
La scala santa, 10° grado
« Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello ? »
Sentiti alcuni maledire il prossimo, li ho rimproverati. Per difendersi, questi operatori di iniquità hanno risposto: «Per carità e per sollecitudine parliamo così!» Ho risposto loro: Smettete di praticare simile carità, altrimenti accuserete di menzogna colui che ha detto: «Chi calunnia in segreto il suo prossimo io lo farò perire» (Sal 100,5). Se ami quell'uomo, come dici, prega in segreto per lui e non disprezzarlo. Questo modo di amare piace al Signore; non perdere di vista questo, e applicati con molta cura a non giudicare i peccatori. Giuda era del novero dei discepoli e il ladrone faceva parte dei malfattori, eppure quale cambiamento stupendo in un attimo!...
Rispondi dunque a colui che parla male del prossimo: «Smetti, fratello! Io stesso cado ogni giorno in colpe più gravi; come allora potrei condannare costui? « Ne trarrai un doppio profitto: guarirai te stesso e guarirai il tuo prossimo. Non giudicare è una scorciatoia che conduce prontamente al perdono dei peccati, se è vera questa parola: «Non giudicate e non sarete giudicati»... Alcuni hanno commesso grandi colpe alla vista di tutti, ma hanno compiuto in segreto i più grandi atti di virtù. Così i loro accusatori si sono ingannati attaccandosi solo al fumo senza vedere il sole...
I censori frettolosi e severi cadono in tale inganno perché non conservano il ricordo e il pensiero costante dei propi peccati... Giudicare gli altri, è usurpare senza vergogna una prerogativa divina; condannarli, è rovinare la propria anima... Come un buon vendemmiatore mangia l'uva matura e non coglie l'uva verde, così uno spirito benevolo e sensato nota con cura tutte le virtù che vede negli altri; è insensato invece colui che scruta le colpe e le deficenze.
Doroteo di Gaza ( circa 500- ?), monaco in Palestina
Lettere, 1 ; SC 92, 495
« Poi ci vedrai bene »
Alcune persone convertono in umore cattivo ogni alimento che assorbon anche se questo alimento è sano. La colpa non è dell’alimento, bensì del loro temperamento che altera gli alimenti. Allo stesso modo, se la nostra anima è in una cattiva disposizione, tutto le fa del male; essa trasforma, persino le cose utili per lei in cose nocive. Se si getta un po' di erbe amare in un vaso di miele, non altereranno forse tutto il barattolo, rendendo tutto il miele amaro? È proprio quello che facciamo: diffondiamo un poco della nostra amarezza e distruggiamo il bene del prossimo, guardandolo secondo la nostra cattiva disposizione.
Altre persone invece hanno un temperamento che trasforma ogni cosa in buoni umori, persino gli alimenti cattivi... I porci hanno una buonissima costituzione. Mangiano le carrube, i noccioli di datteri e immondizie. Eppure trasformano questo cibo in una carne succulenta. Anche noi, se abbiamo buone abitudini e un buono stato d’animo, possiamo trarre profitto da tutto, persino da quello che non è utile. Lo dice benissimo il libro dei Proverbi: “Chi guarda con benevolenza otterrà misericordia” (12,13). Ma altrove: “Per l’uomo insensato, ogni cosa è contraria” (14,7).
Ho sentito dire di un fratello che se, recandosi da un altro, trovava la sua cella trascurata e in disordine, diceva dentro di sé : « Quanto è felice questo fratello poiché è totalmente distaccato dalle cose terrene e porta così bene tutto il suo spirito in alto, da non avere più il tempo per riordinare la sua cella!” Se poi andava da un’altro fratello e trovava la sua cella in ordine e pulita, diceva dentro di sé: “La cella di questo fratello è pulita quanto la sua anima. Tale è lo stato della sua anima, tale quello della sua cella!” Mai diceva riguardo a qualcuno: “Questi è disordinato” oppure: “quello è frivolo”. Grazie al suo stato eccellente, traeva profitto da tutto. Dio nella sua bontà dìa anche a noi uno stato d’animo buono perché possiamo godere di tutto e non pensare mai del male del prossimo. Se la nostra malizia ci ispira giudizi o sospetti, trasformiamo presto questi in buoni pensieri. Infatti il non vedere il male del prossimo genera, con l’aiuto di Dio, la bontà.
Beata Teresa di Calcutta (1910-1997), fondatrice delle Suore Missionarie della Carità
A Simple Path
« Non giudicate, per non essere giudicati »
L'amore non è più amore se non è condiviso. Deve essere tradotto nei fatti. Dovete amare senza aspettare nulla in cambio, agire solo per amore e non per un qualsiasi vantaggio che potreste trarne. Se sperate in qualche cosa in cambio, non amate veramente, poiché l'amore vero ama senza condizione, senza secondi fini.
Se sorge una necessità nuova, Dio vi guiderà, come ha guidato coloro che servono i malati del AIDS. Non giudichiamo questi malati, li curiamo senza domandarci cosa sia successo loro, né come si sono ammalati. Credo che Dio ci trasmetta un messaggio insistente riguardo all'AIDS : vuole che non vediamo in questa malattia altro che l'occasione di manifestare il nostro amore. I malati di AIDS forse hanno svegliato un amore pieno di tenerezza in molte persone che l'avevano scacciato fuori dalla loro vita.
a) La pagliuzza e la trave
Gesù, con un fermo imperativo, proibisce ai suoi discepoli di giudicarsi l'un l'altro: «Non giudicate, per non essere giudicati» (Mt 7,1). Chi giudica gli altri si crede superiore e migliore di loro. Così si arroga un diritto sugli altri che non gli appartiene. Il giudizio appartiene a Dio. Nella comunità, i fratelli non si affrettano a giudicare e condannare chi pecca. Confidano nella grazia di Dio che dà a tutti il tempo per la conversione: «Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell'a-dempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,8-9). Che il giudizio appartiene a Dio e non a noi, lo ricorda Paolo ai fedeli della comunità di Corinto: «Non vogliate per-ciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio»(1Cor 4,5). Anche ai Romani scrive: «Ma tu, perché giudichi il
tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi il tuo fratello? Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio, poiché sta scritto: Come è vero che io vivo, dice il Signore, ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua renderà gloria a Dio. Quindi ciascuno di noi renderà conto a Dio di se stesso. Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non esser causa di inciampo o di scandalo al fratello» (Rm 14,10-13). Con la parabola del grano e della zizzania, Gesù torna ad invitarci a lasciare il giudizio a Dio (Mt 13,24-30). Chi entra nel suo foro interiore e contempla il proprio peccato non giudica gli altri. E se giudica gli altri li giudica con benevolenza, «considerando gli altri superiori a se stesso» (Fil 2,3). Il salmista detesta il giudizio dell'empio mentre accetta la correzione del giusto: «Mi percuota il giusto e il fedele mi rimproveri, ma l'olio dell'empio non profumi il mio capo» (Sal 141,5). La correzione del giusto è rivestita di misericordia, poiché corregge e riprende per invitare alla salvezza. Il rimprovero dell'empio e del peccatore, invece, non cerca di sanare, ma di ferire. Nel Sermone della Montagna, segue una sentenza sapienziale per rafforzare la proibizione del giudizio: non giudicate «perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7,2). La sentenza si può esprimere in tanti modi, usando le più diverse immagini: chi scava una fossa per gli altri vi cade dentro; nella pentola in cui cuoce gli altri viene cotto lui; con la bilancia con cui pesa gli altri pesano lui. O con l'esempio di Assalonne: era orgoglioso della sua capigliatura e vi restò appeso. Il salmo riprende questa dottrina, dicendo: «Non torna forse ad affilare la spada, a tendere e puntare il suo arco? Si prepara strumenti di morte, arroventa le sue frecce. Ecco, l'empio produce ingiustizia, concepisce malizia, partorisce menzogna. Egli scava un pozzo profondo e cade nella fossa che ha fatto; la sua malizia ricade sul suo capo, la sua violenza gli piomba sulla testa» (Sal 7,13-17). E la sorte di Aman, giustiziato sulla forca che aveva preparata per Mardocheo (Est 7,10). Chi osa giudicare gli altri non deve mai dimenticare che anche lui comparirà davanti al tribunale divino. E tutti siamo colpevoli, bisognosi di misericordia, poiché «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia» (Rm 11,32). È forse impossibile evitare il giudizio tra i fratelli che vivono in comunità. Conoscere il fratello è frutto della comunione. Scoprire le fragilità degli altri è un invito non al rifiuto o alla condanna, ma a «sopportare l'infermità dei deboli» (Rm15,1), «portando i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2). E, soprattutto, aiuta a giudicare con misericordia la conoscenza di se stesso. Chi conosce le sue debolezze e fragilità sa comprendere quelle degli altri. Chi è sceso nelle profondità del suo cuore e sa che è vivo per grazia di Dio, come potrà non essere comprensivo con i difetti dei suoi fratelli? San Paolo, che nella sua vita di fariseo aveva giudicato e condannato gli altri con tanta facilità, una volta toccato dalla grazia di Cristo, scrive: «Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio?» (Rm 2,1-3). La differenza che c'è tra una pagliuzza e una di quelle travi che sostengono il tetto delle case è la stessa che esiste tra il difetto altrui e quello proprio. Ma noi non vediamo il nostro, benché sia grande come una trave, mentre vediamo, invece, quello altrui, benché sia piccolo come una pagliuzza. Quando si giudica è facile usare due misure: una per se stesso e un'altra per gli altri. Siamo soliti fissare la nostra attenzione sulla pagliuzza nell'occhio di quanti ci vivono accanto e, tuttavia, siamo ciechi per vedere l'enorme trave conficcata nel nostro occhio. Gesù, che non vuole che tra fratelli ci siano giudizi né condanne, ci dice: «Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? 0 come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello» (Mt 7,3-5). Ai farisei che condannano l'adultera, Gesù dice: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7). Sant'Agostino, in un sermone sul salmo cinquanta, commenta: «Davide ha confessato: riconosco la mia colpa (Sal 50,5). Se io riconosco, tu perdona [...] Gli uomini senza speranza, quanto meno prestano attenzione ai propri peccati, tanto più si occupano dei peccati degli altri. In realtà non cercano di correggere, ma di condannare. E poiché non possono scusare se stessi, accusano gli altri. Non è questo il modo di pregare e chiedere perdono a Dio, secondo quanto ci insegna il salmi-sta, quando esclama: riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi (Sal 50,5)». L'occhio vede quello che ha davanti a sé, ma non vede se stesso. Questo è il problema. Vediamo il più piccolo difetto del prossimo, ma quanto ci costa scoprire l'abisso di cattiveria dentro di noi! Solo una continua e ripetuta esperienza del perdono può aprirci gli occhi dello spirito per guardarci den-tro e riconoscere il proprio peccato. Nel CREDO confessiamo: Credo nel perdono dei peccati. L'ordine della frase è corretto. Prima si crede nel perdono e solo dopo nel peccato. Dove non c'è perdono, si cerca di giustificare tutto, incolpando sempre gli altri. Anche nell'esperienza comunitaria è importante guardare gli altri come specchio della nostra interiorità. Ciò che inizialmente non vediamo in noi lo vediamo subito negli altri. Ciò che giustifichiamo in noi forse non lo accettiamo negli altri. Così il giudizio degli altri diventa giudizio su di noi. In que-sto modo passiamo dalla condanna dell'altro alla riconoscen-za perché mi aiuta a conoscermi e a situarmi sotto la grazia di Gesù Cristo, che non è venuto a cercare i giusti, ma i peccatori (Mt 19,13). Gesù, che ci invita a «essere perfetti come è perfetto il Padre» (Mt 5,48), cioè «misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36), desidera che il nostro occhio sia limpido e luminoso per guardare il fratello con la stessa luce con cui lo guarda il Padre buono e misericordioso. Chi ha visto la trave immensa che lo acceca e ha sperimentato il perdono e la misericordia di Dio non avrà difficoltà a vedere con pietà la pagliuzza del fratello e a perdonarlo. Gesù non si limita a inculcarci l'amore per il prossimo giudicandolo con misericordia. Questa è certamente la prima cosa, «perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio» (Gc 2,12). Gesù desidera che scopriamo la trave che abbiamo piantata nel nostro occhio. Chi non vede i propri difetti è definito ipocrita, poiché vive nella menzogna. «Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!» (Mt 15,14).
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