In questa domenica segnata dalla gioia pasquale, la chiesa cattolica proclama santi due papi e oggi proclama beato Giuseppe Girotti, un frate domenicano langarolo. Cosa significa una canonizzazione? La risposta non è facile, ma il primo dato è che con tale gesto si vuole affermare in modo autorevole che un cristiano o una cristiana sono stati nella loro vita discepoli fedeli di Gesù Cristo, che lo hanno imitato assumendone i pensieri e i sentimenti, che hanno dato di credere che vivere il vangelo è possibile. Ma accanto a questa ragione fondamentale ce ne sono, e lo sappiamo bene, anche altre, più legate a motivi contingenti o a stagioni ecclesiali. Perché si è fatto santo Pio IX e non ancora Paolo VI?
E perché si proclamano così facilmente santi papi e fondatori e fondatrici di forme di vita religiosa e così pochi, pochissimi santi quotidiani, semplici cristiani che hanno vissuto il vangelo lavorando onestamente, amando un coniuge e dei figli, facendo il bene a chi era loro vicino, protagonisti di una vita quotidiana anonima ma determinata solo dal vangelo e dall’amore per Dio e per il prossimo?
La mia generazione esulta per la dichiarazione di santità di papa Giovanni, “un cristiano sul trono di Pietro”, l’uomo che seppe risvegliare il fuoco sotto la cenere di una chiesa stanca e a volte smarrita, il papa acclamato santo di fatto dall’assemblea conciliare in corso alla sua morte e che le genti del mondo hanno sentito come un padre, un sapiente che ha aiutato gli uomini del mondo a vivere con più fiducia e cercando di spegnere la violenza che li abita... Sì, lo si voleva santo, ma allora non fu organizzata nessuna piazza osannante, né particolari movimenti o porzioni di chiesa si ritenevano beneficiari privilegiati del suo ministero papale: semplicemente tutti lo sentivano cristiano e perciò santo
Solo i piccoli, i semplici avevano e hanno il diritto di chiamarlo “papa buono”, ma tanti l’hanno apostrofato così per depotenziare la sua testimonianza profetica. Avverrà lo stesso con papa Francesco, ne sono certo: già ora, tra quelli che gli sono vicini c’è chi sussurra: “È il papa misericordioso... è tutto cuore... certo, manca di dottrina... la dottrina non è il suo mestiere, non è un teologo...”.
Papa Giovanni Paolo II è stato salutato già ai suoi funerali “santo subito!” e di fatto tutto il processo di canonizzazione è stato accelerato. Chi può dubitare della sua santità? Tutti quelli che l’hanno conosciuto la affermano e quindi, non essendoci contraddizione, è cosa buona accettare la loro testimonianza. È stato un papa confessore della fede, un visionario che ha posto gesti nella vita della chiesa che rendono la strada percorsa irreversibile nel dialogo con le religioni, nell’ecumenismo, nella condanna della guerra.
Reca comunque grande tristezza che i soliti avvoltoi gracchino su questa santificazione, magari citando con cattivo gusto e interpretazione malevola alcune frasi del cardinal Martini che aveva manifestato la sua perplessità nel fare santi con eccessiva rapidità e facilità tutti gli ultimi papi, oppure misurando la santità dei canonizzabili con un insipiente giudizio legato alla capacità soggettiva di venerarli.
Ma in tema di santità a me preme spendere qualche parola sul frate domenicano che oggi la chiesa proclama beato ad Alba. Confesso una tristezza profonda: sono nato due anni prima della morte di questo frate, nella sua stessa terra, quelle colline sulle quali nessuno sa tracciare con certezza i confini tra Langhe e Monferrato. Per varie ragioni sono cresciuto con un’attenzione forte al tema della resistenza contro i nazifascisti e al dramma del genocidio degli ebrei, presenti in modo significativo in Monferrato. A diciassette anni andai con la scuola a Dachau per capire l’orrore cui eravamo giunti, nel silenzio vigliacco di chi sapeva ma preferiva tacere: anche in quell’occasione non ci fu nessuna memoria del conterraneo padre Girotti. Giunto all’università a Torino ho frequentato attivamente i frati domenicani a San Domenico e le suore domenicane...
Eppure non ho mai sentito un ricordo di questo frate! Mi dicono che erano tempi in cui “quelle cose non si dicevano e non si ricordavano” né negli ambienti di chiesa né in quelli culturali e politici. A vent’anni ho perfino letto e studiato i manuali biblici – ricordo il commento a Isaia – redatti da questo frate, ma sulla sua vita non seppi mai nulla. A dispetto di questo silenzio, perché ora lo dichiarano beato? È molto semplice: perché nella vita si ha qualche rara volta l’occasione di essere eroi, ma quasi tutti i giorni si ha l’opportunità di non essere vigliacchi. E questo frate è stato un uomo e un cristiano non vigliacco!
Nato ad Alba nel 1905 in una famiglia poverissima, Giuseppe Girotti fece il chierichetto in duomo e lì maturò la sua vocazione a farsi prete. Ma in quegli anni non sempre per i più poveri c’era posto in seminario e così non gli fu concesso. Incontrò poi un frate domenicano che capì il cuore e la mente di quel ragazzo: Giuseppe accolse il suo invito ed entrò nel convento di Chieri, dove a diciotto anni fece professione definitiva.
Il giovane era dotato, come sovente i figli dei poveri, e per questo fu inviato a studiare dapprima a Roma, all’Angelicum e poi a Gerusalemme, all’École biblique, allora diretta dal grande biblista p. Lagrange. Rientrato in Italia, insegnò Sacra Scrittura a Torino, ma la sua vita era “infuocata”: fine intellettuale, frequentava ogni giorno i poveri e i vecchi dell’ospizio accanto al suo convento.
Forse non era particolarmente ligio agli orari e alle “osservanze”, ma si immergeva nel servizio ai più bisognosi, attento alle sofferenze umane più che ai peccati. Anche per questo nel 1938 fu allontanato dall’insegnamento. Sopraggiunta la persecuzione degli ebrei, in particolare dopo l’ordinanza della Repubblica di Salò che il 30 novembre 1943 dispose l’arresto e l’internamento di tutti gli ebrei, padre Girotti si prodigò per nasconderli e aiutarli: né eroe né vigliacco, semplicemente non si lasciò piegare né comperare, disposto a perdere la vita piuttosto che la sua splendida umanità.
Ma la sua azione a favore degli ebrei braccati venne scoperta e il 29 agosto 1944, memoria del martirio di Giovanni il Battista, tradito da qualcuno, fu sorpreso sulle colline torinesi mentre prestava soccorso a un amico ebreo. Arrestato non tornò più in convento: il 9 ottobre venne trasferito al lager di Dachau, dove nel registro d’ingresso fu annotato: “Ragione dell’arresto: aiutò gli ebrei”. Lì trovò anche pastori protestanti e preti, tra i quali p. Manziana, che diventerà vescovo di Crema e confessore di Paolo VI, don Beran, futuro arcivescovo di Praga e incarcerato dai comunisti...
L’unico suo scritto dal lager che ci è rimasto è un’accorata omelia in latino sull’unità dei cristiani che sentiva più che mai urgente in quella buia stagione. Dei suoi ultimi mesi sappiamo poco: Edmond Michelet, anche lui internato a Dachau, futuro ministro di Charles de Gaulle, scriverà di fra Giuseppe: “era un giovane domenicano dalla figura angelica che con i suoi grandi occhi neri invocava Gesù-Viatico per la vita eterna”. Finché il 1° aprile, giorno di Pasqua, nel lager si seppe che padre Girotti era morto, forse finito da un’iniezione di benzina...
Le ultime parole che i suoi compagni ascoltarono da lui furono il grido dell’Apocalisse: “Maràna thà. Vieni, Signore Gesù!” Al fondo del suo giaciglio rimasto vuoto, la mano di un suo compagno di cella scrisse: “San Giuseppe Girotti”: un uomo, un cristiano, un monaco riconosciuto santo dalle vittime che erano con lui in quel campo di sterminio.
Ecco la santità: quando gli è stata data l’occasione di non essere vigliacco, quando ha visto il fratello nel bisogno, quando ha visto regnare l’ingiustizia, fra Giuseppe ha avuto il coraggio di parlare, di fare resistenza, di contrastare la barbarie con una quotidiana, umile, nascosta cura dell’altro, della vittima... Sì, la santità cristiana è quella di chi arriva al papato come quella di chi muore negli abissi dell’orrore e per decenni resta sconosciuto, senza che nessuno parli di lui, senza che si conosca molto di una vita spesa per gli altri.
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Quelle sintonie tra Roncalli e Bergoglio
La misericordia e la bontà, la tenerezza, la costruzione di ponti verso i lontani: alcuni degli aspetti che accomunano Francesco al nuovo santo Giovanni XXIII
Karol Wojtyla era un «grande uomo, un grande Papa», e «sono felice di essere chiamato a proclamare la sua santità», ha detto Francesco in un videomessaggio inviato in Polonia alla vigilia della cerimonia di domani, durante la quale saranno canonizzati Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Ma non c'è dubbio che il processo per l'aureola all'«atleta di Dio» polacco fosse già in fase avanzata quando si è tenuto l'ultimo conclave. La vera novità è dunque rappresentata dall'associazione con Roncalli, che Francesco ha voluto e deciso già nelle prime settimane dopo l'elezione.
Per Papa Bergoglio, Roncalli è un punto di riferimento. «Entrambi hanno destato un forte consenso popolare grazie alla loro naturale capacità di comunicare in modo concreto e immediato il senso dell’umanità e della bontà di Dio», osserva Stefania Falasca nel libro «Giovanni XXIII, in una carezza la rivoluzione» (Rizzoli). Fin dai primi passi del suo pontificato, Francesco ha detto e soprattutto mostrato con i gesti, che «non bisogna aver paura della tenerezza».
Giovanni XXIII è ricordato per il famoso «discorso alla luna», la sera dell'11 ottobre 1962, conclusosi con l'invito a portare la carezza del Papa ai bambini rimasti a casa; Francesco ha fatto dell'abbraccio con i più piccoli, con i malati e con gli anziani uno dei punti salienti delle sue udienze, senza mai guardare l'orologio.
Anche le frequenti visite alle parrocchie romane, che Francesco ritiene prioritarie nel suo ministero di vescovo di Roma, costituiscono un legame stretto con Giovanni XXIII, che queste visite riprese a fare dopo che si erano interrotte per due secoli. L'ex segretario di Roncalli, Loris Capovilla, oggi cardinale, ha sottolineato che quei gesti non volevano affatto essere «rivoluzionari», perché non facevano altro che mettere in pratica il dovere del pastore.
C'è poi l'insistenza sulla misericordia, un altro tratto comune. Di «medicina della misericordia» - con oltre mezzo secolo d'anticipo rispetto alla «misericordina» di Francesco - aveva parlato proprio Giovanni XXIII. Un pastore che durante tutta la sua vita ha cercato di costruire ponti, tendere la mano, raggiungere anche i «lontani», gli appartenenti ad altre confessioni cristiane e ad altre religioni come pure i non credenti. Lo stesso atteggiamento che oggi caratterizza il pontificato di Papa Bergoglio.
All'origine della decisione di proclamare santo il Pontefice bergamasco che inaugurò il Concilio Ecumenico Vaticano II ci sono due ragioni fondamentali: il culto liturgico diffuso in tutto il mondo della sua memoria, accompagnato da una «fama di santità» diffusa e anche da molte grazie ricevute, alcune delle quali presentano caratteristiche di guarigioni inspiegabili. E il fatto che furono già alcuni padri conciliari a chiedere che Papa Giovanni, da poco scomparso, venisse proclamato direttamente santo per acclamazione. Bergoglio ritiene dunque molto attuale la figura di Roncalli, per la Chiesa e per il mondo. Per questo ha deciso di canonizzarlo, dispensando dal riconoscimento ufficiale del secondo miracolo attribuito alla sua intercessione.
(©LAPRESSE) GIOVANNI PAOLO II E IL FUTURO PAPA FRANCESCO
Il ricordo che l'arcivescovo di Buenos Aires scrisse dopo la morte di Giovanni Paolo II
JORGE MARIO BERGOGLIO*
BUENOS AIRES
Se non ricordo male era il 1985. Una sera andai a recitare il Rosario che guidava il Santo Padre. Lui stava davanti a tutti, in ginocchio. Il gruppo era numeroso; vedevo il Santo Padre di spalle e, a poco a poco, mi immersi nella preghiera. Non ero solo: pregavo in mezzo al popolo di Dio al quale appartenevamo io e tutti coloro che erano lì, guidati dal nostro Pastore.
Nel mezzo della preghiera mi distrassi, guardando la figura del Papa: la sua pietà, la sua devozione erano una testimonianza. E il tempo sfumò, e cominciai a immaginarmi il giovane sacerdote, il seminarista, il poeta, l'operaio, il bambino di Wadowice... nella stessa posizione in cui si trovava in quel momento, pregando Ave Maria dopo Ave Maria. La sua testimonianza mi colpì. Sentii che quell'uomo, scelto per guidare la Chiesa, ripercorreva un cammino fino alla sua Madre del cielo, un cammino iniziato con la sua infanzia. E mi resi conto della densità che avevano le parole della Madre di Guadalupe a san Juan Diego: «Non temere, non sono forse tua madre?». Compresi la presenza di Maria nella vita del Papa.
La testimonianza non si è persa in un istante. Da quella volta recito ogni giorno i quindici misteri del Rosario.
*Questo ricordo fu scritto dall'allora cardinale arcivescovo di Buenos Aires per il numero del mensile «30Giorni» dedicato alla morte di Papa Wojtyla (n. 4, aprile 2005, p. 43).
Pubblichiamo un brano del libro di Domenico Agasso sr e Domenico Agasso jr “Papa Giovanni XXIII – con la versione originale del ‘Discorso alla luna’” (edizioni San Paolo)
DOMENICO AGASSO JR CITTÀ DEL VATICANO
Il mattino di lunedì 11 aprile (1960), Giovanni XXIII arriva nella sala del tronetto, dove sta per compiersi un avvenimento storico: per la prima volta mette piede in Vaticano un ambasciatore di Turchia presso il Santo Padre, regolarmente accreditato dopo l’allacciamento di relazioni diplomatiche fra Ankara e Roma. Al di là del fiume di sangue che è scorso in tempi lontani fra cristiani e turchi, adesso c’è questa stretta di mano, e davanti al diplomatico il Papa invoca Dio con i due appellativi che gli danno i musulmani, «clemente e misericordioso». Aggiunge poi: «Nella calma del Vaticano, lei non troverà quell’agitazione febbrile di ordine materiale nella quale si dibatte la vita dei popoli: problemi finanziari, rapporti di forza, armamenti...». A poca distanza dalla sala dove il Pontefice conversa con l’ambasciatore, nel Parlamento italiano, l’agitazione è davvero febbrile. È stato formato un nuovo governo, che però non riesce a ottenere la fiducia. E di solito in questi casi qualcuno cerca di “provocare l’intervento del Vaticano”. Ma il Vaticano, questa volta, non interviene. Nel pomeriggio del turbolento lunedì, il Papa si occupa di tutt’altro. Nella sala del tronetto attende un personaggio venuto dall’America, per un colloquio privato; ogni altro impegno è rimandato; dall’esterno telefonano che il personaggio è in arrivo a San Pietro, l’auto è ora nel cortile di San Damaso, poi mons. Maestro di Camera apre la porta della sala e annuncia ad alta voce il nome: Catherine.
Il Papa è già lì, presso la porta, tende le mani a Catherine, la fissa. Ha otto anni ed è condannata a morte. L’ha colpita la leucemia nella sua lontana città, Oklahoma City, e uno dei suoi ultimi desideri è stato quello di vedere «Pope John», questo Papa Giovanni del cui nome anche l’America è piena. Mary Marlene, sua madre, è una povera vedova: ha perduto il marito in una disgrazia stradale e vive dello stipendio di impiegata in una compagnia elettrica. Ha venduto anche qualche mobile di casa per pagarsi il viaggio a Roma in aereo. Adesso è lì, vestita di nero; e sospinge la bambina in abito da Prima Comunione verso il vecchio Pontefice.
Papa Giovanni chiude nella sua grossa mano quella esangue della piccola, e insieme camminano verso un tavolo della sala, tutti e due vestiti di bianco. Siedono, parlano. Non si sa cosa dicano, nella conversazione segreta. Ma si vede Catherine parlare fitto, e il vecchio Papa intento a lei, sempre più grave in volto, come quando ascolta i predicatori agli esercizi spirituali: questo piccolo essere è ormai alla soglia dell’eternità, ha dentro di sé la morte, ha un piedino sulla porta delle finali verità. Nessuno si accorge che il tempo passa. La consuetudine assegna una ventina di minuti ai colloqui privati coi Capi di Stato; con Catherine il Papa continua a parlare per quaranta minuti, poi la prende per mano e a piccoli passi la riporta alla donna vestita in nero. Si sentono le sue ultime parole: «Prega per me, Catherine». Poi la porta si chiude sulla figura candida che va via, creatura già dell’altro mondo.
Per giorni e giorni la visione dell’abitino bianco continua a fargli compagnia. Ne parla ai suoi prelati, racconta più volte l’incontro ai pellegrini.
A quelli di Nancy confida: «La conversazione con Catherine ha assunto un tono angelico». L’angelo malato ha promesso di scrivergli, e ogni giorno il Papa, nell’ora della posta, domanda al segretario: «C’è qualcosa da Catherine?».
"Papa Giovanni XXIII - Con la versione originale del 'Discorso alla luna'", di Domenico Agasso sr e Domenico Agasso jr, edizioni San Paolo, 2013, pagg. 176, 9.90 euro.
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