Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

mercoledì 30 aprile 2014

"Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna"

Mercoledì della II settimana del Tempo Pasquale




L'ANNUNCIO
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna.
Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è gia stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie.
Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio.  (Dal Vangelo secondo Giovanni 3, 16-21)

"Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna"



In mezzo a tante chiacchiere sulla moralità e la giustizia, il Vangelo di oggi ci inchioda tutti alla verità: le nostre opere in chi sono fatte? Scrive San Giacomo che la fede senza le opere è morta. Per dire che se non si esplicita in un agire concreto è una fede senza vita, ferma a uno stadio intellettuale o pseudo-mistico, ma priva del soffio dello Spirito. E "chi non crede è già condannato": chi rifiuta la Grazia celeste della fede, dimora lontano da Dio e "rimane nelle tenebre" che avvolgono un condannato, obbligato in una cella due metri per due, lo spazio angusto nel quale strozziamo relazioni piene d'egoismo. Chi non crede è condannato a cercare vita in cisterne screpolate e senz'acqua, obbligato a darsi sempre più piacere, a soddisfare parossisticamente esigenze vecchie e nuove, perché il male non sazia mai, affama sino a uccidere. Nel Vangelo di Giovanni fede e opere quasi coincidono: l’opera per eccellenza, infatti, è credere. E’ l’opera "fatta in Dio", che spalanca le porte della vita alla luce. Credere è appoggiarsi, credere è rimanere nel SignoreTutto nel Vangelo di Giovanni conduce a una relazione di intimità con Gesù. Vedere è credere, e credere è essere uniti profondamente e indissolubilmente a Lui. Credere in Cristo coincide con l'essere in Lui. In Giovanni non v’è nulla di gnostico, intellettuale o ideale. Giovanni è concretissimo, nelle note storiche di cui si serve per il suo vangelo, come nel mostrare la relazione di Gesù con i suoi discepoli. Il discepolo amato appare come colui che riposa sul petto di Gesù, e ne percepisce i sentimenti più profondi sino ad identificarvisi. E credere significa anche vedere Gesù dove non lo si vede più nella carne, nei momenti bui dell’esistenza, dove neanche un briciolo di sentimento può consolare. Nella solitudine della notte, dove ragione e sentire non rispondono all’appello, camminare illuminati dalla sola fede, dall’intimità che supera ogni barriera, come una madre che ha il figlio in guerra e non sa se sia vivo oppure no, che non riceve lettere e notizie, ma che non per questo smette di amarlo, anzi, nella totale incertezza, nella precarietà che fagocita tutto, l’amore si moltiplica a dismisura rompendo gli argini del tempo e dello spazio. Questo amore è, per Giovanni, la fede. Esso sgorga dal cuore di Dio rivelato nel dono del suo unigenito Figlio. L’amore di Dio che cerca ogni uomo per attirarlo a sé attraverso la Croce innalzata di Gesù. Guardare Cristo crocifisso, fissare quell’amore trafitto dai miei peccati, restarne coinvolto perché Lui si è legato a me al punto di farsi peccato, di lasciarsi stritolare dalle conseguenze dei miei delitti; guardare Cristo crocifisso e vedere l’amore di Dio per me: questa è la fede. La fede sulla terra è un Padre che sacrifica suo Figlio, come Abramo con Isacco; la fede è lasciare tutto di noi a Dio, sacrificare, fare sacra la nostra vita sul Moria che ci attende, anche l'affetto più grande, anche la stessa opera di Dio in noi, per incontrare il suo Autore e lasciarsi accogliere nell'intimità della sua misericordia. Credere che l’amore che ho sempre sperato è possibile, è ora qui davanti ai miei occhi. Credere è lasciarmi amare e perdonare. Credere è smettere di discutere, giustificarmi, scappare alla ricerca di rifugi ipocriti e alienanti. Credere è abbandonare ogni pretesa di autosufficenza e autogiustificazione e lasciarmi giudicare dal giudizio di Dio, sempre misericordioso. Credere è consegnarmi oggi alla giustizia divina, al fuoco d’amore acceso sulla Croce. Credere è immergersi nell’amore per vedere la mia vita trasformata in amore. Nessuna condanna per chi è amato: "Proprio per la fede nell’amore sovrabbondante donatoci in Cristo Gesù, noi sappiamo che anche la più piccola forza di amore è più grande della massima forza distruttrice e può trasformare il mondo, e per questa stessa fede noi possiamo avere una "speranza affidabile", quella nella vita eterna e nella risurrezione della carne" (Benedetto XVI). Così, in chi crede tutto viene alla luce perché tutto risplende dall’interno come nelle icone orientali, di una luce nuova e celeste, quella della vita divina che ha preso possesso di lui. In una famiglia che ha fede nulla resta nascosto, vi è limpidezza e libertà nei rapporti, fiducia nell'opera di Dio in ciascuno. Anche se ci sono crisi e scontri, liti e problemi, tutto viene estratto dal buio della menzogna per risplendere alla luce della Verità. Ciò significa che, anche se la carne continua a offrire i suoi parametri per guardare e giudicare l'altro, la luce della fede li smaschera uno ad uno, ricollocando ciascuno nella Verità dell'amore. La fede, infatti, ci conduce sul cammino della retta intenzione, ci libera dalla schiavitù al nostro io, anche se restiamo deboli e peccatori. Gli errori e i peccati ci fanno male, ma non hanno più il potere di cancellare la speranza, perché la fede tiene sempre aperto lo spiraglio a una nuova possibilità, all'opera della Grazia che riconduce, piano piano, al compimento della volontà di Dio. Se abbiamo fede guardiamo agli altri cercando l'opera di Dio e non l'opera, fragile e corruttibile, dell'uomo. La fede ci schiude lo sguardo per scoprire nel marito, nella moglie, nei figli, in ciascun uomo, il Figlio che il Padre ci dà per salvarci e sperimentare il suo amore. Non c'è più giudizio e condanna, ma solo amore gratuito, nei riguardi di ogni parola e gesto di chi ci è accanto! Anche quando ci facciamo del male, sì, anche allora, è celato il Figlio, è vivo Cristo che il Padre ci dona per essere accolto nella fede e sperimentare, in ogni evento, la Vita eterna, l'amore oltre la morte e il peccato. Che famiglie, che matrimoni, che fidanzamenti, che amicizie quando si cammina insieme nella Chiesa che ci gesta alla fede! Essa, infatti, trasfigura l’esistenza, e la rende un luogo dove oltrepassare la barriera del peccato; ovunque e con chiunque, come il "vento" che abbraccia tutto senza condizioni. E’ vero che portiamo l’esperienza dell’incredulità, della chiusura alla Grazia. Tante volte abbiamo preferito le tenebre dei nostri sotterfugi, dei nostri desideri, delle nostre concupiscenze, dei nostri progetti da portare a termine a tutti i costi. E’ vero che le nostre opere erano malvage, figlie del principe delle tenebre e della menzogna. E’ vero che abbiamo tanto giudicato perchè il nostro cuore non aveva conosciuto la misericordia, ma solo il duro giogo del moralismo e dell’ipocrisia. E’ vero che siamo dei poveri peccatori. Ma proprio per noi sono le parole del Vangelo di oggi, per noi è l’amore infinito di Dio. Ora. Lasciamoci allora abbracciare da Gesù, così come siamo, fissiamo il Suo sguardo che non ci giudica, che desidera solo di farci una cosa con Lui. Desidera la nostra felicità, essere in Lui e Lui in noi, rimanere da ora e per l’eternità nel Suo amore.



APPROFONDIMENTI



MISTERO PASQUALE


Giovanni Paolo II:L’amore misericordioso di Dio si rivela pienamente e definitivamente nel Mistero pasquale.
Paolo VI. Il Mistero Pasquale
H. U. Von Balthasar. Mysterium Paschale. La Consegna
J. Ratzinger. La fede nella Risurrezione
J Jeremias La Pasqua
Mons. Caffarra. Testi sulla Pasqua
La pasqua dei primi secoli
Sant''Agostino. "Fides christianorum resurrectio Christi est"
Catechesi di Giovanni Paolo II sulla Resurrezione
Meditazione di Don Divo Barsotti sulla Pasqua
Ignace DE LA POTTERIE. Testi sulla Risurrezione di Gesù in Giovanni
La Pasqua dell''ebreo Gesù
I giorni della Pasqua

J Jeremias La Pasqua
Ratzinger - Benedetto XVI. Meditazione sulla La Pasqua
Tutti i passi della storia varcano il sepolcro vuoto
Meditazione di Don Divo Barsotti sulla Pasqua
Mons. Caffarra. Testi sulla Pasqua
J. Galot. Il sepolcro vuoto: Da piccoli indizi, lo stupore della fede
LA TOMBA VUOTA E LA SINDONE DI TORINO
Presenza di Maria nel mistero pasquale
tomba vuota e panni sepolcrali
Padre Raniero Cantalamessa. La storicità della risurrezione di Cristo
Sant''Agostino. "Fides christianorum resurrectio Christi est"
Marc Chagall. Il mistero della Pasqua

A. Socci. Ipotesi su Gesù e la sua resurrezione.
Don Giussani: Cristo contro il nulla
Paul O’Callaghan. Resurrezione. Teologia
LE APPARIZIONI «UFFICIALI» DEL RISORTO AL GRUPPO APOSTOLICO (GV 20,19-31)


αποφθεγμα Apoftegma



L'amore appassionato di Dio per il suo popolo — per l'uomo —
è nello stesso tempo un amore che perdona.
Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso,
il suo amore contro la sua giustizia.
Il cristiano vede, in questo, 
già profilarsi velatamente il mistero della Croce:
Dio ama tanto l'uomo che, facendosi uomo Egli stesso,
lo segue fin nella morte
e in questo modo riconcilia giustizia e amore.

Benedetto XVI, Deus caritas est

martedì 29 aprile 2014

Apocalisse 1,5b-8


La lectio quotidiana 

Apocalisse 1,5b-8



Apocalisse 1,5b-8



Da www.famigliedellavisitazione.it

La lectio quotidiana

Apocalisse 1,5b-8
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue,
6 che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, 

a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
7 Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà,
anche quelli che lo trafissero,
e per lui tutte le tribù della terra
si batteranno il petto.
Sì, Amen!
8 Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, 

Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!


La parola che oggi il Signore ci regala esordisce con la breve e incisiva memoria dell’opera di Dio per noi e in noi. E questo, con la premessa fondamentale. Il Signore è “Colui che ci ama”! E’ bello accogliere queste parole come una “definizione” della persona di Gesù: noi lo conosciamo così! Come appunto “Colui che ci ama”, senza limiti e senza condizioni! Con altrettanta incisività viene ricordata la sua opera per noi: Egli “ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue”! Il suo sacrificio d’amore “è” la nostra liberazione dai nostri peccati. Noi siamo “costituzionalmente” dei “liberati”. Quindi, come Lui è Colui che ci ama, così noi siamo i liberati dai nostri peccati con il suo sangue.

E così Egli “ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre” (ver.6). Noi, liberati dai nostri peccati con il suo sangue, costituiamo una comunità regale e sacerdotale. Questi due attributi dicono la condizione e il compito essenziale di questa piccola comunità, e cioè l’annuncio e la testimonianza della regalità divina, e il compito sacerdotale di mediazione tra Dio e l’intera umanità. Perché quello che è avvenuto a noi e per noi, deve essere comunicato e dato all’intera comunità umana. Perché questo è il progetto divino di salvezza dell’umanità, anzi di tutta la creazione. Tale è la sua gloria e la sua potenza nei secoli dei secoli, conclude il ver.6.
Non si tratta solo di una notizia, né di una dottrina, ma è un evento: “Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero” . Ricordiamo il compimento della profezia di Zaccaria 12,10 nel racconto della passione di Gesù in Giovanni 19,37: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”. E l’estensione universale della salvezza:” … per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto”: la salvezza di tutta l’umanità! Il ver.8 esplicita l’opera divina come il nome stesso di Dio in Gesù: “Io sono l’Alfa e l’Omega”: la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, per dire il principio e la fine di tutto quello che si può dire e scrivere. “Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!”: pienezza dell’ ”Io sono” rivelato da Dio a Mosè in Esodo 3,13-15. Tutta la creazione e tutta la storia visitate e salvate da Dio.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.

"E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna"

Martedì della II settimana del Tempo Pasquale


L'ANNUNCIO

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito».
Gli replicò Nicodèmo: «Come può accadere questo?». Gli rispose Gesù: «Tu sei maestro di Israele e non conosci queste cose? In verità, in verità io ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». (Dal Vangelo secondo Giovanni 3, 7-15)



"E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna"


Eccoci smascherati. Come Nicodemo ci consideriamo maestri, e non conosciamo il Mistero capace di far nuova la vita. Nicodemo è religioso. Nicodemo ha studiato. Ma non riconosce il soffio dello Spirito. Ne sente la voce, ma è avvolto nella notte, non comprende da dove venga e dove vada. Lo Spirito infatti soffia dove vuole, non lo si può catalogare, per quanto si voglia e si cerchi, libri e cultura alla mano. Sfugge come il vento, i suoi cammini non sono quelli degli uomini. Carne e sangue non hanno in sè la capacità per decifrarne le traiettorie, esse seguono ritmi e tempi che trascendono limiti e criteri incatenati alla terra. Il vento è libertà, perchè lo Spirito è libertà. Le stesse cose della terra, illuminate dalla Verità annunciata dal Signore, l'identità compiuta dell'uomo e della creazione, il senso primo e ultimo della storia, sono come muri su cui si infrange l'incredulità. L'inganno del demonio ha ridisegnato la realtà, e ciò che è naturale e adeguato all'uomo è diventato innaturale e inadeguato, mentre la menzogna che genera pensieri, criteri e atti contro natura ci appare come verità incontrovertibile. I rapporti e gli affetti, il lavoro, la sessualità, tutto è governato dalla superficialità soffocante delle passioni, dei desideri, dei sentimenti. La carne ed il sangue si sono appropriati delle esistenze e le muovono come fossero burattini. Il "sentire" qualcosa è divenuto il dittatore inattaccabile d'ogni decisione e comportamento. Se non si "sente" qualcosa, non la si fa. E così il sangue e la carne sprovvisti dello Spirito di vita descrivono, senza pietà, il perimetro angusto e schiavizzante delle nostre ore. E' il buio della notte di Nicodemo, comune a quella di ciascuno di noi. Maestri sì, ma carnali. Esperti certo, ma di istinti e passioni. E non si tratta solo di quelle sfrenate e immediatamente peccaminose; si tratta anche di quelle che muovono le attenzioni di una madre, l'affetto di un marito, l'amicizia e molto altro. Siamo preti, adulti, madri e padri, ma secondo la carne, incapaci di riconoscere nei figli, carne della nostra carne, l'opera dello Spirito. Dobbiamo rinascere dall'alto, uno sguardo nuovo che sgorghi da un cuore nuovo, celeste, capace di trafiggere l'apparenza per vedere la realtà spirituale celata nella carne. Un figlio nella situazione peggiore è già amato da Dio; in lui, come in un matrimonio in crisi, è già all'opera Cristo risorto! Ma occorre scendere, umiliarsi e accogliere il discernimento dello Spirito che tracima e spiazza. Il vento è movimento, disintallazione, indica sempre un di piùun più in là che non possiamo afferrare e gestire. Il vento è la libertà di Dio, quell'amore che ama oltre ogni misura, che si piega sui peccatori più peccatori, che si commuove e ha compassione della pecora più sperduta. E' la follia di Dio, che abbraccia l'universo senza condizionamenti. Il vento non si fa ingabbiare dagli schemi atrofizzati, dai piani pastorali, dalle riunioni di condominio, dalle sentenze dei tribunali. Il vento irrompe quando e dove non ce lo aspettiamo, scende dal Cielo e colma di Cielo la terra. Lo Spirito è lo stesso Signore che discende da lassù, dal cuore stesso di Dio per innalzare, nella sua Croce gloriosa, la terra sin dentro quel cuore: "La vita eterna ci è stata aperta dal Mistero Pasquale di Cristo e la fede è la via per raggiungerla. E’ quanto emerge dalle parole rivolte da Gesù a Nicodemo e riportate dall’evangelista Giovanni: E come Mosè innalzò il serpente nel deserto... Qui vi è l’esplicito riferimento all’episodio narrato nel libro dei Numeri (21,1-9), che mette in risalto la forza salvifica della fede nella parola divina. Durante l’esodo, il popolo ebreo si era ribellato a Mosè e a Dio, e venne punito con la piaga dei serpenti velenosi. Mosè chiese perdono, e Dio, accettando il pentimento degli Israeliti, gli ordina: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque dopo esser stato morso lo guarderà, resterà in vita». E così avvenne. Gesù, nella conversazione con Nicodemo, svela il senso più profondo di quell’evento di salvezza, rapportandolo alla propria morte e risurrezione: il Figlio dell’uomo deve essere innalzato sul legno della Croce perché chi crede in Lui abbia la vita. San Giovanni vede proprio nel mistero della Croce il momento in cui si rivela la gloria regale di Gesù, la gloria di un amore che si dona interamente nella passione e morte. Così la Croce, paradossalmente, da segno di condanna, di morte, di fallimento, diventa segno di redenzione, di vita, di vittoria, in cui, con sguardo di fede, si possono scorgere i frutti della salvezza" (Benedetto XVI)Così la Croce, quella di ogni giorno contro la quale lottiamo credendo di far cosa giusta, saggia e ragionevole, è invece il sigillo evidente dell'irruzione dello Spirito. La Croce stravolge il piatto e incolore incedere del mondo incatenato alla carne. La Croce strappa dalle consuetudini radicate, impermeabili alla novità sconvolgente di Dio. La Croce innalza sino al cuore di Dio, al suo amore. La Croce è l'abitacolo dello Spirito, è lei che spira ai quattro angoli sdel mondo, che scende nelle profondità occulte delle angosce e dell'inferno del peccato. E' lei che si estende oltre ogni barriera a est e a ovest, a nord e a sud, abbracciando nella misericordia chiunque incontri, amici e nemici. E' la Croce che catapulta le nostre esistenze alla destra di Dio. Crocifissi con Cristo ora e qui siamo misteriosamente avvinti al suo stesso Spirito, ne riconosciamo le orme che spingono all'amore più folle; liberati perchè crocifissi nel cuore di Dio possiamo vivere la vita su questa terra come un anticipo del Cielo, dove tutto ci appare nella luce della Verità, il Destino incorruttibile che ci attende. In questa luce si dirada la notte dell'incredulità che ci rende idolatri e inginocchiati innanzi alle creature, e possiamo alzare lo sguardo nella contemplazione del Creatore, della sua volontà d'amore che pervade ogni istante, ogni persona, ogni evento. Crocifissi con Cristo gustiamo la sua stessa libertà, come pecore miti e docili riconosciamo la voce del Pastore buono e possiamo porci alla sua sequela, nella meravigliosa avventura della vita immersa nel compimento della sua volontà.


APPROFONDIMENTI



MISTERO PASQUALE


Giovanni Paolo II:L’amore misericordioso di Dio si rivela pienamente e definitivamente nel Mistero pasquale.
Paolo VI. Il Mistero Pasquale
H. U. Von Balthasar. Mysterium Paschale. La Consegna
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La pasqua dei primi secoli
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Catechesi di Giovanni Paolo II sulla Resurrezione
Meditazione di Don Divo Barsotti sulla Pasqua
Ignace DE LA POTTERIE. Testi sulla Risurrezione di Gesù in Giovanni
La Pasqua dell''ebreo Gesù
I giorni della Pasqua

J Jeremias La Pasqua
Ratzinger - Benedetto XVI. Meditazione sulla La Pasqua
Tutti i passi della storia varcano il sepolcro vuoto
Meditazione di Don Divo Barsotti sulla Pasqua
Mons. Caffarra. Testi sulla Pasqua
J. Galot. Il sepolcro vuoto: Da piccoli indizi, lo stupore della fede
LA TOMBA VUOTA E LA SINDONE DI TORINO
Presenza di Maria nel mistero pasquale
tomba vuota e panni sepolcrali
Padre Raniero Cantalamessa. La storicità della risurrezione di Cristo
Sant''Agostino. "Fides christianorum resurrectio Christi est"
Marc Chagall. Il mistero della Pasqua

A. Socci. Ipotesi su Gesù e la sua resurrezione.
Don Giussani: Cristo contro il nulla
Paul O’Callaghan. Resurrezione. Teologia
LE APPARIZIONI «UFFICIALI» DEL RISORTO AL GRUPPO APOSTOLICO (GV 20,19-31)


αποφθεγμα Apoftegma



Adamo aveva perduto il paradiso terrestre.
In lacrime lo cercava: 
Paradiso mio, paradiso mio, paradiso meraviglioso!
Ma il Signore nel suo amore gli fece dono, sulla croce,
di un paradiso migliore di quello perduto,
un paradiso celeste 
dove rifulge la luce increata della santa Trinità.

Silvano del Monte Athos

lunedì 28 aprile 2014

Papa Francesco: Un tweet inedito,/S. Giovanni Paolo II,,Il giorno dopo.



Papa Francesco: “L’inequità è la radice dei mali sociali” ... un tweet  inedito?

(Luis Badilla) Il tweet che Papa Francesco ha lanciato oggi dice: “L’inequità è la radice dei mali sociali”. Si tratta di un tweet piuttosto inedito. Se si escludono i tweet con i quali il Papa ha scelto di fare riferimento ad eventi dolorosi accaduti in alcuni Paesi, dagli oltre 310 che ha proposto dall'inizio del suo pontificato questo di oggi è l'unico senza un riferimento squisitamente religioso o ecclesiale. E' un testo che potrebbe rientrare nella categoria dei temi sociologici e politici che nell'ambito della promozione umana e della dottrina sociale della Chiesa attirano fortemente la pastorale di Papa Francesco.
Per il Papa certamente non è un tema nuovo. La questione dell'inequità sociale si trova in numerose omelie e soprattutto nell'Evangelii gaudium. E' nuovo sì che ora venga da lui proposto con l'intensità e la forza di una frase immediata che caratterizza il tweet, quasi fosse una "sentenza". Qualcuno si è già dichiarato sorpreso interrogandosi sulla possibile reazione degli economisti.
Ecco alcuni passaggi della Evangelii gaudium in cui il Papa riflette sull'inequità:
***
52. L’umanità vive in questo momento una svolta storica che possiamo vedere nei progressi che si producono in diversi campi. Si devono lodare i successi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito della salute, dell’educazione e della comunicazione. Non possiamo tuttavia dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore e la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la violenza, l’inequità diventa sempre più evidente. Bisogna lottare per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità. Questo cambiamento epocale è stato causato dai balzi enormi che, per qualità, quantità, velocità e accumulazione, si verificano nel progresso scientifico, nelle innovazioni tecnologiche e nelle loro rapide applicazioni in diversi ambiti della natura e della vita. Siamo nell’era della conoscenza e dell’informazione, fonte di nuove forme di un potere molto spesso anonimo.
***
53. Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”.
***
59. Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice. Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire. Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene sempre un potenziale di dissoluzione e di morte. È il male cristallizzato nelle strutture sociali ingiuste, a partire dal quale non ci si può attendere un futuro migliore. Siamo lontani dalla cosiddetta “fine della storia”, giacché le condizioni di uno sviluppo sostenibile e pacifico non sono ancora adeguatamente impiantate e realizzate.
***
60. I meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta che il consumismo sfrenato, unito all’inequità, danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal modo la disparità sociale genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti. Alcuni semplicemente si compiacciono incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una “educazione” che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi. Questo diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi – nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni – qualunque sia l’ideologia politica dei governanti.
***
202. La necessità di risolvere le cause strutturali della povertà non può attendere, non solo per una esigenza pragmatica di ottenere risultati e di ordinare la società, ma per guarirla da una malattia che la rende fragile e indegna e che potrà solo portarla a nuove crisi. I piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie. Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità,[173] non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali.


Il pioniere



Paolo VI, il concilio e l’apertura del dialogo con gli ebrei. 

Da Roncalli a Bergoglio. Anticipiamo stralci dell’intervento che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani tiene nel pomeriggio del 28 aprile a Roma, presso la Comunità di Sant’Egidio, nell’ambito del convegno «Da Giovanni XXIII a Francesco: ebrei e cristiani in dialogo».(Kurt Koch) «Il popolo ebraico in tutto il mondo si ricorderà sempre degli anni del pontificato di Papa Paolo VI come dell’inizio di una nuova epoca per le relazioni cattoliche-ebraiche». Queste parole si leggono in un necrologio ebraico pubblicato a seguito della morte di Montini.
Non dobbiamo però dimenticare che le relazioni ebraico-cattoliche ebbero la loro svolta iniziale già ai tempi del santo Papa Giovanni XXIII, il quale non solo aveva conosciuto di persona — durante i primi anni del suo servizio diplomatico — il tragico destino degli ebrei sotto il regime del terrore del Terzo Reich, ma era anche convinto della necessità di impostare su nuove basi il rapporto della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Per questo, nel settembre del 1960, aveva incaricato l’allora segretariato per l’Unità dei cristiani di preparare una dichiarazione sul popolo ebraico per l’assemblea conciliare. Il grande merito di Paolo VI è stato dunque quello di aver raccolto con coerenza gli impulsi innovatori lanciati da Giovanni XXIII, approfondendoli dal punto di vista teologico e conferendo loro nuovi accenti.
Montini fu il primo Papa dei tempi moderni a lasciare il Vaticano e il primo viaggio del suo pontificato fu nel 1964 in Israele, certo non casualmente. Una visita che ebbe luogo in condizioni molto diverse rispetto a quelle in cui si svolgerà quella di Papa Francesco nel maggio prossimo. All’epoca, tra i luoghi che Paolo VI voleva visitare ve ne erano solo pochi che si trovavano sotto la giurisdizione d’Israele. I luoghi sacri di Gerusalemme e Betlemme erano ancora sotto l’autorità della Giordania. Inoltre la Santa Sede non aveva ancora riconosciuto lo Stato d’Israele e non aveva ancora con esso relazioni diplomatiche. Per non essere strumentalizzato da nessuna delle parti, Paolo VI si sforzò di evitare una presa di posizione politica e di sottolineare insistentemente il carattere religioso del suo pellegrinaggio.
L’occasione del viaggio era l’incontro tra il Papa e il Patriarca Athenagoras di Costantinopoli. Eppure, se è vero che tale incontro è diventato il catalizzatore delle relazioni tra ortodossi e cattolici e, in un certo senso, dell’ecumenismo in generale, è anche vero che la visita in Israele di Paolo VI ha dato avvio a nuovi e proficui sviluppi nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Un segno particolarmente eloquente fu l’incontro con le autorità dello Stato di Israele, quando Montini si rivolse agli ebrei usando la definizione di «figli del popolo dell’alleanza», intendendo così che l’alleanza di Dio con il popolo ebraico è tuttora valida. Il Papa fece riferimento inoltre ai padri della Bibbia, Abramo, Isacco e Giacobbe, per evidenziare le comuni radici della fede cristiana nella religione ebraica.
Per Paolo VI le relazioni tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele non erano una questione meramente politica, ma erano strettamente legate a un nuovo concetto teologico del rapporto tra ebrei e cattolici. Per questo il viaggio in Israele è stato definito una «pietra miliare sul cammino verso un mutato rapporto tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo». È stato inoltre rilevato uno sviluppo logico che parte dal pellegrinaggio del 1964, passa attraverso la Dichiarazione conciliare Nostra aetate e giunge all’istituzione di relazioni formali diplomatiche tra la Santa Sede e Israele con l’accordo del 1993.
Guardando al passato, si può addirittura dire che la nuova politica nei confronti di Israele della Santa Sede è inimmaginabile senza la nuova teologia nei confronti di Israele promossa da Papa Paolo VI.
Con il suo viaggio in Terra Santa, Montini si era prefissato senza dubbio lo scopo di impostare su nuove basi il dialogo con l’ebraismo, di intensificarlo e di preparare la strada alle posizioni religiose e teologiche che il concilio avrebbe dovuto prendere. I primi frutti del nuovo approccio teologico all’ebraismo possono essere rintracciati nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam del 6 agosto 1964, in cui inscrive il dialogo all’interno del programma della Chiesa cattolica: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». Secondo la sua visione, il dialogo deve svilupparsi in tre cerchi concentrici: innanzitutto con tutti gli uomini, poi con i credenti e infine con i fratelli cristiani separati. Nel secondo cerchio, il Papa dà rilievo soprattutto agli ebrei: «Alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento».
Con queste parole il Papa non ha soltanto voluto esprimere il fatto che i dialoghi della Chiesa cattolica con i cristiani divisi, con gli ebrei e con i non cristiani sono strettamente legati; ma intendeva ancora più chiaramente sottolineare che il dialogo ecumenico con i fratelli separati e quello con gli ebrei sono inscindibili.
Questa convinzione, Paolo VI la confermò con particolare forza conferendole anche una forma istituzionale nel 1974, quando, il 22 ottobre, fondò una Commissione autonoma per i rapporti religiosi con l’ebraismo, associandola non al Segretariato per il dialogo interreligioso, istituito verso la fine del Concilio, ma al Segretariato per l’unità del cristiani.
Su questo sfondo teologico, non sorprende che la nuova visione delle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo agli occhi di Paolo VI abbia potuto trovare accesso anche nella liturgia. Come già aveva fatto Giovanni XXIII in maniera inattesa durante la liturgia del Venerdì santo del 1959, quando aveva disposto che dalla preghiera per gli ebrei venisse tolto l’aggettivo «perfidi», così Paolo VI introdusse una nuova formula di quella preghiera, che ne attenua sia il contenuto sia il tono. Con tale formula è stato possibile superare un grande ostacolo nel dialogo ebraico-cristiano.
Questi orientamenti hanno spianato il terreno alla promulgazione, da parte di Paolo VI, della Dichiarazione sul rapporto tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, del concilio Vaticano II.
Il processo era iniziato quando Giovanni XXIII, il 18 settembre 1960, aveva affidato al cardinale Augustin Bea, responsabile del Segretariato per l’unità dei cristiani, l’incarico di preparare una dichiarazione sul popolo ebraico. All’epoca il Papa non poteva immaginare la portata che avrebbe avuto in seguito tale incarico. I problemi risiedevano non tanto nel campo teologico quanto in quello politico. Ciò spiega la complessa storia del testo di questa dichiarazione, che originariamente era stata concepita come documento autonomo, ma che poi fu integrata in varie fasi nel Decreto sull’ecumenismo, anch’esso in via di preparazione, e nella Dichiarazione sulla libertà religiosa. Poi si decise di inserire il testo come quarto articolo nel più ampio quadro della Dichiarazione conciliare «sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane», che reca il titolo di Nostra aetate.
La Nostra aetate fu approvata dal concilio durante la sua ultima sessione, il 28 ottobre 1965, con il 96 per cento dei voti. Per la prima volta nella storia un concilio ecumenico si è espresso in modo così esplicito e positivo circa le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Non solo. Il Vaticano II non si è occupato soltanto di prospettive meramente pragmatiche, ma ha considerato la questione delle relazioni ebraico-cristiane in un orizzonte teologico, sulla base di solidi fondamenti biblici. In terzo luogo, va notato che questa nuova visione del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo ha trovato espressione anche in importanti Costituzioni del concilio. Così, ad esempio, la Lumen gentium evidenzia il fatto che Israele continua a essere il popolo eletto di Dio e che la Chiesa cristiana proviene da questo popolo. Analogamente la Dei verbum espone la stessa convinzione nel contesto della teologia della rivelazione.
L’articolo 4 di Nostra aetate è considerato giustamente il documento fondante, la Magna charta, del dialogo ebraico-cattolico, e ha segnato un nuovo punto di partenza fondamentale nelle relazioni tra il cristianesimo e l’ebraismo. Quanto Paolo VI abbia contribuito a tutto questo emerge anche dal fatto che, l’anno stesso in cui fu istituita la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, venne stilato e pubblicato, con l’approvazione esplicita del Papa, il documento «Linee guida e orientamenti per l’applicazione della Dichiarazione Conciliare Nostra aetate n. 4», nel quale è contenuto un ampio programma per il riavvicinamento ebraico-cristiano.
Nel documento si dà voce al grande apprezzamento nutrito da parte cristiana per l’ebraismo e si evidenzia la considerevole importanza che il dialogo riveste per la Chiesa stessa. Partendo dalla testimonianza della fede in Gesù Cristo, si tiene conto del carattere specifico del dialogo con l’ebraismo, si fa riferimento ai legami esistenti nella liturgia, si menzionano nuove possibilità sul cammino del riavvicinamento nel campo della dottrina, dell’insegnamento e della formazione e si propongono attività comuni in ambito sociale.
Paolo VI, inoltre, ha attribuito un ruolo importante anche ai colloqui personali con i rappresentanti dell’ebraismo, durante i quali egli ha sempre lanciato un invito ad approfondire le relazioni.
Ciò che Montini ha introdotto in maniera innovativa a fondamento del dialogo ebraico-cattolico è stato confermato e approfondito in vario modo dai Pontefici che si sono susseguiti dopo il Vaticano II. La svolta epocale nel rapporto tra ebrei e cristiani voluta da Paolo VI deve infatti continuamente fare i conti con nuove prove. Da un lato, il flagello dell’antisemitismo pare difficile da sradicare anche ai nostri giorni, così che la Chiesa cattolica ha sempre il dovere di scendere in campo contro questo temibile fenomeno come fedele alleata dell’ebraismo. Dall’altro lato, anche se le questioni teologiche fondamentali riguardanti il rapporto tra cristianesimo ed ebraismo sono state trattate per la prima volta, in maniera incoraggiante in Nostra aetate, sarebbe esagerato però affermare che sono già state risolte. Piuttosto esse richiedono un’ulteriore riflessione teologica, auspicabile anche da parte ebraica. Ciò vale soprattutto per la questione di come sia possibile conciliare la convinzione di fede, che noi cristiani abbiamo in comune con gli ebrei, secondo la quale l’alleanza stipulata da Dio con Israele non è mai stata rescissa ed è sempre valida, e la convinzione di fede cristiana imperniata sulla novità della nuova alleanza donataci in Gesù Cristo. In modo che ebrei e cristiani non si sentano lesi, ma accolti seriamente nelle loro rispettive convinzioni.
Questo necessario approfondimento teologico sarà sotto una buona stella se il dialogo ebraico-cristiano continuerà a essere portato avanti sulla base di quell’alleanza che Dio ha stretto con Abramo, che non è soltanto il padre di Israele, ma anche il padre della fede dei cristiani.
Coscienti di ciò, ci avviciniamo al viaggio che Papa Francesco compirà in Terra Santa cinquant’anni dopo quello in Israele di Paolo VI, e ci prepariamo al cinquantesimo anniversario della promulgazione della Nostra aetate.
L'Osservatore Romano

Il giorno dopo.





"Oggi per la prima volta durante la preghiera eucaristica ho nominato Giovanni Paolo II come Santo e mi ha fatto una grande impressione. La mia voce ha cominciato a tremare. E' stata una grande gioia per me. Un momento che abbiamo atteso tutti, non solo dalla morte di S. Giovanni Paolo II, ma anche fin da quando era in vita. Durante il mio lavoro con Papa Wojtyla ho potuto sperimentare la sua santità che oggi ha trovato conferma ufficiale della Chiesa. E questo mi rende veramente felice". Sono le emozioni e le riflessioni di don Pawel Ptasnik, della sezione polacca della Segreteria di Stato vaticana, già collaboratore di Giovanni Paolo II, all'indomani della cerimonia di Canonizzazione del 27 aprile. "Karol Wojtyla era molto umano, ha costruito su questa base tutta la sua spiritualità. Era semplice e buono, aperto, sensibile e attento alle altre persone. E aveva una grande capacità di ascolto che si prolungava in un'attenzione continua durante la preghiera. Dopo mesi, anni, era capace di tornare a pensare a una persona o a un problema e domandarsi se fosse stato risolto. Aveva poi una profondissima unione con Dio. Era in preghiera in molti momenti della giornata in modo profondo ma semplice. Era capace di rendere mistiche anche forme di preghiera popolari come i canti e le litanie della tradizione polacca. E poi pregava sempre per gli altri e noi avevamo spesso la conferma dell'efficacia delle sue preghiere. E pregava per la Chiesa nel mondo: ogni giorno sceglieva un pezzo del popolo di Dio per cui pregare, cercando di ricordarsi delle loro gioie e dei loro problemi. Amava la Chiesa e il mondo, voleva far vedere l'azione dello Spirito di Cristo Risorto nella storia passata, presente e futura della Chiesa". "Il ricordo più intenso che mi porto nel cuore è lo sguardo di Papa Francesco quando gli ho consegnato la reliquia di Papa Giovanni XXIII. L'ha baciata e me l'ha restituita guardandomi fisso negli occhi. Quasi a dirmi che si trattava di un tesoro prezioso che affidava attraverso di me alla fondazione, alla diocesi e alla Chiesa tutta". Così, don Ezio Bolis, direttore della Fondazione Giovanni XXIII di Bergamo, ricorda per noi la cerimonia di canonizzazione di domenica 27 aprile. "Papa Francesco ha detto che Roncalli e Wojtyla hanno 'collaborato con lo Spirito Santo per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria'. Ancora una volta Francesco ha colto nel segno intuendo la profonda sintonia tra questi due papi santi proprio sul tema del Concilio. Roncalli l'ha voluto, preparato e aperto. Wojtyla vi ha partecipato e l'ha messo in pratica prima nella sua diocesi di Cracovia e poi nella Chiesa universale. Presentandoci questi due santi il Papa ci dice che i frutti del Concilio sono tutt'altro che esauriti". (a cura di Fabio Colagrande, Radio Vaticana)
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Se il Concilio diventa santoL'UnitàColpivano ieri le immagini di quella grande folla multilingue e multicolore che ha animato la cerimonia di canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II. Due Papi proclamati santi nello stesso giorno. Due Papi «recenti», di cui molti hanno memoria diretta. Si è (...)
San Pietro ancora affollata di fedeli: oggi la messa per la comunità polacca (Il Messaggero)
Canonizzazioni, il giorno dopo a San Pietro ancora migliaia di fedeli per la messa di ringraziamento (Repubblica.it)
*Comastri: "La canonizzazione di Wojtyla un dono necessario"

In piazza San Pietro gremita di fedeli il Vicario del Papa celebra la Messa di ringraziamento per la proclamazione del Pontefice polacco, che "benedice dall'alto l'Italia"
GIACOMO GALEAZZICITTA'DEL VATICANO
"Karol Wojtyla benedice dall'alto l'Italia". Sono tornati in piazza San Pietro per ringraziare dei nuovi Papi Santi. Oltre 80mila fedeli hanno partecipato questa mattina alla messa per la canonizzazione di San Giovanni Paolo II presieduta in piazza San Pietro dal cardinale Angelo Comastri, arciprete della Basilica vaticana e vicario del Papa per la Città del Vaticano.
Tra i concelebranti anche il cardinale Stanislao Dziwisz, storico segretario di Karol Wojtyla e oggi suo successore nella sede di Cracovia.
Dunque prosegue in Vaticano il pacifico assedio di decine di migliaia di persone giunte per la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Stamattina piazza San Pietro è gremitissima sia nei settori centrali che nelle ali. Anche i dintorni di piazza San Pietro sono affollati di fedeli e turisti, rimasti a Roma dopo le canonizzazioni di ieri, e che approfittano per visitare i musei vaticani e soprattutto rendere omaggio alle tombe dei neo-santi.
“Un dono necessario” è stata per il cardinale Angelo Comastri la canonizzazione di Papa Wojtyla, il “papa della famiglia”, in un momento in cui, ha detto, «la famiglia è aggredita e minacciata».
Il Porporato ha anche ricordato la “difesa della vita umana” al centro della predicazione e dell’azione di Giovanni Paolo II, e ha citato ampie frasi di Papa Wojtyla a difesa della vita, compreso il “grido di Agrigento” contro la mafia.
Comastri ha poi citato le “parole vere, sante, attuali” dette da Giovanni Polo II nel tentativo strenuo di evitare la guerra del Golfo.
Nel saluto iniziale ai fedeli riuniti in Basilica, affidato all’arcivescovo di Cracovia Dziwisz, questi ha definito Giovanni Paolo II “figlio della terra polacca, il papa della Divina Misericordia” che, “ha conseguentemente messo in vita le decisioni del Concilio e ha anche introdotto la Chiesa nel terzo millennio della fede cristiana”.
Il cardinale Dziwisz, che è stato per circa quarant’anni segretario di Karol Wojtyla, ha concluso ricordando che per lui l’Italia "è diventata una seconda Patria". Quindi "oggi sicuramente", ha evidenziato il Porporato, "Giovanni Paolo II la benedice dall’alto, come anche benedice la Polonia e il mondo intero. Nel suo cuore hanno trovato posto tutte le nazioni, le culture, le lingue". 
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Messa a San Carlo al Corso. Cardinale D. Tettamanzi: L’eredità di Roncalli
Nella chiesa romana dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso — dove Angelo Giuseppe Roncalli fu ordinato vescovo nel 1925 — è stata celebrata la messa di ringraziamento per la sua canonizzazione. A presiederla lunedì mattina, 28 aprile, il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo emerito di Milano. Hanno concelebrato l’arcivescovo Gabriele Caccia, nunzio apostolico in Libano, e Francesco Beschi, vescovo di Bergamo.
Momento centrale della celebrazione, la lettura da parte di monsignor Beschi della lettera scritta a Papa Francesco in segno di riconoscenza per la decisione di proclamare santi il Pontefice bergamasco e quello polacco. «Benediciamo il Signore — ha detto il presule — per il dono della santità di Papa Giovanni XXIII e di Papa Giovanni Paolo II. La proclamazione di questo dono davanti alla Chiesa e al mondo alimenta la speranza che scaturisce dal Vangelo e da coloro che lo testimoniano in modo luminoso». Allo stesso tempo, ha aggiunto, «ci sprona a ricercare, appassionatamente e con intima gioia, di raccogliere la seminagione del Vangelo che avviene attraverso i suoi testimoni e di coltivare quanto è stato seminato nella vita di ciascuno di noi, nella sua specifica vocazione e missione e nella vita di tutte le nostre comunità».
Il vescovo ha poi sottolineato come Papa Francesco, con le sue parole e i suoi gesti, abbia fatto «brillare ai nostri occhi in modo ancor più luminoso il grande esempio e la preziosa eredità del Papa, nato, cresciuto, vissuto nella nostra terra e nella nostra Chiesa diocesana che ha tanto amato». Ricordando la lettera scritta dal Pontefice ai fedeli bergamaschi in occasione della canonizzazione il presule ne ha riproposto le tre raccomandazioni centrali: «custodire la memoria del terreno» nel quale è germinata la santità di Roncalli, «accogliere il cambiamento e le provocazioni che comporta per chi vuol essere fedele al Vangelo» e «continuare a camminare con convinzione lungo la strada tracciata dal concilio».
In definitiva, ha concluso monsignor Beschi, il Papa ha invitato tutta la società bergamasca a «perseguire i valori della fraternità e della solidarietà, che in maniera profonda e forte ne hanno disegnato una fisionomia che possiamo continuamente rigenerare se li poniamo come tratti indiscutibili e impegnativi della nostra convivenza civile».
Successivamente, nella basilica vaticana, all’altare di san Girolamo — dove sono conservate le spoglie mortali di Giovanni XXIII — i pellegrini di Sotto il Monte hanno partecipato alla prima messa in onore del nuovo santo. A presiederla monsignor Maurizio Malvestiti, sotto-segretario della Congregazione per le Chiese Orientali.L'Osservatore Romano, 29 aprile 2014.