Papa Francesco: “L’inequità è la radice dei mali sociali” ... un tweet inedito?
(Luis Badilla) Il tweet che Papa Francesco ha lanciato oggi dice: “L’inequità è la radice dei mali sociali”. Si tratta di un tweet piuttosto inedito. Se si escludono i tweet con i quali il Papa ha scelto di fare riferimento ad eventi dolorosi accaduti in alcuni Paesi, dagli oltre 310 che ha proposto dall'inizio del suo pontificato questo di oggi è l'unico senza un riferimento squisitamente religioso o ecclesiale. E' un testo che potrebbe rientrare nella categoria dei temi sociologici e politici che nell'ambito della promozione umana e della dottrina sociale della Chiesa attirano fortemente la pastorale di Papa Francesco.Per il Papa certamente non è un tema nuovo. La questione dell'inequità sociale si trova in numerose omelie e soprattutto nell'Evangelii gaudium. E' nuovo sì che ora venga da lui proposto con l'intensità e la forza di una frase immediata che caratterizza il tweet, quasi fosse una "sentenza". Qualcuno si è già dichiarato sorpreso interrogandosi sulla possibile reazione degli economisti.Ecco alcuni passaggi della Evangelii gaudium in cui il Papa riflette sull'inequità:***52. L’umanità vive in questo momento una svolta storica che possiamo vedere nei progressi che si producono in diversi campi. Si devono lodare i successi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito della salute, dell’educazione e della comunicazione. Non possiamo tuttavia dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore e la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la violenza, l’inequità diventa sempre più evidente. Bisogna lottare per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità. Questo cambiamento epocale è stato causato dai balzi enormi che, per qualità, quantità, velocità e accumulazione, si verificano nel progresso scientifico, nelle innovazioni tecnologiche e nelle loro rapide applicazioni in diversi ambiti della natura e della vita. Siamo nell’era della conoscenza e dell’informazione, fonte di nuove forme di un potere molto spesso anonimo.***53. Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”.***59. Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice. Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire. Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene sempre un potenziale di dissoluzione e di morte. È il male cristallizzato nelle strutture sociali ingiuste, a partire dal quale non ci si può attendere un futuro migliore. Siamo lontani dalla cosiddetta “fine della storia”, giacché le condizioni di uno sviluppo sostenibile e pacifico non sono ancora adeguatamente impiantate e realizzate.***60. I meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta che il consumismo sfrenato, unito all’inequità, danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal modo la disparità sociale genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti. Alcuni semplicemente si compiacciono incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una “educazione” che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi. Questo diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi – nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni – qualunque sia l’ideologia politica dei governanti.***202. La necessità di risolvere le cause strutturali della povertà non può attendere, non solo per una esigenza pragmatica di ottenere risultati e di ordinare la società, ma per guarirla da una malattia che la rende fragile e indegna e che potrà solo portarla a nuove crisi. I piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie. Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità,[173] non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali.
Il pioniere
Paolo VI, il concilio e l’apertura del dialogo con gli ebrei.
Da Roncalli a Bergoglio. Anticipiamo stralci dell’intervento che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani tiene nel pomeriggio del 28 aprile a Roma, presso la Comunità di Sant’Egidio, nell’ambito del convegno «Da Giovanni XXIII a Francesco: ebrei e cristiani in dialogo».(Kurt Koch) «Il popolo ebraico in tutto il mondo si ricorderà sempre degli anni del pontificato di Papa Paolo VI come dell’inizio di una nuova epoca per le relazioni cattoliche-ebraiche». Queste parole si leggono in un necrologio ebraico pubblicato a seguito della morte di Montini.
Non dobbiamo però dimenticare che le relazioni ebraico-cattoliche ebbero la loro svolta iniziale già ai tempi del santo Papa Giovanni XXIII, il quale non solo aveva conosciuto di persona — durante i primi anni del suo servizio diplomatico — il tragico destino degli ebrei sotto il regime del terrore del Terzo Reich, ma era anche convinto della necessità di impostare su nuove basi il rapporto della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Per questo, nel settembre del 1960, aveva incaricato l’allora segretariato per l’Unità dei cristiani di preparare una dichiarazione sul popolo ebraico per l’assemblea conciliare. Il grande merito di Paolo VI è stato dunque quello di aver raccolto con coerenza gli impulsi innovatori lanciati da Giovanni XXIII, approfondendoli dal punto di vista teologico e conferendo loro nuovi accenti.
Montini fu il primo Papa dei tempi moderni a lasciare il Vaticano e il primo viaggio del suo pontificato fu nel 1964 in Israele, certo non casualmente. Una visita che ebbe luogo in condizioni molto diverse rispetto a quelle in cui si svolgerà quella di Papa Francesco nel maggio prossimo. All’epoca, tra i luoghi che Paolo VI voleva visitare ve ne erano solo pochi che si trovavano sotto la giurisdizione d’Israele. I luoghi sacri di Gerusalemme e Betlemme erano ancora sotto l’autorità della Giordania. Inoltre la Santa Sede non aveva ancora riconosciuto lo Stato d’Israele e non aveva ancora con esso relazioni diplomatiche. Per non essere strumentalizzato da nessuna delle parti, Paolo VI si sforzò di evitare una presa di posizione politica e di sottolineare insistentemente il carattere religioso del suo pellegrinaggio.
L’occasione del viaggio era l’incontro tra il Papa e il Patriarca Athenagoras di Costantinopoli. Eppure, se è vero che tale incontro è diventato il catalizzatore delle relazioni tra ortodossi e cattolici e, in un certo senso, dell’ecumenismo in generale, è anche vero che la visita in Israele di Paolo VI ha dato avvio a nuovi e proficui sviluppi nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Un segno particolarmente eloquente fu l’incontro con le autorità dello Stato di Israele, quando Montini si rivolse agli ebrei usando la definizione di «figli del popolo dell’alleanza», intendendo così che l’alleanza di Dio con il popolo ebraico è tuttora valida. Il Papa fece riferimento inoltre ai padri della Bibbia, Abramo, Isacco e Giacobbe, per evidenziare le comuni radici della fede cristiana nella religione ebraica.
Per Paolo VI le relazioni tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele non erano una questione meramente politica, ma erano strettamente legate a un nuovo concetto teologico del rapporto tra ebrei e cattolici. Per questo il viaggio in Israele è stato definito una «pietra miliare sul cammino verso un mutato rapporto tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo». È stato inoltre rilevato uno sviluppo logico che parte dal pellegrinaggio del 1964, passa attraverso la Dichiarazione conciliare Nostra aetate e giunge all’istituzione di relazioni formali diplomatiche tra la Santa Sede e Israele con l’accordo del 1993.
Guardando al passato, si può addirittura dire che la nuova politica nei confronti di Israele della Santa Sede è inimmaginabile senza la nuova teologia nei confronti di Israele promossa da Papa Paolo VI.
Con il suo viaggio in Terra Santa, Montini si era prefissato senza dubbio lo scopo di impostare su nuove basi il dialogo con l’ebraismo, di intensificarlo e di preparare la strada alle posizioni religiose e teologiche che il concilio avrebbe dovuto prendere. I primi frutti del nuovo approccio teologico all’ebraismo possono essere rintracciati nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam del 6 agosto 1964, in cui inscrive il dialogo all’interno del programma della Chiesa cattolica: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». Secondo la sua visione, il dialogo deve svilupparsi in tre cerchi concentrici: innanzitutto con tutti gli uomini, poi con i credenti e infine con i fratelli cristiani separati. Nel secondo cerchio, il Papa dà rilievo soprattutto agli ebrei: «Alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento».
Con queste parole il Papa non ha soltanto voluto esprimere il fatto che i dialoghi della Chiesa cattolica con i cristiani divisi, con gli ebrei e con i non cristiani sono strettamente legati; ma intendeva ancora più chiaramente sottolineare che il dialogo ecumenico con i fratelli separati e quello con gli ebrei sono inscindibili.
Questa convinzione, Paolo VI la confermò con particolare forza conferendole anche una forma istituzionale nel 1974, quando, il 22 ottobre, fondò una Commissione autonoma per i rapporti religiosi con l’ebraismo, associandola non al Segretariato per il dialogo interreligioso, istituito verso la fine del Concilio, ma al Segretariato per l’unità del cristiani.
Su questo sfondo teologico, non sorprende che la nuova visione delle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo agli occhi di Paolo VI abbia potuto trovare accesso anche nella liturgia. Come già aveva fatto Giovanni XXIII in maniera inattesa durante la liturgia del Venerdì santo del 1959, quando aveva disposto che dalla preghiera per gli ebrei venisse tolto l’aggettivo «perfidi», così Paolo VI introdusse una nuova formula di quella preghiera, che ne attenua sia il contenuto sia il tono. Con tale formula è stato possibile superare un grande ostacolo nel dialogo ebraico-cristiano.
Questi orientamenti hanno spianato il terreno alla promulgazione, da parte di Paolo VI, della Dichiarazione sul rapporto tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, del concilio Vaticano II.
Il processo era iniziato quando Giovanni XXIII, il 18 settembre 1960, aveva affidato al cardinale Augustin Bea, responsabile del Segretariato per l’unità dei cristiani, l’incarico di preparare una dichiarazione sul popolo ebraico. All’epoca il Papa non poteva immaginare la portata che avrebbe avuto in seguito tale incarico. I problemi risiedevano non tanto nel campo teologico quanto in quello politico. Ciò spiega la complessa storia del testo di questa dichiarazione, che originariamente era stata concepita come documento autonomo, ma che poi fu integrata in varie fasi nel Decreto sull’ecumenismo, anch’esso in via di preparazione, e nella Dichiarazione sulla libertà religiosa. Poi si decise di inserire il testo come quarto articolo nel più ampio quadro della Dichiarazione conciliare «sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane», che reca il titolo di Nostra aetate.
La Nostra aetate fu approvata dal concilio durante la sua ultima sessione, il 28 ottobre 1965, con il 96 per cento dei voti. Per la prima volta nella storia un concilio ecumenico si è espresso in modo così esplicito e positivo circa le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Non solo. Il Vaticano II non si è occupato soltanto di prospettive meramente pragmatiche, ma ha considerato la questione delle relazioni ebraico-cristiane in un orizzonte teologico, sulla base di solidi fondamenti biblici. In terzo luogo, va notato che questa nuova visione del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo ha trovato espressione anche in importanti Costituzioni del concilio. Così, ad esempio, la Lumen gentium evidenzia il fatto che Israele continua a essere il popolo eletto di Dio e che la Chiesa cristiana proviene da questo popolo. Analogamente la Dei verbum espone la stessa convinzione nel contesto della teologia della rivelazione.
L’articolo 4 di Nostra aetate è considerato giustamente il documento fondante, la Magna charta, del dialogo ebraico-cattolico, e ha segnato un nuovo punto di partenza fondamentale nelle relazioni tra il cristianesimo e l’ebraismo. Quanto Paolo VI abbia contribuito a tutto questo emerge anche dal fatto che, l’anno stesso in cui fu istituita la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, venne stilato e pubblicato, con l’approvazione esplicita del Papa, il documento «Linee guida e orientamenti per l’applicazione della Dichiarazione Conciliare Nostra aetate n. 4», nel quale è contenuto un ampio programma per il riavvicinamento ebraico-cristiano.
Nel documento si dà voce al grande apprezzamento nutrito da parte cristiana per l’ebraismo e si evidenzia la considerevole importanza che il dialogo riveste per la Chiesa stessa. Partendo dalla testimonianza della fede in Gesù Cristo, si tiene conto del carattere specifico del dialogo con l’ebraismo, si fa riferimento ai legami esistenti nella liturgia, si menzionano nuove possibilità sul cammino del riavvicinamento nel campo della dottrina, dell’insegnamento e della formazione e si propongono attività comuni in ambito sociale.
Paolo VI, inoltre, ha attribuito un ruolo importante anche ai colloqui personali con i rappresentanti dell’ebraismo, durante i quali egli ha sempre lanciato un invito ad approfondire le relazioni.
Ciò che Montini ha introdotto in maniera innovativa a fondamento del dialogo ebraico-cattolico è stato confermato e approfondito in vario modo dai Pontefici che si sono susseguiti dopo il Vaticano II. La svolta epocale nel rapporto tra ebrei e cristiani voluta da Paolo VI deve infatti continuamente fare i conti con nuove prove. Da un lato, il flagello dell’antisemitismo pare difficile da sradicare anche ai nostri giorni, così che la Chiesa cattolica ha sempre il dovere di scendere in campo contro questo temibile fenomeno come fedele alleata dell’ebraismo. Dall’altro lato, anche se le questioni teologiche fondamentali riguardanti il rapporto tra cristianesimo ed ebraismo sono state trattate per la prima volta, in maniera incoraggiante in Nostra aetate, sarebbe esagerato però affermare che sono già state risolte. Piuttosto esse richiedono un’ulteriore riflessione teologica, auspicabile anche da parte ebraica. Ciò vale soprattutto per la questione di come sia possibile conciliare la convinzione di fede, che noi cristiani abbiamo in comune con gli ebrei, secondo la quale l’alleanza stipulata da Dio con Israele non è mai stata rescissa ed è sempre valida, e la convinzione di fede cristiana imperniata sulla novità della nuova alleanza donataci in Gesù Cristo. In modo che ebrei e cristiani non si sentano lesi, ma accolti seriamente nelle loro rispettive convinzioni.
Questo necessario approfondimento teologico sarà sotto una buona stella se il dialogo ebraico-cristiano continuerà a essere portato avanti sulla base di quell’alleanza che Dio ha stretto con Abramo, che non è soltanto il padre di Israele, ma anche il padre della fede dei cristiani.
Coscienti di ciò, ci avviciniamo al viaggio che Papa Francesco compirà in Terra Santa cinquant’anni dopo quello in Israele di Paolo VI, e ci prepariamo al cinquantesimo anniversario della promulgazione della Nostra aetate.
L'Osservatore Romano
Paolo VI, il concilio e l’apertura del dialogo con gli ebrei.
Da Roncalli a Bergoglio. Anticipiamo stralci dell’intervento che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani tiene nel pomeriggio del 28 aprile a Roma, presso la Comunità di Sant’Egidio, nell’ambito del convegno «Da Giovanni XXIII a Francesco: ebrei e cristiani in dialogo».(Kurt Koch) «Il popolo ebraico in tutto il mondo si ricorderà sempre degli anni del pontificato di Papa Paolo VI come dell’inizio di una nuova epoca per le relazioni cattoliche-ebraiche». Queste parole si leggono in un necrologio ebraico pubblicato a seguito della morte di Montini.
Non dobbiamo però dimenticare che le relazioni ebraico-cattoliche ebbero la loro svolta iniziale già ai tempi del santo Papa Giovanni XXIII, il quale non solo aveva conosciuto di persona — durante i primi anni del suo servizio diplomatico — il tragico destino degli ebrei sotto il regime del terrore del Terzo Reich, ma era anche convinto della necessità di impostare su nuove basi il rapporto della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Per questo, nel settembre del 1960, aveva incaricato l’allora segretariato per l’Unità dei cristiani di preparare una dichiarazione sul popolo ebraico per l’assemblea conciliare. Il grande merito di Paolo VI è stato dunque quello di aver raccolto con coerenza gli impulsi innovatori lanciati da Giovanni XXIII, approfondendoli dal punto di vista teologico e conferendo loro nuovi accenti.
Montini fu il primo Papa dei tempi moderni a lasciare il Vaticano e il primo viaggio del suo pontificato fu nel 1964 in Israele, certo non casualmente. Una visita che ebbe luogo in condizioni molto diverse rispetto a quelle in cui si svolgerà quella di Papa Francesco nel maggio prossimo. All’epoca, tra i luoghi che Paolo VI voleva visitare ve ne erano solo pochi che si trovavano sotto la giurisdizione d’Israele. I luoghi sacri di Gerusalemme e Betlemme erano ancora sotto l’autorità della Giordania. Inoltre la Santa Sede non aveva ancora riconosciuto lo Stato d’Israele e non aveva ancora con esso relazioni diplomatiche. Per non essere strumentalizzato da nessuna delle parti, Paolo VI si sforzò di evitare una presa di posizione politica e di sottolineare insistentemente il carattere religioso del suo pellegrinaggio.
L’occasione del viaggio era l’incontro tra il Papa e il Patriarca Athenagoras di Costantinopoli. Eppure, se è vero che tale incontro è diventato il catalizzatore delle relazioni tra ortodossi e cattolici e, in un certo senso, dell’ecumenismo in generale, è anche vero che la visita in Israele di Paolo VI ha dato avvio a nuovi e proficui sviluppi nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Un segno particolarmente eloquente fu l’incontro con le autorità dello Stato di Israele, quando Montini si rivolse agli ebrei usando la definizione di «figli del popolo dell’alleanza», intendendo così che l’alleanza di Dio con il popolo ebraico è tuttora valida. Il Papa fece riferimento inoltre ai padri della Bibbia, Abramo, Isacco e Giacobbe, per evidenziare le comuni radici della fede cristiana nella religione ebraica.
Per Paolo VI le relazioni tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele non erano una questione meramente politica, ma erano strettamente legate a un nuovo concetto teologico del rapporto tra ebrei e cattolici. Per questo il viaggio in Israele è stato definito una «pietra miliare sul cammino verso un mutato rapporto tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo». È stato inoltre rilevato uno sviluppo logico che parte dal pellegrinaggio del 1964, passa attraverso la Dichiarazione conciliare Nostra aetate e giunge all’istituzione di relazioni formali diplomatiche tra la Santa Sede e Israele con l’accordo del 1993.
Guardando al passato, si può addirittura dire che la nuova politica nei confronti di Israele della Santa Sede è inimmaginabile senza la nuova teologia nei confronti di Israele promossa da Papa Paolo VI.
Con il suo viaggio in Terra Santa, Montini si era prefissato senza dubbio lo scopo di impostare su nuove basi il dialogo con l’ebraismo, di intensificarlo e di preparare la strada alle posizioni religiose e teologiche che il concilio avrebbe dovuto prendere. I primi frutti del nuovo approccio teologico all’ebraismo possono essere rintracciati nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam del 6 agosto 1964, in cui inscrive il dialogo all’interno del programma della Chiesa cattolica: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». Secondo la sua visione, il dialogo deve svilupparsi in tre cerchi concentrici: innanzitutto con tutti gli uomini, poi con i credenti e infine con i fratelli cristiani separati. Nel secondo cerchio, il Papa dà rilievo soprattutto agli ebrei: «Alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento».
Con queste parole il Papa non ha soltanto voluto esprimere il fatto che i dialoghi della Chiesa cattolica con i cristiani divisi, con gli ebrei e con i non cristiani sono strettamente legati; ma intendeva ancora più chiaramente sottolineare che il dialogo ecumenico con i fratelli separati e quello con gli ebrei sono inscindibili.
Questa convinzione, Paolo VI la confermò con particolare forza conferendole anche una forma istituzionale nel 1974, quando, il 22 ottobre, fondò una Commissione autonoma per i rapporti religiosi con l’ebraismo, associandola non al Segretariato per il dialogo interreligioso, istituito verso la fine del Concilio, ma al Segretariato per l’unità del cristiani.
Su questo sfondo teologico, non sorprende che la nuova visione delle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo agli occhi di Paolo VI abbia potuto trovare accesso anche nella liturgia. Come già aveva fatto Giovanni XXIII in maniera inattesa durante la liturgia del Venerdì santo del 1959, quando aveva disposto che dalla preghiera per gli ebrei venisse tolto l’aggettivo «perfidi», così Paolo VI introdusse una nuova formula di quella preghiera, che ne attenua sia il contenuto sia il tono. Con tale formula è stato possibile superare un grande ostacolo nel dialogo ebraico-cristiano.
Questi orientamenti hanno spianato il terreno alla promulgazione, da parte di Paolo VI, della Dichiarazione sul rapporto tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, del concilio Vaticano II.
Il processo era iniziato quando Giovanni XXIII, il 18 settembre 1960, aveva affidato al cardinale Augustin Bea, responsabile del Segretariato per l’unità dei cristiani, l’incarico di preparare una dichiarazione sul popolo ebraico. All’epoca il Papa non poteva immaginare la portata che avrebbe avuto in seguito tale incarico. I problemi risiedevano non tanto nel campo teologico quanto in quello politico. Ciò spiega la complessa storia del testo di questa dichiarazione, che originariamente era stata concepita come documento autonomo, ma che poi fu integrata in varie fasi nel Decreto sull’ecumenismo, anch’esso in via di preparazione, e nella Dichiarazione sulla libertà religiosa. Poi si decise di inserire il testo come quarto articolo nel più ampio quadro della Dichiarazione conciliare «sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane», che reca il titolo di Nostra aetate.
La Nostra aetate fu approvata dal concilio durante la sua ultima sessione, il 28 ottobre 1965, con il 96 per cento dei voti. Per la prima volta nella storia un concilio ecumenico si è espresso in modo così esplicito e positivo circa le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Non solo. Il Vaticano II non si è occupato soltanto di prospettive meramente pragmatiche, ma ha considerato la questione delle relazioni ebraico-cristiane in un orizzonte teologico, sulla base di solidi fondamenti biblici. In terzo luogo, va notato che questa nuova visione del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo ha trovato espressione anche in importanti Costituzioni del concilio. Così, ad esempio, la Lumen gentium evidenzia il fatto che Israele continua a essere il popolo eletto di Dio e che la Chiesa cristiana proviene da questo popolo. Analogamente la Dei verbum espone la stessa convinzione nel contesto della teologia della rivelazione.
L’articolo 4 di Nostra aetate è considerato giustamente il documento fondante, la Magna charta, del dialogo ebraico-cattolico, e ha segnato un nuovo punto di partenza fondamentale nelle relazioni tra il cristianesimo e l’ebraismo. Quanto Paolo VI abbia contribuito a tutto questo emerge anche dal fatto che, l’anno stesso in cui fu istituita la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, venne stilato e pubblicato, con l’approvazione esplicita del Papa, il documento «Linee guida e orientamenti per l’applicazione della Dichiarazione Conciliare Nostra aetate n. 4», nel quale è contenuto un ampio programma per il riavvicinamento ebraico-cristiano.
Nel documento si dà voce al grande apprezzamento nutrito da parte cristiana per l’ebraismo e si evidenzia la considerevole importanza che il dialogo riveste per la Chiesa stessa. Partendo dalla testimonianza della fede in Gesù Cristo, si tiene conto del carattere specifico del dialogo con l’ebraismo, si fa riferimento ai legami esistenti nella liturgia, si menzionano nuove possibilità sul cammino del riavvicinamento nel campo della dottrina, dell’insegnamento e della formazione e si propongono attività comuni in ambito sociale.
Paolo VI, inoltre, ha attribuito un ruolo importante anche ai colloqui personali con i rappresentanti dell’ebraismo, durante i quali egli ha sempre lanciato un invito ad approfondire le relazioni.
Ciò che Montini ha introdotto in maniera innovativa a fondamento del dialogo ebraico-cattolico è stato confermato e approfondito in vario modo dai Pontefici che si sono susseguiti dopo il Vaticano II. La svolta epocale nel rapporto tra ebrei e cristiani voluta da Paolo VI deve infatti continuamente fare i conti con nuove prove. Da un lato, il flagello dell’antisemitismo pare difficile da sradicare anche ai nostri giorni, così che la Chiesa cattolica ha sempre il dovere di scendere in campo contro questo temibile fenomeno come fedele alleata dell’ebraismo. Dall’altro lato, anche se le questioni teologiche fondamentali riguardanti il rapporto tra cristianesimo ed ebraismo sono state trattate per la prima volta, in maniera incoraggiante in Nostra aetate, sarebbe esagerato però affermare che sono già state risolte. Piuttosto esse richiedono un’ulteriore riflessione teologica, auspicabile anche da parte ebraica. Ciò vale soprattutto per la questione di come sia possibile conciliare la convinzione di fede, che noi cristiani abbiamo in comune con gli ebrei, secondo la quale l’alleanza stipulata da Dio con Israele non è mai stata rescissa ed è sempre valida, e la convinzione di fede cristiana imperniata sulla novità della nuova alleanza donataci in Gesù Cristo. In modo che ebrei e cristiani non si sentano lesi, ma accolti seriamente nelle loro rispettive convinzioni.
Questo necessario approfondimento teologico sarà sotto una buona stella se il dialogo ebraico-cristiano continuerà a essere portato avanti sulla base di quell’alleanza che Dio ha stretto con Abramo, che non è soltanto il padre di Israele, ma anche il padre della fede dei cristiani.
Coscienti di ciò, ci avviciniamo al viaggio che Papa Francesco compirà in Terra Santa cinquant’anni dopo quello in Israele di Paolo VI, e ci prepariamo al cinquantesimo anniversario della promulgazione della Nostra aetate.
L'Osservatore Romano
Il giorno dopo.
"Oggi per la prima volta durante la preghiera eucaristica ho nominato Giovanni Paolo II come Santo e mi ha fatto una grande impressione. La mia voce ha cominciato a tremare. E' stata una grande gioia per me. Un momento che abbiamo atteso tutti, non solo dalla morte di S. Giovanni Paolo II, ma anche fin da quando era in vita. Durante il mio lavoro con Papa Wojtyla ho potuto sperimentare la sua santità che oggi ha trovato conferma ufficiale della Chiesa. E questo mi rende veramente felice". Sono le emozioni e le riflessioni di don Pawel Ptasnik, della sezione polacca della Segreteria di Stato vaticana, già collaboratore di Giovanni Paolo II, all'indomani della cerimonia di Canonizzazione del 27 aprile. "Karol Wojtyla era molto umano, ha costruito su questa base tutta la sua spiritualità. Era semplice e buono, aperto, sensibile e attento alle altre persone. E aveva una grande capacità di ascolto che si prolungava in un'attenzione continua durante la preghiera. Dopo mesi, anni, era capace di tornare a pensare a una persona o a un problema e domandarsi se fosse stato risolto. Aveva poi una profondissima unione con Dio. Era in preghiera in molti momenti della giornata in modo profondo ma semplice. Era capace di rendere mistiche anche forme di preghiera popolari come i canti e le litanie della tradizione polacca. E poi pregava sempre per gli altri e noi avevamo spesso la conferma dell'efficacia delle sue preghiere. E pregava per la Chiesa nel mondo: ogni giorno sceglieva un pezzo del popolo di Dio per cui pregare, cercando di ricordarsi delle loro gioie e dei loro problemi. Amava la Chiesa e il mondo, voleva far vedere l'azione dello Spirito di Cristo Risorto nella storia passata, presente e futura della Chiesa". "Il ricordo più intenso che mi porto nel cuore è lo sguardo di Papa Francesco quando gli ho consegnato la reliquia di Papa Giovanni XXIII. L'ha baciata e me l'ha restituita guardandomi fisso negli occhi. Quasi a dirmi che si trattava di un tesoro prezioso che affidava attraverso di me alla fondazione, alla diocesi e alla Chiesa tutta". Così, don Ezio Bolis, direttore della Fondazione Giovanni XXIII di Bergamo, ricorda per noi la cerimonia di canonizzazione di domenica 27 aprile. "Papa Francesco ha detto che Roncalli e Wojtyla hanno 'collaborato con lo Spirito Santo per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria'. Ancora una volta Francesco ha colto nel segno intuendo la profonda sintonia tra questi due papi santi proprio sul tema del Concilio. Roncalli l'ha voluto, preparato e aperto. Wojtyla vi ha partecipato e l'ha messo in pratica prima nella sua diocesi di Cracovia e poi nella Chiesa universale. Presentandoci questi due santi il Papa ci dice che i frutti del Concilio sono tutt'altro che esauriti". (a cura di Fabio Colagrande, Radio Vaticana)
*
Se il Concilio diventa santoL'UnitàColpivano ieri le immagini di quella grande folla multilingue e multicolore che ha animato la cerimonia di canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II. Due Papi proclamati santi nello stesso giorno. Due Papi «recenti», di cui molti hanno memoria diretta. Si è (...)
San Pietro ancora affollata di fedeli: oggi la messa per la comunità polacca (Il Messaggero)
Canonizzazioni, il giorno dopo a San Pietro ancora migliaia di fedeli per la messa di ringraziamento (Repubblica.it)
*Comastri: "La canonizzazione di Wojtyla un dono necessario"
In piazza San Pietro gremita di fedeli il Vicario del Papa celebra la Messa di ringraziamento per la proclamazione del Pontefice polacco, che "benedice dall'alto l'Italia"
GIACOMO GALEAZZICITTA'DEL VATICANO
"Karol Wojtyla benedice dall'alto l'Italia". Sono tornati in piazza San Pietro per ringraziare dei nuovi Papi Santi. Oltre 80mila fedeli hanno partecipato questa mattina alla messa per la canonizzazione di San Giovanni Paolo II presieduta in piazza San Pietro dal cardinale Angelo Comastri, arciprete della Basilica vaticana e vicario del Papa per la Città del Vaticano.
Tra i concelebranti anche il cardinale Stanislao Dziwisz, storico segretario di Karol Wojtyla e oggi suo successore nella sede di Cracovia.
Dunque prosegue in Vaticano il pacifico assedio di decine di migliaia di persone giunte per la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Stamattina piazza San Pietro è gremitissima sia nei settori centrali che nelle ali. Anche i dintorni di piazza San Pietro sono affollati di fedeli e turisti, rimasti a Roma dopo le canonizzazioni di ieri, e che approfittano per visitare i musei vaticani e soprattutto rendere omaggio alle tombe dei neo-santi.
“Un dono necessario” è stata per il cardinale Angelo Comastri la canonizzazione di Papa Wojtyla, il “papa della famiglia”, in un momento in cui, ha detto, «la famiglia è aggredita e minacciata».
Il Porporato ha anche ricordato la “difesa della vita umana” al centro della predicazione e dell’azione di Giovanni Paolo II, e ha citato ampie frasi di Papa Wojtyla a difesa della vita, compreso il “grido di Agrigento” contro la mafia.
Comastri ha poi citato le “parole vere, sante, attuali” dette da Giovanni Polo II nel tentativo strenuo di evitare la guerra del Golfo.
Nel saluto iniziale ai fedeli riuniti in Basilica, affidato all’arcivescovo di Cracovia Dziwisz, questi ha definito Giovanni Paolo II “figlio della terra polacca, il papa della Divina Misericordia” che, “ha conseguentemente messo in vita le decisioni del Concilio e ha anche introdotto la Chiesa nel terzo millennio della fede cristiana”.
Il cardinale Dziwisz, che è stato per circa quarant’anni segretario di Karol Wojtyla, ha concluso ricordando che per lui l’Italia "è diventata una seconda Patria". Quindi "oggi sicuramente", ha evidenziato il Porporato, "Giovanni Paolo II la benedice dall’alto, come anche benedice la Polonia e il mondo intero. Nel suo cuore hanno trovato posto tutte le nazioni, le culture, le lingue".
*
Messa a San Carlo al Corso. Cardinale D. Tettamanzi: L’eredità di Roncalli
Nella chiesa romana dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso — dove Angelo Giuseppe Roncalli fu ordinato vescovo nel 1925 — è stata celebrata la messa di ringraziamento per la sua canonizzazione. A presiederla lunedì mattina, 28 aprile, il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo emerito di Milano. Hanno concelebrato l’arcivescovo Gabriele Caccia, nunzio apostolico in Libano, e Francesco Beschi, vescovo di Bergamo.
Momento centrale della celebrazione, la lettura da parte di monsignor Beschi della lettera scritta a Papa Francesco in segno di riconoscenza per la decisione di proclamare santi il Pontefice bergamasco e quello polacco. «Benediciamo il Signore — ha detto il presule — per il dono della santità di Papa Giovanni XXIII e di Papa Giovanni Paolo II. La proclamazione di questo dono davanti alla Chiesa e al mondo alimenta la speranza che scaturisce dal Vangelo e da coloro che lo testimoniano in modo luminoso». Allo stesso tempo, ha aggiunto, «ci sprona a ricercare, appassionatamente e con intima gioia, di raccogliere la seminagione del Vangelo che avviene attraverso i suoi testimoni e di coltivare quanto è stato seminato nella vita di ciascuno di noi, nella sua specifica vocazione e missione e nella vita di tutte le nostre comunità».
Il vescovo ha poi sottolineato come Papa Francesco, con le sue parole e i suoi gesti, abbia fatto «brillare ai nostri occhi in modo ancor più luminoso il grande esempio e la preziosa eredità del Papa, nato, cresciuto, vissuto nella nostra terra e nella nostra Chiesa diocesana che ha tanto amato». Ricordando la lettera scritta dal Pontefice ai fedeli bergamaschi in occasione della canonizzazione il presule ne ha riproposto le tre raccomandazioni centrali: «custodire la memoria del terreno» nel quale è germinata la santità di Roncalli, «accogliere il cambiamento e le provocazioni che comporta per chi vuol essere fedele al Vangelo» e «continuare a camminare con convinzione lungo la strada tracciata dal concilio».
In definitiva, ha concluso monsignor Beschi, il Papa ha invitato tutta la società bergamasca a «perseguire i valori della fraternità e della solidarietà, che in maniera profonda e forte ne hanno disegnato una fisionomia che possiamo continuamente rigenerare se li poniamo come tratti indiscutibili e impegnativi della nostra convivenza civile».
Successivamente, nella basilica vaticana, all’altare di san Girolamo — dove sono conservate le spoglie mortali di Giovanni XXIII — i pellegrini di Sotto il Monte hanno partecipato alla prima messa in onore del nuovo santo. A presiederla monsignor Maurizio Malvestiti, sotto-segretario della Congregazione per le Chiese Orientali.L'Osservatore Romano, 29 aprile 2014.
Nessun commento:
Posta un commento