“Dalla Bibbia alla Biblioteca – Benedetto XVI e la Cultura della Parola”
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Ravasi: Dalla Bibbia alla Biblioteca.
“Dalla Bibbia alla Biblioteca
– Benedetto XVI e la Cultura della Parola”
Gianfranco card. Ravasi
È a una metafora architettonica che ricorriamo per ordinare la nostra riflessione su un tema così vasto e polimorfo. Immaginiamo, infatti, di avanzare in tre grandi aule ideali, tracciandone non una descrizione puntuale e completa ma evocandone solo alcune componenti in una sorta di abbozzo o di mappa essenziale. Questo triplice spazio è posto curiosamente all’insegna di una lettera alfabetica, la B di Bibbia, Biblioteca e Benedetto XVI. Ora è significativo che nella lingua biblica, l’ebraico, la bet (ב) graficamente e semanticamente rimanda a una “casa” aperta, all’edificio ideale le cui stanze ora perlustreremo. Dominante sarà la tipologia della biblioteca, che è anche il cuore dell’evento che vogliamo commemorare.
I. La Bibbia, biblioteca di 73 libriNel primo spazio simbolico collochiamo la Bibbia. Essa letterariamente e storicamente, come indica l’originale greco Biblia, comprende una piccola biblioteca di 73 libri che cronologicamente si distribuiscono nell’arco di un millennio e vedono l’affacciarsi di mani autoriali e redazionali differenti. Eppure questo plurale greco si è per noi trasformato a livello linguistico, ermeneutico e teologico in un singolare per cui i molti libri formano un Libro, come si è spesso ripetuto e come è stato ribadito dall’approccio interpretativo cosiddetto “canonico”, già praticato dai Padri della Chiesa. È, comunque, indiscutibile che la Bibbia ha spesso la consapevolezza della sua qualità di testo scritto.
Reiterato è, infatti, il lemma “il libro della Legge”, il verbo ebraico ktb, “scrivere” ricorre 204 volte con uno sciame di derivati, così come l’equivalente grapheinneotestamentario che risuona 191 volte, mentre il sostantivo graphè 50 volte. Il “libro”,sefer, è presente 185 volte e sofer, lo “scriba” 54 volte, così come le parolebíblos/biblíon echeggiano 44 volte nel Nuovo Testamento. È affrontata persino la questione delicata della traduzione da parte del nipote del Siracide, convinto che «le cose dette in ebraico non hanno la medesima forza quando vengono tradotte in un’altra lingua», come egli afferma nel prologo della versione greca dell’opera di suo nonno.
Una figura emblematica come Mosè è ripetutamente presentata come quella di uno scrittore: al Sinai «Mosè scrisse tutte le parole del Signore… Scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza, le dieci parole… Mosè scrisse questa legge e la diede ai sacerdoti figli di Levi…» (Es 24,4; 34,28; Dt 4,13; 31,9). Ma Dio stesso è scrittore in modo diretto: «Il Signore dette a Mosè le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio… Egli vi annunciò la sua alleanza…, cioè le dieci parole, e le scrisse su due tavole di pietra… Le scrisse su due tavole di pietra e me le diede… Il Signore mi diede le due tavole di pietra, scritte dal dito di Dio… Il Signore scrisse su quelle tavole come era stato scritto la prima volta, cioè le dieci parole…» (Es 31,18; Dt 4,13; 5,22; 9,10; 10,4). Anzi, la metafora della scrittura divina sarà alla base anche della “nuova alleanza” cantata dal profeta Geremia, espressione di una pienezza di rivelazione e di comunione tra lo “Scrittore “ divino e il “lettore” umano: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore» (Ger 31,33).
Naturalmente il libro è di sua natura basato sulla parola. Non possiamo, allora, non tracciare – sia pure in modo solo evocativo – il valore particolare rivestito dalla parola in quel libro plurale e singolare che è la Bibbia. Per la Rivelazione ebraico-cristiana la parola è innanzitutto la radice stessa della creazione ove espleta una funzione “ontologica”. Infatti, si può quasi affermare che entrambi i Testamenti si aprono con la Parola divina che squarcia il silenzio del nulla. Bereshît…wajjômer ’elohîm: jehî ’ôr. Wajjehî ’ôr, «In principio… Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (Gen 1,1.3). Così inizia la prima pagina dell’Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento l’ideale apertura potrebbe essere quella del celebre inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni: En archè en ho Logos, «In principio c’era la Parola» (1,1). L’essere creato non nasce, perciò da una lotta teogonica, come insegnava la mitologia babilonese (pensiamo all’Enuma Elish), bensì da un evento sonoro efficace, una Parola che vince il nulla e crea l’essere. Canta il Salmista: «Dalla Parola del Signore furono creati i cieli, dal soffio della sua bocca tutto il loro esercito… perché egli ha parlato e tutto fu, ha ordinato e tutto esistette» (Sal33,6.9).
La Parola divina è, però, anche alla radice della storia, come sorgente di vita e di morte: «Mandò la sua Parola e li guarì, li scampò dalla fossa… Egli invia la sua Parola e li fa perire… Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua onnipotente Parola dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si slanciò… portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile» (Sal107,20; 147,18; Sap 18,14-15). La Parola divina sostiene e giudica, quindi, anche la trama storica dell’umanità col suo tessuto di vicende ed eventi perché «retta è la Parola del Signore e fedele ogni sua opera» (Sal 33,4). Ma questa stessa Parola interpreta il senso ultimo della storia: è, quindi, la radice della Rivelazione.
Significativa, al riguardo, è la scelta aniconica di Israele che ha la sua espressione più grandiosa (e drammatica) nel primo precetto del Decalogo: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto terra» (Es 20,4). Via gli occhi dal vitello d’oro, dunque! Una scelta, dicevamo, drammatica non solo per un popolo così affamato di realismo e di simboli com’è quello semitico ma per la stessa storia dell’arte. In bocca a Mosè è messa dal Deuteronomio una frase folgorante per illustrare l’esperienza sinaitica: «Il Signore vi parlò dal fuoco: una voce di parole (qôl debarîm) voi ascoltaste; non un’immagine (temûnah) voi vedeste, solo una voce (qôl)» (4,12).
In questa linea che privilegia la Parola, la Bibbia è chiamata dalla tradizione giudaicamiqra’, cioè “lettura”, laddove si ha il rimando al verbo qara’ della “proclamazione”, così come accade per il termine “Corano”, vocabolo che contiene la stessa radice verbale. In questa luce il rilievo “sonoro” del testo biblico è non solo una questione letteraria ma anche teologica. Suggestivo sarebbe, allora, scoprire anche la dimensione “fonetica” della Parola sacra: si ricordi, tra l’altro, che la metrica ebraica non è quantitativa ma qualitativa, cioè affidata all’impasto cromatico armonico e persino descrittivo-denotativo dei suoni. Ad esempio, la professione d’amore della donna del Cantico dei Cantici è affidata al filo musicale del suono –î– che indica la personalità dell’io: dodî lî wa’anî lô…’anî ledôdî wedôdî lî, «il mio amato è mio e io sono sua … io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3). La Parola è, dunque, voce che parla il linguaggio di Dio.
Come si è già visto, la Parola divina si cristallizza anche nel Libro per eccellenza, la Bibbia. È così che il Nuovo Testamento ama l’espressione graphè/graphaì per indicare la Parola di Dio. Si ha qui una puntualizzazione del complesso rapporto tra infinito e contingente, tra Logos e sarx. La Parola, infatti, deve comprimersi nello stampo freddo e limitato dei vocaboli, delle regole grammaticali e sintattiche, deve adattarsi alla redazione di autori umani. È l’esperienza che anche i poeti vivono nella sua drammaticità e tensione. Goethe nel Faust confessava che das Wort erstirbt schon in der Feder, sì, «la parola muore già sotto la penna». E nel suo Flauto di vertebreMajakowski ribadiva: «Sulla carta sono crocifisso coi chiodi delle parole», mentre Borges più generalmente riconosceva che «el universo es fluido y cambiante, el lenguaje rigido».
Eppure questa rigidità testuale non riesce a raggelare e a spegnere l’incandescenza della Parola. Esemplare è il caso del profeta Geremia che «prende un rotolo per scrivere e scrive» su ordine divino gli oracoli del Signore (36,2). Ma dopo che il re Ioiakim, leggendo quel rotolo, ne «aveva lacerato col temperino da scriba e aveva gettato nel fuoco» le colonne di quel testo (36,23), il profeta non avrà esitazione su comando divino a far rinascere gli stessi oracoli mostrando così che – come dichiarava Isaia (40,8) – «secca l’erba, appassisce il fiore, ma la Parola del nostro Dio dura in eterno». La parola autentica non muore ma, una volta detta o scritta, proprio allora comincia a vivere: «A word is dead/ when it is said,/ some say./ I say it just/ begins to live/ that day» (E. Dickinson). È la forza “performativa” e non meramente “informativa” della Parola che si attua già nella grande letteratura ma che ha il suo apice nella Scrittura Sacra.
Cerchiamo, allora, di illustrare ulteriormente questo nesso tra Parola divina e parole umane. Come accade per l’Incarnazione, anche la Parola rivela due volti, quello della “carne”, del limite, della finitudine, e quello del divino, dell’efficacia creatrice, della teofania. A questi due volti – che in pratica continuano il discorso sopra abbozzato – dedichiamo brevemente un’ulteriore considerazione. Come si diceva, la Parola di Dio si avvale di un mezzo “kenotico”, quello di una lingua, di un lessico, di regole e fonemi. È la prigione necessaria della Parola ineffabile per rendersi effabile. È qualcosa di analogo alla kénôsis del Verbo di Dio così come è descritta nell’inno paolino di Filippesi 2,6-11: «Cristo Gesù, pur essendo di natura divina… svuotò (ekénôsen) se stesso, assumendo la condizione di servo…». La debolezza della parola umana è stupendamente illustrata da Isaia che, in una personificazione di Gerusalemme vinta, così canta: «Prostrata parlerai da terra e dalla polvere saliranno fioche le tue parole, sembrerà di un fantasma la tua voce dalla terra e dalla polvere la tua parola risuonerà come un bisbiglio» (29,4). La Parola suprema e potente di Dio si adatta anche al linguaggio debole dell’umanità.
Così, la Bibbia si affida alla povertà espressiva di una lingua pietrosa come il deserto, scarna e scabra: è l’ebraico classico che può ricorrere, tra l’altro, soltanto a un arsenale lessicale limitato, composto di soli 5750 vocaboli. Oppure si basa sul greco koinè, ben più modesto della lingua della classicità ellenica: il lessico neotestamentario si affida a soli 5433 vocaboli. Anzi, la kénôsis procede fino al punto che il nome più importante, quello divino, si contiene in quattro consonanti, JHWH, che rimangono mute, impronunziabili. Al vertice di questo assottigliarsi della Parola, nella miseria umana abbiamo l’esperienza straordinaria del profeta Elia al monte Horeb-Sinai. Dio non appare nel «vento impetuoso e gagliardo da spaccare le rocce», né si configura nel terremoto o nel fulmine di una tempesta assordante. Ma, come dice l’originale ebraico, il Signore si nasconde in una qôl demamah daqqah, cioè in «una voce di sottile silenzio» (1Re 19,11-12). È quasi il punto zero dell’annientamento della Parola, eppure quel silenzio è “bianco”, cioè racchiude in sé tutti i suoni, le lettere, le sillabe, le parole. È il “mistero”, termine che nella sua radicale greca (myein) suppone il tacere, il chiudere le labbra, non per un’assenza di significati ma per una presenza di vita e di persona.
All’interno della fragilità delle parole umane la Parola divina rivela, così, la sua potenza. Per usare un’espressione di Teilhard de Chardin, il linguaggio umano si fa “diafanico”, diventa cioè epifania e trasparenza alla Rivelazione divina. In esso si manifesta la potenza del Logos del prologo giovanneo, già evocato, secondo la semantica semitica sottesa. In ebraico, infatti, dabar, “parola”, significa contemporaneamente anche “atto, evento”. Dire e fare s’intrecciano. E sono, perciò, da assumere cumulativamente e non disgiuntamente o alternativamente, come suppone il poeta, i quattro significati che Goethe nel Faust attribuisce al Logos giovanneo: das Wort, “Parola”, der Sinn, “Significato”, die Kraft, “Potenza”, die Tat, “Atto”.
Questa efficacia che rende la parola (debole ed esile) capace di manifestare in diafania la Parola che «è stabile come il cielo» (Sal 119,89), si attua soprattutto attraverso il simbolo, nel senso genuino del termine (syn-ballein, “mettere insieme”) e non nell’accezione popolare che lo fa sconfinare nella metafora meramente allusiva. Il linguaggio simbolico permette di annodare finito e infinito, contingente e assoluto, temporale ed eterno, umano e divino. Cristo è il grande “Simbolo” perfetto perché fonde in sé, come si diceva, Logos e sarx, divinità e umanità, pienezza e debolezza. E come c’è in teologia la tentazione “dia-bolica” (dià-ballein, “gettare via”, “disperdere”) di infrangere l’Incarnazione attraverso lo spiritualismo gnostico o il fenomenismo storicistico, così anche nell’esegesi della parola biblica c’è il rischio di spezzarne la simbolicità riconducendola o a mera larva spirituale o a cava da cui estrarre teoremi teologici, oppure considerandola solo come una pura e semplice raccolta di testi storiografici e letterari.
Emblematica in questo senso è stata l’ermeneutica tradizionale del Cantico dei Cantici. Da un lato, l’amore dei due protagonisti è stato fatto evaporare in un misticismo allegorico (Dio-Israele, Cristo-Chiesa, Cristo-Maria, Cristo-anima): decollando dalla realtà, si infrangeva ogni legame con la concretezza dell’esistenza per rincorrere rarefatte geometrie metaforiche e spirituali. D’altro lato, la cosiddetta “école voluptueuse”, cioè la scuola interpretativa letteralista, considerava il poema una semplice raccolta di liriche erotiche, modulate su analoghi modelli dell’antico Vicino Oriente, testi carichi talora di torrida sensualità, altre volte affidati ai topoi del linguaggio amoroso. In realtà il Cantico è contemporaneamente eros e amore, è celebrazione dell’abbraccio pieno umano che riflette e rivela quello divino nei confronti della sua creatura. Ed è solo la lettura simbolica a conservare compatti i due valori senza penalizzare uno per salvare l’altro. Come scriveva René Char, poeta surrealista e simbolista francese, «gli dei abitano il simbolo; / ghermita dal brusco balzo, / la poesia s’accresce / di un oltre senza protezione». È qui che teologia e poesia si trovano a muoversi nella stessa maniera, entrambe radicate nel presente e nel reale per ascendere a un Altro e a un Oltre trascendenti.
II. La biblioteca, clinica dell’animaRegnava allora in Egitto Tolomeo I Sotere (323-285 a.C.), generale di Alessandro Magno. Dalla Grecia, e più precisamente da Abdera in Tracia, era partito per visitare l’Egitto uno storico, Ecateo. Aveva risalito il Nilo fino a Tebe, l’antica capitale faraonica dalle cento porte, ognuna delle quali – secondo Omero – era così ampia da permettere il transito contemporaneo di duecento armati coi loro carri e cavalli. Ma il sogno di Ecateo, che avrebbe raccontato la sua avventura nelle sue Storie d’Egitto, era quello di varcare la soglia del “Ramesseum”, celebre mausoleo di Ramesse II, il faraone che aveva trionfalmente occupato con la sua storia quasi tutto il XIII secolo a.C.
Ecateo aveva varcato quel portale lungo sessanta metri e alto venti, aveva superato peristili, sale, stanze, camere e passaggi, si era persino imbattuto nel sarcofago faraonico segnato da quell’iscrizione sibillina: «Se qualcuno vuole conoscere quanto grande io sia e dove io mi trovi, superi una delle mie opere». Ma alla fine lo storico di Abdera s’era fermato stupito davanti a un portale su cui campeggiava una scritta che egli aveva tradotto in greco così: psychès iatreion, “luogo di cura dell’anima”. Che cos’era mai questa “clinica dello spirito”? La risposta Ecateo l’ebbe quando vi penetrò: era la Biblioteca sacra di Ramesse.
Naturalmente ora non resta nulla di quella sala e dei suoi contenuti. Non ci resterebbe neppure nulla delle Storie d’Egitto se non ci fosse stato, due secoli e mezzo dopo, Diodoro Siculo che visitò il Ramesseum tenendo in mano quella sorta di “guida” scritta da Ecateo, trascrivendola nei punti più significativi. Certo, c’è anche il rischio che quella “clinica” possa non curare ma produrre a sua volta patologie dell’anima. Ci sono, infatti, forme di “bibliofilia” che possono decadere in “bibliomania”. Esse non generano mai cultura, al massimo erudizione; non arricchiscono ma intisichiscono lo spirito.
Questa sindrome ha il suo emblema tragico e grandioso nel dott. Kien dell’Autodafè di Elias Canetti, romanzo pubblicato nel 1935 col titolo significativo tedesco Die Blendung, “l’accecamento”. Nelle intenzioni dello scrittore bulgaro-tedesco-ebreo quest’opera doveva essere la prima tavola di un polittico settenario mai compiuto rappresentante altrettante follie della commedia umana. Ora, è noto che Kien, “uomo tutta testa e niente corpo”, smanioso di leggere tutto per sapere tutto, muore nel rogo dei suoi centomila volumi, rogo ben diverso da quello “bibliocida” del famoso romanzo Fahrenheit 451, pubblicato nel 1953 dallo scrittore statunitense Ray Bradbury (e divenuto nel 1966 un film di François Truffaut). Diverso, sì, ma dall’esito analogo, cioè la morte dell’umanità autentica e della cultura attraverso il rogo dei libri.
Infatti la tentazione della biblioclastia, analoga a quella dell’iconoclastia, percorre i secoli e lascia dietro di sé una lugubre e densa scia di fumo che sale dalle pire ardenti dei libri, già prima del celebre incendio del 48 a. C. che mandò in cenere per la prima volta la biblioteca di Alessandria d’Egitto (la seconda, avvolta nella leggenda, avverrà con l’invasione araba). È una forma di suicidio folle che l’umanità perpetra – in varie forme non necessariamente materiali (si pensi alla censura dei regimi politici e sacrali) – annientando la sua identità, cancellando i suoi valori, distruggendo la sua eredità culturale e spirituale. È una follia che perdura fino ai nostri giorni, prima coi roghi nazisti e i gulag staliniani per gli scrittori condannati dal regime e ora con le brutali devastazioni del Califfato dell’IS che ha annientato nel 2015 la biblioteca di Mosul. Ma, oltre a queste infamie perpetrate dai nemici radicali delle biblioteche e, quindi, dell’umanità, ci sono altri rischi minori di natura socio-culturale, legati a fenomeni contemporanei.
La biblioteca, infatti, può anche essere sede di dispersione, ben tipizzata dalla “Biblioteca di Babele”, racconto della raccolta Finzione (1964) di Jorge Luis Borges. Già il redattore finale del libro di Qohelet ammoniva che «si fanno libri e libri senza fine» (12,12) e la consapevolezza dell’avanzata di un’onda cartacea illimitata, esaltata dalle nuove potenzialità dell’informatica, e di una indubbia caduta dell’esercizio della lettura è particolarmente viva ai nostri giorni. Infatti, da un lato si restringe sempre più la folla dei lettori, ormai distratti dall’immagine televisiva e dallo stesso schermo del computer; d’altro lato, si allarga il flusso editoriale destinato a divorare se stesso. Già il 5 febbraio 1828 il poeta Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone annotava che «ormai si può dire in verità, massime in Italia, che son più di numero gli scrittori che i lettori (giacché gran parte degli scrittori non legge, o legge men che non iscrive)».
Paradossale era il progetto e l’intenzione di Konrad von Gesner (1516-1565) che nella sua Bibliotheca Universalis, pubblicata a Zurigo nel 1545, elencava 12.000 opere (divenute 15.000 con l’“appendix” del 1555) classificandole in 21 sezioni, suddivise in molteplici “tituli”: il suo, infatti, era, sì, il sogno di coagulare in un inventario l’oceano librario (che, allora, aveva alle spalle il primo secolo di vita) ma anche la più realistica e sorprendente volontà di salvaguardare gli aspiranti lettori dai libri inutili, ut lectores moneantur de abstinendo ab eis, “perché i lettori fossero ammoniti così da evitarli”. Nella sua introduzione ai Promessi Sposi, Manzoni non esitava ad affermare che «di libri basta uno per volta quando non è d’avanzo». Come si diceva, la molteplicità di una biblioteca – soprattutto se virtuale – può essere effettivamente dispersiva, può creare confusione o al massimo erudizione frigida e sterile. È come esaminare le singole tessere di un mosaico senza saperne cogliere e ammirare l’insieme figurativo; è perdersi in tanti rigagnoli che non dissetano lo spirito e la mente.
Ma, per fortuna, la biblioteca può essere soprattutto sede dello spirito, nella sua forma più alta e più nobile. È per questo che bisogna battersi per renderla sempre più viva, funzionale, aperta, capace di trasmettere quel respiro dell’anima che per secoli ha avuto il compito di comunicare. Non per nulla Federico il Grande nel 1780 sul frontone della Biblioteca Reale di Berlino aveva posto la titolatura Nutrimentum spiritus. Certo, c’è un aspetto anche “tecnico” da considerare. Esso si manifesta ora con l’avvento della civiltà informatica che ha dato origine non solo a nuovi modelli catalografici ma a una vera e propria inedita biblioteconomia, con accessi diretti e immediati ai libri custoditi nelle più disparate biblioteche del mondo, senza più intraprendere viaggi costosi e faticosi.
Ma è soprattutto lo spirito che nelle biblioteche celebra le sue liturgie. Tra parentesi, non si deve dimenticare che i monasteri (Bobbio, Montecassino, Grottaferrata, Farfa, Novalesa, Pomposa, S. Caterina al Sinai…) – e c’è voluto Il nome della rosa di Eco per ricordarlo al grosso pubblico – ospitavano biblioteche straordinarie. Un aforisma medievale non esitava ad affermare che claustrum sine armario, quasi castrum sine armamentario, “un monastero privo dell’armadio dei libri è come una piazzaforte senza munizioni e armi”. E la regina delle biblioteche non è in una corte imperiale né in una metropoli storica, bensì in Vaticano!
A quest’ultimo proposito vorremmo evocare un grandioso affresco di Melozzo da Forlì staccato nel 1825 dall’antica Biblioteca Apostolica Vaticana, trasferito su tela e oggi collocato nella IV sala della Pinacoteca Vaticana. È come se fossimo di fronte a una gigantesca “fotografia” di 3,70 x 3,15 metri, anche perché le fisionomie dei vari personaggi sono ritratte con lineamenti veristici. Così, oltre a papa Sisto IV in trono, colto nell’atto dell’Investitura del bibliotecario Plàtina inginocchiato, si riconoscono quattro curiali, espressione tipica del nepotismo di Sisto IV della Rovere: i due nipoti, Giovanni della Rovere e Girolamo Riario, alle spalle del Plàtina, e altri due nipoti cardinali, Raffaele Riario alla destra del papa e, in piedi, Giuliano della Rovere, il futuro Giulio II. Con un atto di piaggeria ma anche di gratitudine, il nuovo Prefetto della Biblioteca Vaticana punta l’indice della mano destra verso un’iscrizione latina da lui composta, un encomio dell’opera di Sisto IV per lo splendore di Roma.
Il personaggio in questione è Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina dal suo luogo di nascita, Piàdena (in latino appunto Plàtina) in provincia di Cremona, ove egli era nato nel 1421. Dopo una turbolenta vicenda vissuta nella corte pontificia, egli era stato eletto nel 1475 da papa Sisto IV della Rovere Prefetto della Biblioteca Vaticana, dotandolo di tre assistenti e di un legatore. E se già il fondatore della Biblioteca, il papa Niccolò V nel 1451 ne indicava la missione pro communi doctorum virorum commodo, cioè per l’utilità e l’interesse comune degli uomini di scienza, Sisto IV nella bolla di nomina del Plàtina Ad decorem militantis Ecclesiae (15 giugno 1475) ribadiva che la finalità di questa gloriosa istituzione era, sì, «il decoro della Chiesa e la crescita della fede cattolica», ma anche «l’utilità e l’onore degli eruditi e di coloro che si dedicano agli studi letterari».
III. Benedetto XVI e la cultura della parola e del libroLa scena, appena rievocata, legata alla Biblioteca Vaticana ci conduce nella terza aula del nostro edificio metaforico che in questo caso diventa anche reale. È la “Biblioteca Joseph Ratzinger” ove aleggia la presenza di Benedetto XVI. Ed è proprio a lui che vorremmo lasciare la parola con una sua curiosa “confessione”, testimoniata durante la sua visita alla Biblioteca Apostolica Vaticana il 25 giugno 2007: «Confesso che al compimento del mio settantesimo anno di età, avrei tanto desiderato che l’amato Giovanni Paolo II mi concedesse di potermi dedicare allo studio e alla ricerca di interessanti documenti e reperti da voi custoditi con cura, veri capolavori che ci aiutano a ripercorrere la storia dell’umanità e del Cristianesimo. Nei suoi disegni provvidenziali il Signore ha stabilito altri programmi per la mia persona ed eccomi oggi tra voi non come appassionato studioso di antichi testi, ma come Pastore…».
In verità anche come pastore della Chiesa universale, Benedetto XVI non ha cessato di custodire in sé l’anima del cultore della parola e del libro, anche senza risiedere e trascorrere i suoi giorni in quell’«accogliente casa di scienza, di cultura e di umanità, che apre le porte a studiosi provenienti da ogni parte del mondo, senza distinzione di provenienza, religione e cultura», com’era ai suoi occhi la Biblioteca Vaticana. L’attuale raccolta degli scritti di lui e su di lui attesta appunto il suo straordinario curriculum di studioso, di teologo, di lettore. È sorprendente, infatti, intravedere in filigrana alle sue pagine non solo l’apparato imponente delle sue letture patristiche, esegetiche, teologiche, filosofiche ma anche le incursioni nella letteratura e cultura “laica”: ad esempio, nella sua notissima Introduzione al cristianesimo occhieggiano, accanto ai classici della teologia, autori come Bernanos, Buber, Camus, Hölderlin, Lucrezio, Nietzsche, Sartre e così via.
Si pensi solo – sempre in quell’opera – all’affacciarsi di Dante in un passo dell’ultimo canto del poema ove si delinea nella Trinità l’incarnazione di Cristo: «dentro da sé del suo colore stesso / mi parve pinta de la nostra effige, / per che ’l viso in lei tutto era messo» (Paradiso XXXIII, 130-132). Con una suggestiva applicazione Ratzinger intravedeva un autoritratto del poeta stesso che fissava l’umanità di Cristo: «contemplando il mistero di Dio, egli scorge con estatico rapimento la propria immagine, un volto umano, al centro dell’abbagliante cerchio di fiamme formate da “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”». Ma, come si diceva, anche nel suo ministero petrino Benedetto XVI non ha cessato di custodire il suo amore per la parola e per il libro, convinto – come dirà in un altro messaggio rivolto al Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, il card. Raffaele Farina il 9 novembre 2010 – che «l’apertura, veramente cattolica, universale a tutto ciò che di bello, di buono, di nobile, di degno (cf.Fil 4,8) che l’umanità ha prodotto nel corso dei secoli» sia sempre da accogliere, perché «nulla di quanto è veramente umano è estraneo alla Chiesa».
Nel piccolo mare testuale di documenti papali emessi da Benedetto XVI noi ora sceglieremo, quasi ad emblema e a sintesi per un tema così vasto com’è quello della parola, il celebre discorso rivolto al mondo della cultura al Collège des Bernardins di Parigi il 12 settembre 2008. Come è noto, egli aveva allora assunto a simbolo l’esperienza monastica classica il cui obiettivo era quaerere Deum, cercare Dio. Le vie da percorrere erano, però, ramificate e comprendevano soprattutto la cultura della parola ed è per questo che «fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la Parola». E la mappa disegnata da Benedetto XVI delle varie vie, per raggiungere quella meta gloriosa e luminosa, partiva dalla Parola di Dio stesso, la Bibbia, le Scritture. Ascoltiamo la voce del papa.
«Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via è la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, è aperta davanti agli uomini. La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola». E qui, ricorrendo all’opera L’amour des lettres et le désir de Dieu pubblicata nel 1957 da Jean Leclercq, ribadiva che «…escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra. Il desiderio di Dio include l’amore per le lettere, l’amore per la parola». In questa luce «diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esige la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola».
Infatti «la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia… La Scrittura ha, perciò, bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta… Per raggiungere la Parola di Dio occorre un trascendimento e un processo di comprensione». È questa la “drammaticità” dell’autentica interpretazione biblica, attenta ad evitare gli scogli del fondamentalismo. È san Paolo a intuire in modo nitido «che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, esprimendolo in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6). E ancora: “Dove c’è lo Spirito … c’è libertà” (2 Cor 3,17)». Come si è detto, la Sacra Scrittura suppone la logica dell’Incarnazione che tiene insieme in modo nettamente “sim-bolico” Logos e sarx, cioè Parola divina ed eterna e parole umane e contingenti (cf. Gv 1,1.14). Per dirla in modo analogo con Benedetto XVI, sulla scia del discorso di Paolo all’Areopago, il Vangelo «non annuncia dèi ignoti… bensì l’Ignoto-Conosciuto».
Questo intreccio intimo, radicale e strutturale tra Parola trascendente e parole storiche reca con sé vari corollari di indole soprattutto ermeneutica. Proponiamo in particolare la dimensione performativa della Parola, che abbiamo già indicato nella nostra analisi della Bibbia. Essa vale già a livello di parole umane, come sottolineava in modo vigoroso lo storico servita veneziano Paolo Sarpi (1552-1623): «La materia dei libri par cosa di poco momento perché tutta di parole, ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo, che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole, sì, ma che in conseguenza tirano seco eserciti armati». Sempre per stare nell’orizzonte veneziano, aperto all’Oriente, è suggestivo quanto scriveva il card. Bessarione, umanista bizantino, grande artefice del dialogo tra la Chiesa latina e l’Ortodossia, al doge Cristoforo Moro il 31 maggio 1468 offrendogli la sua grande raccolta di libri che sarebbe divenuto il nucleo fondante della Biblioteca Marciana di Venezia.
«I libri sono pieni delle parole dei saggi, degli esempi degli antichi, dei costumi, delle leggi, della religione. Vivono, discorrono, parlano con noi, ci insegnano, ci ammaestrano, ci consolano, ci fanno presenti ponendole sotto gli occhi della nostra memoria cose remotissime… Se non ci fossero i libri, noi saremmo tutti rozzi e ignoranti e senza alcun ricordo del passato, senza alcun esempio; non avremmo conoscenza alcuna delle cose umane e divine; la stessa urna che accoglie i corpi cancellerebbe anche la memoria degli uomini».
Tutto questo vale a livello supremo con la Parola di Dio e Benedetto XVI ribadisce che essa «trafigge il cuore di ciascun singolo (cf. At 2,23)… La Parola non conduce però a una via solo individuale di immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede». Infatti è tutto l’essere umano che viene coinvolto, corpo e spirito, individuo e comunità, nella lettura e nell’ascolto della Parola di Dio. Anzi, la struttura stessa della Rivelazione biblica è dialogica, spinge al “colloquio con Dio”. Significativa è la presenza dei Salmi che sono parole umane rivolte a Dio, poste sotto il sigillo della sua ispirazione. In essi il Signore «ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portando la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui».
Questa esperienza, esaltata dal canto e dalla musica – che sono quasi l’epifania più alta della parola, soprattutto all’interno della liturgia che riesce a unire numen e lumen, mistero e bellezza, ineffabile ed effabile, invisibile e visibile – impedisce al credente di «precipitare nella zona della dissimilitudine, la regio dissimilitudinis». L’espressione di matrice platonica, che papa Ratzinger mutua dalle Confessioni di Agostino (VII,10,16), getta un fascio di luce anche sull’atmosfera contemporanea nella quale il distacco da Dio, dai valori spirituali, dalla morale fa cadere nell’indifferenza, nella distanza da ogni ideale, nella “dissimilitudine” appunto rispetto a Dio, alla sua Parola, alla sua verità, spegnendo ogni ricerca e inaridendo lo spirito. È proprio l’antipodo di quanto invocava per sé Anselmo d’Aosta in un passo caro a Benedetto XVI: «Che io ti cerchi desiderando, che ti desideri cercando, che ti trovi amando, che ti ami trovandoti» (Proslogion I).
Concludendo questo percorso semplificato nelle tre aule della casa della Parola, è spontaneo – davanti alla sfilata dei libri che ora stanno di fronte a noi, a partire naturalmente del Libro per eccellenza, la Bibbia – far risuonare l’appello che segna un profeta, quindi un uomo della Parola, come dice il termine stesso. È ad Ezechiele che è rivolto questo invito: «Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 3,1-3).
È la stessa esperienza a cui è spinto il Veggente dell’Apocalisse: «La voce che avevo udito dal cielo mi parlò di nuovo: Va’, prendi il libro aperto dalla mano dell’angelo che sta in piedi sul mare e sulla terra. Allora mi avvicinai all’angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele. Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Ap 10,8-10). Questa comunione con la Parola si ripete ogni volta che la lectio si trasforma in ascolto e in intimità con Dio anche nei momenti più ardui ed estremi, quasi come un viatico. È quello che ricorda Romano Guardini, autore caro a Benedetto XVI e a papa Francesco nel suo Elogio del libro (1951), ove descrive un episodio bellico tragico per un gruppo di soldati bloccati in una sacca, circondati dai nemici e votati alla morte: «Il cappellano militare, sentendo che non aveva più nulla da dire di accettabile in quell’ora, tolse di tasca il proprio Nuovo Testamento, ne strappò le pagine e ne diede una ad ogni soldato». Si compiva, così, una sorta di estrema comunione “sacramentale” con la Parola.
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