Santa Maria,

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...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

sabato 3 maggio 2014

Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? "Chi vede me vede il Padre"


III Domenica del Tempo di Pasqua. Anno A

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3 Maggio. Santi Filippo e Giacomo





L'ANNUNCIO
In quel tempo, Gesù disse a Tommaso: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre; fin da ora lo conoscete e lo avete veduto”.Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è in me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse.In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre.Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò”. (Dal Vangelo secondo Giovanni 14,6-14 )

"Chi vede me vede il Padre"



I nostri occhi cercano il Padre. Da sempre."Se quello che i mortali desiderano potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre": così Telemaco, il figlio di Ulisse, testimoniava nell'Odissea l'angoscia di un figlio alla ricerca di suo padre. In fondo la vita non vi e' altro che l'attesa di nostro Padre, e ogni atto che compiamo nasconde l'esigenza insopprimibile. E' orfano chi non può vedere suo Padre. Abbiamo tutti un urgente bisogno di vedere il volto di nostro Padre, di conoscere le nostre radici, di scoprire un punto di appoggio per la nostra vita. La nostra e' una generazione di orfani cui e' stata preclusa la visione decisiva. Come si può vivere senza Padre? Impossibile, devastante. Nella vita morale regna il caos del relativismo, ogni opinione diviene via, verita' e vita. L'esito e' sotto i nostri occhi. Morte, coniugata in aborto, droga, divorzio, anoressia, bulimia... "Solo a partire da un’appartenenza posso immaginare un destino. Solo se vengo da qualche parte posso andare verso una direzione" (Claudio Rise'). Vivere da orfani e' vivere disorientati, incapaci di soffrire, senza una spina dorsale. Gli eventi, siano essi felici o tristi, si abbattono sulla vita frantumandola. Chi non ha visto il Padre vive dissipato e senza una meta autentica. Scrive un lucido psichiatra: "Il padre e' colui che espone il figlio all’esperienza del dolore, ed il suo segno è la ferita. Egli impone al figlio un sacrificio, lo sottopone alla prova. La natura della prova consiste nel chiedergli di affrontare la fatica delle rinunce necessarie per crescere bene, riuscire, avere buoni rapporti con gli altri ed essere davvero contento di se'... La ferita inferta dal padre riguarda esattamente questo: costringe il figlio a smettere di pensare la vita in termini infantili, quasi fosse un paradiso terrestre dove tutto è facile, senza fatica, dove nulla e' richiesto per poter vivere e per avere un buon rapporto con gli altri… Il segno del rapporto con il padre e' la “ferita” che il figlio porta con se', nel suo carattere e nella sua concezione della vita, come conseguenza della difficolta' cui e' stato sottoposto, che ha accettato e che ha positivamente superato. Il padre chiede al figlio di non fare del proprio “piacere” la misura ultima del bene e del male… Ma perche' questo accada e' necessario che il figlio attraversi l’esperienza della prova, termine messo al bando da una cultura che ha gettato nel discredito la sensibilità educativa maschile." (Osvaldo Poli). Nel catecumenato della Chiesa primitiva, alle soglie dell'ultima tappa che schiudeva le porte al Battesimo, ai catecumeni veniva consegnata la preghiera del Padre Nostro. Al termine di un lungo percorso di iniziazione alla fede, fatto di ascolto ed esperienza, il catecumeno apriva gli occhi su suo Padre, autore e origine della sua vita. Lo aveva conosciuto sperimentando la sua presenza, la sua misericordia e il suo amore negli eventi della sua esistenza. La prova del dolore, il crogiolo della Croce ne aveva forgiato l'immagine, sino a renderla conforme a quella di suo Padre: "Sant’Ireneo dice in un passo che noi dobbiamo abituarci a Dio, come Dio si e' abituato a noi, agli uomini nell'incarnazione. Dobbiamo familiarizzarci con lo stile di Dio, così da imparare a portare in noi la sua presenza. Con un’espressione teologica: deve essere liberata in noi l’immagine di Dio, cio' che ci fa capaci di comunione di vita con lui. La tradizione paragona questo con l’azione dello scultore, che stacca dalla pietra con lo scalpello pezzo dopo pezzo, in modo che divenga visibile la forma da lui intuita... poiche' in realtà noi possiamo riconoscere solo cio' per cui si dà in noi una corrispondenza" (J. Ratzinger). Al termine del cammino di fede il catecumeno recava ormai impressa la ferita che sigillava l'appartenenza esclusiva a Dio, la stessa ferita del Signore Gesu', e poteva riconoscere così quanto di lui era più corrispondente al suo essere, Colui dal quale era stato creato ad immagine e somiglianza, suo Padre: “Se l’occhio non fosse solare, non potrebbe riconoscere il sole” (Goethe). Il processo che conduce alla conoscenza del Padre e' un processo vitale di assimilazione, un catecumenato, nel quale, passo dopo passo, il catecumeno giungeva ad accogliere in pienezza l'elezione ad essere cristiano, e, come San Francesco, poteva spogliarsi dell'uomo vecchio che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e rivestire l'uomo nuovo, il figlio di Dio: «Non avete ricevuto uno spirito di schiavitu', per ricadere nel timore, ma uno spirito che vi rende figli, col quale gridiamo: Abba, Padre!» (Rm 8,15). Il figlio e' libero, ha imparato a vedere il Padre attraverso la sofferenza che sorge dai passi della propria storia, quelli che conducono, a poco a poco, come in un catecumenato, a compiere la volonta' di Dio. Vedere il Padre e' vedere Cristo, l'unico che ha compiuto la volontà di Dio. Vederlo e' imparare da Lui, lasciarsi attirare nella sua stessa vita che ci trascina nel passaggio dalla morte alla vita attraverso le ferite della Croce. Gesu' e' via, verità e vita, perche' percorre per noi e con noi la via dolorosa, quella che attende ogni giorno i nostri passi. Verità e vita perche' via autentica, che non rigetta nessuna sofferenza, che conduce al luogo che Lui ci ha preparato, l'intimita' incorruttibile con la fonte della vita eterna, l'intimita' con nostro Padre. Con Gesù si impara ad essere figli e ad obbedire dalle cose che patiamo, passando dall'infantilismo che fa "del proprio “piacere” la misura ultima del bene e del male", alla maturita' di chi puo' soffrire per compiere il bene autentico. Gesu' e' via, verita' e vita perche' ci insegna a vivere nel Getsemani, il luogo dove scaturisce, puro e abbandonato, il grido liberante: "Abba', Padre! Tutto ti è possibile, allontana da me questo calice! Non però quello che io voglio, ma quello che tu vuoi". Vedere il Padre con gli stessi occhi di Cristo, il nostro sguardo nello sguardo di Lui, nel quotidiano Getsemani che costituisce la nostra vita. I rapporti con i genitori, con il coniuge, con il figlio, con il fidanzato, con gli amici. La sessualità e lo studio, il lavoro e lo svago, tutto vissuto come figli nel Figlio, smettendo di "pensare la vita in termini infantili, quasi fosse un paradiso terrestre dove tutto è facile, senza fatica, dove nulla è richiesto". Vedere il Padre ci basta, perchè è sapere che esiste una volontà buona, giusta, bella e piena per la propria vita, ed essa coincide con il dono totale di sè. Vedere il Padre è non appropriarsi di nulla e nessuno, è rispettare e accogliere chi ci è vicino. Vedere il Padre è lasciarsi ferire dall'amore che nulla esige per sè ma tutto dona. Vedere il Padre è sapersi amati oltre ogni morte e dolore, di un amore più forte di qualunque peccato. Vedere il Figlio è dunque vedere il Padre, e questo è quanto basta ad ogni uomo per essere felice, in qualunque circostanza. Ed il volto di Cristo si incarna pienamente nella Chiesa, corpo vivente e visibile del Signore. Così chiunque fissi e guardi la Chiesa può vedere Gesù, e, in Lui, il Padre, l'approdo di ogni vita, il destino di ogni uomo. La missione della Chiesa, e di ciascuno di noi, non è dunque altro che essere quello che già siamo, per incendiare il mondo con la luce di Cristo. Essere suoi. Essere uno con Lui. Rimanere nel suo amore. Che Dio ce lo conceda, è questa davvero la Grazia più grande da implorare al Padre nel nome di Cristo: lo Spirito Santo che ci faccia intimi a Gesù, una sola carne e un solo spirito con Lui. Per noi, per il mondo. Perchè i figli, i genitori, gli amici, chiunque abbiamo a cuore possa vedere Dio, e credere in Lui. Quante volte soffriamo, ci scoraggiamo, perchè gli altri non si accorgono di Dio, non ne vogliono sapere. Certo, ognuno è libero, ma per esserlo davvero una volta almeno nella vita deve poter vedere Dio, toccare il suo amore. Poi potrà rifiutarlo. Per questo siamo stati chiamati nella Chiesa. Per questo prima di tutto, prima ancora che pregare per i figli, o per chiunque, è fondamentale chiedere a Dio d'essere suoi sino in fondo. E' l'evidenza di Dio in noi che aprirà al mondo lo sguardo su Dio. E' questo il fondamento della missione della Chiesa, dell'educazione, della testimonianza, della nostra stessa esistenza: "È necessario che ogni cosa risalga alle sue origini. Perciò tra tante e tanto grandi chiese, unica è la prima fondata dagli apostoli e dalla quale derivano tutte le altre. Così tutte sono prime e tutte apostoliche, perché tutte sono una. La comunione di pace, la fraternità che le caratterizza, la vicendevole disponibilità dimostrano la loro unità. Titolo di queste prerogative è la medesima tradizione e il medesimo sacro legame. Che cosa poi gli apostoli abbiano predicato, cioè che cosa Cristo abbia loro rivelato, non può essere altrimenti provato che per mezzo delle chiese stesse che gli apostoli hanno fondato, e alle quali hanno predicato sia a viva voce, sia in seguito per mezzo di lettere" (Tertulliano, Sulla prescrizione degli eretici, 20, 1ss). Esistiamo perche' Gesù possa prendere dimora in noi, e fare di noi, giorno dopo giorno, la comunione di pace e di vita eterna che, come una lettera viva, giunga al mondo intero. Lui il nostro luogo, e con Lui nel Padre, nostra eterna dimora. E noi sua dimora, qui ed ora, nella nostra carne, ed eternamente, in un vincolo d'amore che nulla e nessuno potrà mai distruggere. Anche oggi, e in ogni istante. Che Dio ce lo conceda, al di là di ogni ostacolo frapposto dalla nostra debolezza.



APPROFONDIMENTI




αποφθεγμα Apoftegma



Guardate alla forma d'una pietra squadrata: 
il cristiano deve essere simile ad essa! 
Di fronte a qualsiasi tentazione il cristiano non cade. 

Anche se è spinto e, quasi, capovolto, egli non cade. 
Una pietra di forma quadrata, infatti, 
da qualunque parte tu la giri, sta dritta... 
Siate, dunque, squadrati in questo modo, 
cioè pronti a qualsiasi tentazione. 
Qualunque cosa vi colpisca, non abbia a rovesciarvi!... 


S. Agostino


Sabato della II settimana del Tempo di Pasqua

Venuta intanto la sera, i suoi discepoli scesero al mare e, saliti in una barca, si avviarono verso l'altra riva in direzione di Cafarnao. Era ormai buio, e Gesù non era ancora venuto da loro. Il mare era agitato, perché soffiava un forte vento. Dopo aver remato circa tre o quattro miglia, videro Gesù che camminava sul mare e si avvicinava alla barca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Sono io, non temete». Allora vollero prenderlo sulla barca e rapidamente la barca toccò la riva alla quale erano diretti.  
(Dal Vangelo secondo Giovanni 6, 16-21)

"Sono io, non temete"

Gesù cammina sul mare ed abbiamo paura, come i discepoli. Ci spaventa l'incontro con un mistero che supera la nostra stessa speranza. Siamo presi dalle onde della vita, è buio, e ci sentiamo soli; le preoccupazioni, le difficoltà ci schiacciano in una prospettiva limitata, distolgono il nostro sguardo dall'orizzonte verso il quale stiamo navigando. Gli eventi contingenti appesantiscono il nostro cuore sino a pensare che la vita si esaurisca in quel momento che viviamo, che tutto si giochi in quell'istante, ineluttabile. Risolvere quel problema, sospingere la barca un metro più avanti, sfangarla e superare quell'ostacolo. E dimentichiamo il contesto autentico della nostra esistenza; è buio, e Gesù non è ancora con noi, ed è un sentimento che ci coglie spesso, inconscio, subdolo, ma che si manifesta nelle nostre attitudini concrete. Gesù è in ritardo, bisogna sbrigarsela da soli... Abbiamo visto miracoli, ed in essi, il nostro povero cuore incapace di sfamare reso fecondo di una vita straripante e abbondante. Abbiamo sperimentato il potere della benedizione del Signore, ma il buio, il vento e le onde ci annebbiano la memoria, siamo ancora così acerbi nella fede... Ci si arrangia, si cercano soluzioni seguendo criteri umani, si briga e ci si affatica. E abbiamo paura quando Lui appare, quando ci si avvicina camminando sulle acque. Temiamo di vedere sbriciolarsi le piccole certezze acquisite, smentito il nostro meschino modo di orientarci nei problemi, evaporare l'effimera soluzione di compromesso, strapparsi le toppe cucite sul vestito vecchio. Abbiamo paura di un destino più grande, di un orizzonte che relativizzi queste nostre giornate, questi nostri affari, sentimenti, lotte, preoccupazioni. Perché la serietà della vita risiede nel destino per la quale ci è data. Non è seria e autentica quando ci afferra e ci schiaccia sul presente. Non è più seria perché stringiamo i pugni e mettiamo ogni sforzo per un colpo di remi in più. Gli eventi non sono atomi isolati, ogni istante che ci è donato è incastonato in una volontà che abbraccia l'eternità, che è proprio da dove viene Gesù camminando sul mare. Ma abbiamo bisogno di "remare circa tre o quattro miglia", ne hanno bisogno i nostri figli, forse anche il marito o la moglie, gli amici; le remate infeconde sono, spesso, le più feconde, perché proprio le crisi, anche quelle più dure che sembrano ingoiarci nella notte, sono il tratto di strada che ci prepara a vedere il Signore. Non mettiamoci di traverso allora, non cerchiamo soluzioni e lasciamo che l'altro remi duro nel mare agitato tra i sibili del vento forte: non è come sembra, sta sperimentando che da solo non ce la fa, per comprendere poi che anche quelle "tre o quattro miglia" erano dentro l'amore infinito dal quale Gesù ci segue, ci cerca, e viene a noi per riannodare la nostra vita al filo di misericordia che abbraccia l'eternità. Egli sorge dal buio, da tutto ciò che non possiamo e non riusciamo a vedere, per orientare la nostra vita nell'unica direzione autentica; Gesù ci prende con sé per condurci verso un destino che, come Abramo, non conosciamo, ma del quale Lui è profezia e primizia. Con Lui possiamo solcare i marosi perché siamo stabiliti sulla rotta che congiunge terra e storia al Cielo, il porto per il quale ci siamo imbarcati nella vita. Un matrimonio sarà santo, e compiuto, solo se sospinto sulla rotta celeste, aperto alla vita che non muore. Il buio, il vento e le onde, il mare di morte e solitudine, angoscia e timore che solchiamo ogni giorno è aperto verso il Cielo. Cafarnao è la Patria, l'origine e la meta, immagine della dimora dalla quale siamo stati chiamati e verso la quale siamo diretti. Il Cielo è la nostra Cafarnao: ogni evento reca inscritto il destino celeste cui siamo chiamati. Vivere autenticamente è remare avendo bene presente l'orizzonte verso il quale è orientata la nostra barca. Gesù si avvicina anche oggi a ciascuno di noi, persi nei frammenti disordinati delle nostre esistenze. Appare camminando sul mare, e ci parla, ci illumina, ci desta: "sono Io, non temete!" Sono Io, e voi siete in me, esistete per me, e con me camminate verso il Cielo. Non temete, proprio nelle avversità, in quelle di oggi, e di domani, splende più vivido e consolante l'orizzonte celeste che dà senso alla vita. Ogni evento indica il Cielo, camminare sulle acque significa scoprire in ogni legame, nel lavoro, nella famiglia, nelle amicizie, nelle sofferenze e nelle gioie, il segno eterno del suo amore. Camminare sul mare significa non esaurirsi nei problemi, non esigere soluzioni e cambiamenti, non intestardirsi e nevrotizzare tutto, come se quel problema, quella difficoltà, quel litigio fossero l'ultima spiaggia. Non cedere alla diperazione, perché tutto guarda oltre, e la pazienza di chi ha gli occhi fissi sul Cielo raggiunge sempre il porto sospirato. "Nada te turbe, nada te espante, quien à Dios tiene nada le falta. Solo Dios basta. Todo se pasa, Dios no se muda, la paciencia todo lo alcanza. Niente ti turbi, niente ti spaventi, chi ha Dio niente gli manca. Solo Dio basta. Tutto passa, Dio non cambia, la pazienza tutto lo raggiunge" (Santa Teresa d'Avila). Perché tutto concorre al bene, anche quello che sembra non avere soluzione. Come disse Gesù a Santa Faustina Kowalska: "Non aver paura di nulla. Io sono sempre con te. Sappi ancora questo, figlia mia. che tutte le creature, sia che lo sappiano, sia che non lo sappiano, sia che vogliano, sia che non lo vogliano, fanno sempre la mia volontà". Camminare sul mare è percorrere ogni centimetro della storia con questa certezza, che tutto obbedisce alla volontà di Dio, che è l'orizzonte più grande in cui tutto si muove. La sua percezione è fonte di pace, quella di chi ha sperimentato che nessun limite è posto a chi vive la vita di Cristo. Camminare sul mare è sperare, sempre, anche contro ogni speranza: "in colui che è morto per tutti si è già realizzato in pieno l'ideale della nostra speranza. Quindi noi non siamo esitanti o dubbiosi, non rimaniamo perplessi nell'incertezza dell'attesa; avendo invece già ricevuto l'anticipo della promessa, siamo in grado di vedere con l'occhio della fede quel che sarà il nostro futuro, e tutti lieti per l'elevazione della nostra natura, possediamo già quel che crediamo" (San Leone Magno, Sermo LXXI, 1-5, De resurrectione Domini)Siamo venuti al mondo per "prendere Gesù con noi", nella barca della nostra vita, e far risplendere il Cielo nel buio della terra. E' Lui, è il nostro amato che oggi ci ricorda la sublimità della nostra chiamata, la bellezza e la pienezza della nostra vita, che nulla di noi è chiuso in se stesso, che nulla si perde, che tutto è dischiuso verso un destino più grande, che anche il dolore e il fallimento portano le stigmate di un amore infinito, quello che dà consistenza e pace a ogni nostro momento, come a quello di chi ci è accanto. Apriamo, spalanchiamo oggi le porte del nostro cuore per accogliere Cristo, che ci conosce, ci ama e fa della nostra vita un segno bellissimo del Cielo, speranza per ogni uomo.

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