A colloquio con Kiko Argüello, iniziatore del Cammino neocatecumenale.
di Sabina Fadel - da Il Messaggero di Sant’Antonio
Francisco José Gomez-Argüello, detto Kiko, non ha bisogno di presentazioni.
Da quando, alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, nelle periferie più povere di Madrid questo pittore spagnolo ha fondato il Cammino neocatecumenale, è diventato una delle figure più note del panorama cattolico. Più note ma anche più dibattute. Perché il «Cammino», come viene comunemente chiamato, passa per essere una delle esperienze più radicali di Chiesa: un itinerario di formazione e di educazione permanente alla fede che si rivolge in particolar modo ai «ricomincianti» (così vengono chiamati i battezzati che si riavvicinano alla fede dopo un periodo di lontananza), lungo (può durare trent’anni), impegnativo (prevede almeno due incontri settimanali e una giornata di ritiro mensile) e coinvolgente (i fedeli sono riuniti in comunità, con le quali compiono tutto il percorso di fede che li porterà a riscoprire la ricchezza del proprio battesimo e la missionarietà di ogni cristiano).
Sarà per questo che papa Francesco, al primo incontro, ha detto a Kiko: «Che gran lìo(confusione, ndr) che hai combinato nella Chiesa, però devi continuare a farlo!». Gli incoraggiamenti sono venuti anche dai precedenti Pontefici: Paolo VI, Giovanni Paolo II, forse il più entusiasta, e Benedetto XVI.
Insomma, si condivida o meno lo stile del Cammino neocatecumenale, siamo dinanzi a una delle esperienze di Chiesa più significative del postconcilio. Non si spiegano altrimenti il milione e mezzo di aderenti in 125 Paesi, i 2 mila sacerdoti già ordinati, i 2.500 seminaristi presenti negli oltre 100 seminari, le 1.080 famiglie inviate dai Pontefici, di cui 460 per la missione ad gentes nelle zone del mondo in cui la fede cattolica è più a rischio (dalla Cina alla Russia, dalla Cambogia al Laos all’India…) e nelle molte nazioni di recente secolarizzazione come l’Olanda o i Paesi scandinavi. Numeri che in tempi di chiese semivuote e di comunità cristiane composte per lo più di anziani, almeno in Occidente, fanno riflettere.
Ma Argüello ha anche un altro obiettivo apertamente dichiarato: portare una nuova estetica nella Chiesa. Vale a dire introdurre un rinnovamento artistico che si concentra soprattutto attorno a due elementi: la creazione di nuovi spazi architettonici e il recupero dell’icona nell’arte occidentale. Non a caso, incontriamo Kiko Argüello a Mestre (Venezia) nella parrocchia di San Giovanni Evangelista, in occasione dell’inaugurazione dell’ultimo degli oltre trenta cicli pittorici della corona misterica (vedi box) da lui realizzati, il più famoso dei quali si trova nella cattedrale di Madrid, in Spagna. Ci troviamo di fronte a un signore di 75 anni, con i capelli bianchi, leggermente affaticato forse, ma indomito e indomabile nella sua indole d’artista e nella sua innegabile passione per il Vangelo.
Msa. Il Cammino neocatecumenale ha quasi 50 anni. Tempo di bilanci…
Argüello. In questi anni il Signore ci ha sorpreso con tanti miracoli e prodigi. Siamo felici soprattutto per la storia che, attraverso di noi, ha portato avanti con molte famiglie. E siamo grati dell’appoggio che i Papi non ci hanno mai fatto mancare. Non possiamo nascondere che viviamo anche molte difficoltà, perché non è così semplice che un carisma nuovo venga accolto. Però, se dobbiamo tirare un bilancio, dobbiamo riconoscere che il Signore è stato davvero generoso con noi.
Quali sono, secondo lei, le ragioni delle difficoltà?
Credo che nella Chiesa ci sia ancora troppo clericalismo. Spesso si fatica ad accettare che un laico possa essere apportatore di un carisma capace di donare qualcosa di buono e importante alla vita della Chiesa. Non è stato sempre facile riuscire a mantenere viva la nostra proposta. Ma un carisma è un dono che Dio dà perché la sua Chiesa ne ha bisogno. E accoglierlo significa anche essere pronti a mettersi al suo servizio. Questo, purtroppo, nei seminari non viene spiegato.
Il primo febbraio scorso, durante l’udienza per l’invio in missione di 174 famiglie, papa Francesco vi ha raccomandato: «La comunione è essenziale: a volte può essere meglio rinunciare a vivere in tutti i dettagli ciò che il vostro itinerario esigerebbe, pur di garantire l’unità tra i fratelli che formano l’unica comunità ecclesiale, della quale dovete sempre sentirvi parte». Come legge questo invito del Pontefice?
Il Papa ci ha chiesto di essere disponibili a rinunciare a dettagli, non ad aspetti essenziali della nostra esperienza. D’altra parte, i nostri Statuti hanno ricevuto l’approvazione ecclesiale nel 2008, dopo un’attenta e lunga valutazione.
Lei ha raccontato, nel suo libro Il kerigma, che all’origine del Cammino c’è stata una grave crisi…
Sì, è vero. Dio ha permesso che avessi una crisi esistenziale e di fede molto seria. Avevo 20 anni e la vita mi pareva senza senso. Soffrivo e mi domandavo dov’era quel Dio di cui tutti parlavano. Dopo un lungo periodo di dolore, però, Dio stesso ha avuto pietà di me e ha permesso che, nel tunnel buio in cui mi trovavo, intravedessi una luce. È accaduto leggendo gli scritti del filosofo francese Henri Bergson, il quale sostiene che l’intuizione è un mezzo di conoscenza della verità più profondo della ragione. Io sentivo che l’esistenza umana non era guidata dal caso, ma non ascoltavo questa intuizione, volevo delle prove, per cui la lettura di Bergson ha fatto sì che finalmente lasciassi spazio al dubbio. Mentre ero in questa condizione, mi sono scontrato con la sofferenza di alcuni conoscenti e ho toccato con mano gli abissi del dolore umano. Proprio lì ho capito che la mia intuizione era giusta: all’improvviso ho visto nei volti di quelle persone sofferenti il volto stesso di Cristo. Io, che avevo inutilmente cercato conferma dell’esistenza di Dio nella natura, nella filosofia, ho sentito profondamente in quel momento che Dio esiste. San Paolo scrive che lo spirito di Cristo dà testimonianza al nostro spirito e io ho visto in me questa testimonianza, come una certezza assoluta, che Dio c’è. È una certezza che non passa né per la ragione né per l’intelligenza: si chiama «tocco di sostanza».
In seguito a questa crisi lei ha scelto di andare a vivere a Palomeras Altas, baraccopoli alla periferia di Madrid. Nello stesso periodo ha anche incontrato Carmen Hernández, con la quale ha dato origine al Cammino. Qual è stato il ruolo di Carmen e, più in generale, qual è il ruolo delle donne all’interno del movimento da lei creato?
Quello con Carmen è stato un incontro molto importante. Lei aveva studiato teologia, veniva da un’esperienza missionaria, conosceva bene il rinnovamento portato dal Concilio Vaticano II, tutti aspetti che io invece ignoravo. E poi è una donna molto intelligente e concreta, che mi pungola di continuo, ripetendomi che devo essere più fedele al Vangelo. Ci sono inoltre donne che fanno parte delle èquipe itineranti e sono presenze fondamentali. Alcune donne sono anche responsabili del Cammino in una nazione o in una regione.
Quali sono le differenze tra il Cammino neocatecumenale e altre forme di catecumenato per adulti?
Non c’è, a mio avviso, un’esperienza analoga al Cammino. C’è il percorso di iniziazione cristiana per i bambini, oppure il catecumenato per gli adulti che vogliono ricevere il battesimo, ma percorsi di riscoperta della propria fede simili a quello proposto dal Cammino non ne vedo. Un percorso che aiuta a comprendere il senso della sessualità, della sofferenza, e che mostra come la croce di Cristo illumina le croci della nostra vita… Oggi si suppone la fede in tutti, ma le cose non stanno così. Noi proponiamo un percorso aperto ai lontani, a chi è stato battezzato ma è fuori dalla Chiesa. Un percorso che è stato definito di catecumenato post-battesimale, che cerca di guardare all’autenticità della vita cristiana.
Ne porta il nome e nella sua baracca a Palomeras Altas, oltre al Crocifisso, alla Bibbia e a una chitarra aveva solo una sua immagine. Chi è per lei Francesco d’Assisi?
È quello che mi ha insegnato che si può vivere il Vangelo sine glossa, cioè senza cercare di sminuirne la portata.
LA SCHEDA
Francisco José Gomez-Argüello nasce a León (Spagna) il 9 gennaio 1939. Studia Belle Arti all’Accademia di San Fernando di Madrid, conseguendo il titolo di professore di pittura e di disegno. Nel 1964, in seguito a una profonda crisi esistenziale, va a vivere tra i più poveri nella baraccopoli di Palomeras Altas, alla periferia di Madrid. Più tardi, Kiko conosce Carmen Hernández, con la quale dà avvio a una forma nuova di predicazione che porta alla formazione di una piccola comunità cristiana. Nasce così la prima Comunità neocatecumenale, un «seme» che, grazie all’allora arcivescovo di Madrid, Casimiro Morcillo, viene impiantato nelle parrocchie di Madrid e, più tardi, di Roma e di altre città di tutto il mondo. Lo Statuto del Cammino neocatecumenale è stato definitivamente approvato dalla Santa Sede nel 2008. Argüello nel 2013 ha pubblicato il volume Il kerigma(San Paolo).
ZOOM
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Un ciclo pittorico composto di tredici grandi icone, il cui centro è il Cristo Pantocrator. È stato realizzato da Kiko Argüello e da uno staff internazionale di altri nove artisti nella chiesa di San Giovanni Evangelista, a Mestre, tra l’estate e l’inverno del 2013. Inaugurata dal Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, lo scorso 16 marzo, questa corona misterica giunge dopo altre trenta opere simili dipinte da Argüello in tutto il mondo. L’opera pittorica di Kiko si basa essenzialmente sulla volontà di creare un ponte tra l’arte orientale e quella occidentale.
«La cosa importante per me – spiega Kiko Argüello – non è fare arte, ma realizzare qualcosa che serva, che annunzi, che commuova. Sono convinto, infatti, che solo una nuova estetica salverà la Chiesa. Le immagini della corona misterica vogliono colpire lo spirito dei fedeli che le contemplano. Esse hanno come fine quello di aiutare l’uomo a elevare il proprio spirito verso Dio. Queste pitture agiscono nell’animo del cristiano come avvenne nella Trasfigurazione, quando gli apostoli, pur non vedendo chiaramente, percepirono lo splendore della luce divina sul monte Tabor. Allo stesso modo, durante l’ascolto della Parola di Dio, e soprattutto nella liturgia, queste immagini, in una maniera diretta, immediata e più emotiva, vogliono aiutare chi le contempla a trasformarsi spiritualmente.
San Giovanni Damasceno, che, vissuto nell’VIII secolo, difese le icone durante la furia iconoclasta e che papa Leone XIII proclamò dottore della Chiesa, diceva: “Ho visto l’immagine umana di Dio e la mia anima è stata salvata”».
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