A 50 anni dal Concilio. Attualità del Vaticano II (quello vero)
di Luca Del Pozzo
L’8 dicembre prossimo cadrà il 50° anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II. Ed è fin troppo facile prevedere la mole di articoli e commenti per rintuzzare una polemica mai sopita – e che ha investito in pieno anche il recente Sinodo sulla famiglia dove, caso mai non fosse chiaro, si sono scontrate prima ancora che due opposte visioni sulla famiglia, due opposte visioni sulla chiesa e il suo rapporto con il mondo – su un evento che, comunque lo si guardi, ha cambiato il volto della Chiesa. Il che, di per sé, non è necessariamente un male, anzi.Per chi abbia cura di non applicare alle vicende della fede categorie che poco o nulla hanno a che fare con essa, più il Vaticano II emerge come “segno di contraddizione”, più si conferma la sua impronta divina. Resta il fatto che entrambe le letture prevalenti, quella tradizionalista che lo vede come un evento di rottura rispetto alla “vera” Chiesa – con ciò intendendo quella tridentina – e quella progressista che, all’opposto, lo interpreta anch’essa come discontinuità ma in questo caso positivamente intesa come apertura alla modernità, peccano di miopia. Da parte tradizionalista, l’occasione per rinfocolare la polemica è stata l’elezione di Papa Francesco. Il cui pontificato è stato, ed è tuttora, solo in apparenza il bersaglio degli strali tradizionalisti, quando è di tutta evidenza come il bersaglio grosso sia proprio, e primariamente il Concilio. Secondo la critica tradizionalista le perplessità e i mal di pancia di più d’un fedele sono riconducibili alla scelta di fondo di Papa Bergoglio, quella cioè di privilegiare, soprattutto nel rapporto con il mondo, un approccio pastorale anziché dottrinale. Per lo storico Roberto de Mattei, che sull’argomento è intervenuto a più riprese sul Foglio, l’elezione di Papa Bergoglio sarebbe addirittura il suggello della vittoria della Scuola di Bologna, secondo la quale – contrariamente alla ratzingeriana “ermeneutica della riforma ” che interpreta il Concilio nella linea di un rinnovamento nella e non contro la Tradizione – “la prassi si trasforma in dottrina”. Non più dunque primato della dottrina, e quindi della ragione, bensì primato della prassi, dell’esperienza, dell’azione e, quindi, del sentimento. Papa Bergoglio, e con lui don Giussani e il movimento di Comunione e Liberazione, sarebbero insomma gli (inconsapevoli?) esponenti di un neo-modernismo, esploso soprattutto negli anni del post Concilio ma che parte da lontano e si sviluppa per de Mattei lungo l’asse Lutero-Sabatier-Blondel-Tyrrell-Bremond, che porta il nome di Nouvelle Theologie ed ha nel gesuita Henry de Lubac il teologo di punta.Elementi portanti di questa teologia, che non a caso secondo de Mattei formano la struttura portante di CL, sono categorie quali “esperienza”, “incontro”, “avvenimento”, che i tradizionalisti vedono come il fumo negli occhi in quanto portatori di una visione soggettivistica della fede. Al contrario la fede per de Mattei è “l’adesione della ragione, mossa dalla grazia, alle verità rivelate da Dio, per l’autorità di Dio stesso che ce le rivela…La Sacra Scrittura e la Tradizione raccolgono queste verità, che formano la fede oggettiva e immutabile della chiesa…Crediamo queste verità perché ci sono rivelate da Dio. Ma l’esistenza di Dio, prima di essere una verità di fede, è verità filosofica, che può essere dimostrata dalla ragione…”. Per il tradizionalista de Mattei la vita cristiana, cattolica in particolare, è sostanzialmente ed essenzialmente esercizio di apologetica, “atto crazionale che ha come oggetto la verità. L’intelletto è la sola facoltà spirituale che può far proprie le verità proposte dalla rivelazione”. Diretta conseguenza di questa impostazione – che riduce il cristianesimo ad un insieme di verità immutabili alle quali l’uomo è chiamato ad aderire – è una visione della liturgia per cui “L’amore per la liturgia tradizionale presuppone necessariamente l’amore per le verità tradizionali”. Dove ovviamente per liturgia tradizionale s’intende quella tridentina.Ora, se per un verso si capisce chiaramente come il Vaticano II e il rinnovamento liturgico, biblico ed ecclesiologico da esso promossi, prima ancora che le sue interpretazioni, non riscuota il plauso dei tradizionalisti, per altro verso sono di tutta evidenza i limiti oggettivi del tradizionalismo. Primo fra tutti il rifiuto, da un lato, della distinzione tra la Tradizione – cioè il Depositum Fidei, per sua natura immutabile – e “le” tradizioni, ovvero le forme storiche, quindi mutevoli, attraverso le quali la Chiesa vive la fede nel corso della storia; dall’altro, nella contestuale identificazione di una particolare tradizione – quella della chiesa tridentina o della Controriforma (termine per altro riduttivo: il Concilio di Trento è stato un momento controriformistico nel contesto di un più ampio movimento di riforma cattolica) – con “la” tradizione della Chiesa. Il che a sua volta implica il rifiuto della e la contrapposizione alla modernità, o per lo meno a quella forma della modernità che storicamente si è affermata, e il cui volto – e su questo punto il tradizionalismo ha ragioni da vendere, con buona pace di certo mondo cattolico adulto e spensierato – ha assunto spesso e volentieri (tanto più oggi) i connotati dell’Anticristo. Da questo limite principale, che implica l’assunzione del tomismo neoscolastico quale unica teologia degna di questo nome, deriva l’altro, grande limite della visione tradizionalista, ovvero una concezione parziale della Rivelazione e, conseguentemente, della fede. Vista, la prima, come la manifestazione di un Dio che è innanzitutto Verità; e, conseguentemente, la seconda come adesione razionale dell’uomo alla Verità così rivelata. Un’impostazione, lo ripetiamo, in sé certamente ortodossa, ma che non tiene conto del fatto che le epoche storiche cambiano, e che quindi quella stessa Verità ha sempre bisogno di “farsi” storia perché possa essere vissuta. Ma, soprattutto, l’impostazione tradizionalista cozza in modo irriducibile con l’atteggiamento che Gesù stesso ha assunto nei confronti dell’uomo, riassunto in queste parole che per un cattolico sono, o dovrebbero essere, il miglior antidoto contro ogni assolutizzazione: “Non è l’uomo per il Sabato, ma il Sabato per l’uomo”.Se la fede non ha a che fare con la persona tutta intera, con la sua esistenza concreta e storica, qui ed ora, e si riduce a conoscenza e culto svincolati dalla vita vera, quindi dall’esperienza, è ben poca cosa. Non meno miope è la lettura del Concilio di stampo progressista. Se è fin troppo facile dimostrare come durante e dopo il Vaticano II ci furono sbandamenti, eccessi ed errori, è altrettanto vero che ciò accadde non a causa del Concilio – come erroneamente sostiene la scuola tradizionalista – ma nonostante il Concilio e sulla base di una precisa interpretazione del Vaticano II, che poi è quella che storicamente ha prevalso, sviluppata in primis dalla Scuola di Bologna, che lo ha interpretato a mo’ di cesura col passato e apertura alla modernità; in ciò supportata da quello che, non a caso, Benedetto XVI nel memorabile discorso al clero di Roma del 14 febbraio 2013, ha definito il “Concilio virtuale”, cioè il concilio dei mezzi di comunicazione, addirittura più forte di quello reale, che “ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi”.E’ sulla scia di questa lettura dell’evento conciliare che più d’uno si è sentito autorizzato a vivere e pensare la chiesa come se il Concilio fosse l’anno zero, in nome del quale si potevano (e forse si dovevano) mutuare acriticamente categorie e forme della modernità per stare finalmente al passo con i tempi. Emblematiche in tal senso le parole di del Beato Paolo VI durante l’Udienza generale del 18 settembre 1968, per altro straordinariamente attuali: “Alcuni pensano che il Concilio sia già superato; e, non ritenendo di esso che la spinta riformatrice senza riguardo a ciò che quelle solenni assise della Chiesa hanno stabilito, vorrebbero andare oltre, prospettando non già riforme, ma rivolgimenti, che credono potere da sé autorizzare, e che giudicano tanto più geniali quanto meno conformi all’autorità e alla disciplina della Chiesa, ed ancora tanto più plausibili quanto meno differenziati dalla mentalità e dal costume del secolo”. Ed è così che nacque il Vaticano secondo…me, secondo te, secondo noi…I risultati li conosciamo bene: crisi delle vocazioni e seminari svuotati, crisi del sacerdozio e conseguente abbandono dello stato clericale da parte di tantissimi preti, alcuni dei quali per stare vicino al popolo come si diceva allora (si era negli anni delle lotte operaie) smisero la talare per andare in fabbrica (sul punto, sarebbe interessante sapere quanti, dopo aver lasciato il sacerdozio, sono rimasti a fare l’operaio, ma questa è un’altra storia…), bizzarrie e amenità liturgiche di vario genere (messe beat ecc.), smottamenti in campo morale – esemplare in tal senso la battaglia contro l’Humanae Vitae del Beato Paolo VI – e dottrinale (si pensi alle varie teologie della liberazione e, più in generale, al tentativo, teorico e pratico, di tenere insieme Cristo e Marx, che in ambito politico è sfociato in quel fenomeno devastante sotto tutti i profili che va sotto il nome di cattocomunismo); e ancora, crisi del principio di autorità (le cui conseguenze, ad esempio nel campo educativo con l’esperienza di don Milani, sono sotto gli occhi di tutti). L’elenco potrebbe continuare a lungo. Fatti e misfatti che hanno, per contro, confortato i critici da destra del Concilio, che hanno avuto buon gioco nel prendersela direttamente con il Vaticano II, visto come la causa remota di tutti i mali. Ma un conto è denunciare e correggere gli errori, altro contro è buttare il bambino con l’acqua sporca, come fa de Mattei e con lui tutti i nostalgici dei (presunti) bei tempi andati, convinti che sia sufficiente riportare le lancette dell’orologio alla chiesa pre-conciliare, affinché l’uomo contemporaneo, sazio e disperato (copyright card. Biffi), possa innamorarsi di Cristo con la messa tridentina (in latino, che la gente non capisce), il catechismo di S. Pio X (intellettualistico e nozionistico, per nulla biblico ed esistenziale), la pastorale sacramentale (che presuppone una fede che spesso non c’è più) e tutto l’armamentario delle pratiche di pietà (anche qui, ci vuole fede) e di una morale casuistica lontana anni luce. O chi, partendo da una prospettiva opposta, vagheggia addirittura un Vaticano III per riprendere e sviluppare le istanze riformatrici del Vaticano II, tradite dai pontificati del Beato Paolo VI e soprattutto di S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.Ciò di cui la chiesa ha bisogno è di tornare al Vaticano II, quello vero. Che resta un evento straordinario dove lo Spirito realmente ha parlato alla Chiesa suscitando – nonostante i limiti e le debolezze dei sui membri – un’azione di rinnovamento nella, non contro né oltre la tradizione – come ha sottolineato Benedetto XVI nel celebre discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, rileggendo il Concilio alla luce dell’ermeneutica della riforma – che in parte ha recepito le istanze del rinnovamento biblico, liturgico e teologico degli anni precedenti, in parte ne ha suscitate di nuove, il tutto cristallizzandosi nei documenti finali dell’assise conciliare, vere perle di sapienza, ai quali bisogna tornare, con umiltà e discernimento. E senza dimenticare che proprio in quegli anni lo stesso Spirito che soffiava nella basilica di S. Pietro era all’opera per suscitare nuove comunità e movimenti ecclesiali (penso a CL, i Focolarini, il Cammino Neocatecumenale, il Rinnovamento nello Spirito, ecc.), dove molte delle istanze del Concilio hanno trovato attuazione sotto la vigile guida dei pontefici e dei pastori. Grazie al Vaticano II è stata rimessa al centro della vita dei fedeli la Parola di Dio (Dei Verbum); è stata varata una riforma liturgica (Sacrosanctum concilium) dove la Messa è non è più un assistere passivamente ad un rito, ma partecipazione attiva, personale e allo steso tempo comunitaria al Mistero pasquale di Cristo, ovvero sacrificio, cioè morte, e Resurrezione, cioè vita (resurrezione senza la quale, vale la pena ricordarlo, l’intera impalcatura della fede cattolica crolla come un castello di carte; è stata riproposta, tornando alle fonti, un’ecclesiologia (Lumen Gentium) dove la chiesa è Corpo di Cristo e popolo di Dio, all’interno della quale ciascun fedele, in virtù del battesimo, partecipa all’unico sacerdozio di Cristo, senza nulla togliere al sacerdozio ministeriale riservato esclusivamente ai presbiteri. Col risultato di mandare in pensione la vecchia concezione verticistica e piramidale, che vedeva il clero alla sommità, e di desacralizzare – ciò che per molti, allora come oggi, è il vero problema – la figura del prete, e di affermare al contempo il ruolo del laicato, non più mero ricettore o utente passivo, ma protagonista attivo nella vita della chiesa; una riforma che sicuramente non è stata gradita dai tanti nostalgici dell’era pre-conciliare dove il clero era investito di un’aura sacrale, e negli stessi seminari i futuri sacerdoti venivano formati avendo ben chiaro che diventare prete significava entrare a far parte di un’elite, di una casta ristretta con i laici nel ruolo tutt’al più di braccio secolare e comunque in nessun caso attori ma semplici comparse.Un cambio di prospettiva, quello conciliare, che dopo mezzo secolo una buona fetta del clero (e non solo) fa ancora fatica ad accettare, fermi come sono ad una visione del sacerdozio come potere e non come servizio. Tanto che il refrain che spesso si sente – a proposito, ad esempio, delle realtà ecclesiali sorte negli anni del Concilio – è il seguente: sì, d’accordo, i laici hanno puntellato e sostenuto la chiesa nel post-concilio, quando c’è stato lo sbandamento, ma ora il loro compito si è esaurito, ed è tempo che i preti si riapproprino del loro ruolo riprendendo in mano il timone della barca e rimettendo i laici al loro posto. Come se fosse tutta e soltanto, appunto, una questione di potere. Tre riforme – biblica, liturgica, ecclesiologica – che non hanno scalfito di una virgola la Tradizione (altro sono “le” tradizioni, quelle sì suscettibili di cambiamenti), e che allo stesso tempo hanno posto le premesse perché il cristianesimo entrasse nella vita concreta, umana ed esistenziale, degli uomini e delle donne del suo e nostro tempo. E se forse è eccessivo il giudizio di Massimo Borghesi quando dice che negli anni ‘70 fu CL a “salvare” la fede della chiesa, è tuttavia innegabile che grazie ai carismi ecclesiali nati in quegli anni decine di migliaia di uomini e donne hanno potuto riscoprire la fede, e altrettanti hanno potuto incontrare Cristo per la prima volta. Come è stato da più parti evidenziato la crisi attuale – in primis quella della famiglia – è primariamente crisi di fede. La cura non è né fare marcia indietro né vagheggiare balzi in avanti, ma riprendere le fila del Vaticano II accompagnandone l’attuazione con rinnovato slancio missionario. Se è vero, come è stato da più parti evidenziato, che la crisi attuale – in primis quella che ha investito la famiglia – è primariamente crisi di fede, la cura non è né fare marcia indietro né vagheggiare balzi in avanti, ma riprendere le fila del Vaticano II, quello vero. A questo scopo, risulta di straordinaria attualità il volume “Alle fonti del rinnovamento”, scritto nel 1972, dunque a ridosso degli eventi conciliari, dall’allora cardinale di Cracovia e futuro santo pontefice, Karol Wojtyla. Si tratta, per sua stessa ammissione, di unvademecum con cui Wojtyla intendeva illustrare ai fedeli della sua diocesi i frutti dell’insegnamento conciliare. Cardine dell’analisi, la categoria di “arricchimento della fede”, intesa come “partecipazione sempre più piena alla verità divina”, quale postulato fondamentale dell’attuazione del Vaticano II che Wojtyla identifica con il rinnovamento conciliare, a sua volta inteso come una tappa storica dell’autorealizzazione della chiesa. Attuare il Vaticano II vuol dire, in tale ottica, tradurre in atteggiamenti concreti quello che il concilio ha detto, cioè vivere in prima persona quell’arricchimento sia come approfondimento dei contenuti della fede sia come arricchimento della vita del credente, in senso cioè soggettivo, umano, esistenziale. Il che vuol dire porre al centro di ogni pastorale l’annuncio del Vangelo, cercando di “accordare” le verità di sempre sulla lunghezza d’onda dell’uomo contemporaneo, in linea con quella “nuova evangelizzazione” che, non a caso, è stata la bussola del suo pontificato. E avendo ben presente che la missione della chiesa è di salvare il mondo, non di farsi ben volere da esso.
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