Pensavamo d'incontrare un Padre, abbiamo trovato anche un Fratello. Grazie di averci accolto, è un momento che abbiamo atteso e desiderato tanto.Le persone che sono qui hanno storie e riferimenti diversi. Ma sono accomunate dal bisogno di verità e di giustizia, un bisogno che per molti è ancora vivo e lacerante.Sono solo una rappresentanza, per quanto numerosa dei famigliari delle vittime delle mafie, che sono tanti, tanti di più.
Giusti che donano vita
Sono tutte vittime innocenti e di tutte vogliamo ricordare il nome.In questo lungo elenco ci sono circa ottanta bambini, come Domenico Gabriele, Cocò e Domenico. Ci sono persone che si sono trovate casualmente in mezzo a un conflitto a fuoco. Ci sono tanti "giusti". Persone dalla parte di chi cerca e aiuta a cercare verità. Persone libere e leali, che non si sono lasciate piegare dalle difficoltà. In Italia, in Europa e nel mondo, come testimoniano oggi i familiari di vittime dell'America Latina che sono qui con noi.Le ricordiamo tutte perché lo spirito di giustizia e verità che ha animato la loro esistenza è ancora vivo. Lo sentiamo sorreggere le nostre speranze e accompagnare il nostro impegno. Chi perde la vita per la giustizia e la verità dona vita, è lui stesso Vita. Come tutte le vittime del terrorismo e del dovere, a cui va questa sera il nostro pensiero.
Le vittime degli affari sporchi
Vogliamo ricordare insieme anche le vittime del lavoro, perché un lavoro non tutelato, svolto senza le necessarie garanzie di sicurezza, è una violazione della dignità umana. E così pure le vittime degli affari sporchi delle mafie. Le persone colpite da tumori in territori avvelenati dai rifiuti tossici. Quelle che hanno perso la vita per l'uso delle droghe spacciate dai mercanti di morte. Le migliaia d'immigrati annegati nei mari o caduti nei deserti. Le donne e le ragazze vittime della tratta e della prostituzione.
Morti vivi, uccisi nella speranza
Ma vittime sono anche i "morti vivi". Quante persone "uccise" dentro! Quante persone a cui le mafie hanno tolto la dignità e la libertà, persone ricattate, impaurite, svuotate. Le mafie - la corruzione, l'illegalità - assassinano la speranza!
Ombre e squarci di luce
Sono queste speranze spezzate o soffocate che oggi vogliamo condividere. In passato, e purtroppo accade ancora oggi, non sempre la Chiesa ha mostrato attenzione a un problema di così enormi risvolti umani e sociali. Silenzi, resistenze, sottovalutazioni, eccessi di prudenza, parole di circostanza. Ma per fortuna anche tanta luce, tanta positività. Dal grido profetico di Giovanni Paolo II dalla Valle dei Templi alle parole di Benedetto XVI rivolte ai giovani a Palermo: «Non cedete alle suggestioni della mafia, strada di morte». Ma non basta.
Pastori che illuminano la strada
Come non ricordare Monsignor Raffaele Nogaro, oggi ammalato, a cui va un affettuoso saluto. E il compianto don Italo Calabrò, che ci ha aiutato a comprendere la 'ndrangheta in tutti i suoi risvolti, richiamandoci a quell'impegno educativo fondamentale per estirparla.È una Chiesa che "interferisce", denunciando senza remore l'incompatibilità tra mafie e Vangelo. E che non dimentica che la denuncia seria, attenta, documentata è annuncio di salvezza. Anche a costo della vita.Il 15 settembre 1993 viene ucciso a Palermo don Pino Puglisi, e pochi mesi dopo il 19 marzo del 1994 - due giorni fa è stato il ventennale - a Casal di Principe, don Peppe Diana, che invitava la sua gente a "salire" sui tetti per riannunciare Parole di vita.
Verità e giustizia
Oggi qui aggiungiamo don Cesare Boschin. È stato ucciso a Borgo Montello, nel Comune di Latina, dove domani cammineremo insieme per la diciannovesima "Giornata della memoria e dell'impegno", chiedendo verità sul suo omicidio. C'è un bisogno di verità che scuote la vita di tante persone e che chiede risposte, chiede giustizia. È quello che chiede la grande maggioranza di voi famigliari. Alcuni nomi in particolare, voglio ricordare oggi: Attilio Manca, Antonino Agostino, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Non è solo un problema criminale!
Il problema delle mafie non è un problema solo criminale. Se così fosse, basterebbero le forze di polizia, basterebbe la magistratura. È un problema sociale e culturale. Un problema che chiama in causa responsabilità pubbliche - spesso degenerate in poteri privati - e responsabilità sociali accantonate in nome dell'individualismo.
Una politica al servizio del bene comune
Oggi è più che mai necessario uno scatto. Occorrono politiche sociali, posti di lavoro, investimenti sulla scuola. Occorre ridare alle persone speranza e dignità. Occorre che la politica torni a essere servizio del bene comune. E, nello specifico, occorre rafforzare la confisca e l'uso sociale dei beni delle mafie, chiave di volta per saldare il contrasto criminale con la rigenerazione sociale e culturale.
Non lasciamoli soli!
Occorre tutelare e incentivare i percorsi coraggiosi dei testimoni di giustizia, che antepongono la voce della coscienza ai rischi della denuncia. Occorre portare avanti con più determinazione, come hanno già fatto circa 500.000 cittadini, il progetto "Riparte il futuro", per chiedere norme ancora più efficaci contro la corruzione e il voto di scambio. Occorre infine non lasciare soli i tanti "minacciati". Parlo dei magistrati più esposti - faccio un nome per tutti, Nino Di Matteo - come degli amministratori onesti, dei giornalisti e dei tanti cittadini coraggiosi che si sono ribellati al racket, alle intimidazioni, alle minacce. Non lasciamoli soli!
Nostri figli, figli di tutti
Saveria Antiochia, mamma di Roberto, un agente di polizia ucciso dalla mafia, un giorno ci disse: «quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te. A me avevano sparato quel giorno». Oggi dobbiamo dirci con forza insieme - per il figlio di Saveria e per tutte le altre vittime innocenti delle mafie - che è come se avessero sparato su di noi. Il 21 marzo, primo giorno di primavera, sia anche la primavera della Giustizia, della Speranza e del Perdono. Opponiamo al "grido" di dolore per le persone care che qui ricordiamo, la Parola della Vita.
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Il papa: «Lavoro è dignit໓il manifesto” - Rassegna "Fine settimana"
(Luca Kocci) Ieri il lavoro, oggi le mafie. Due giorni contrassegnati dalle questioni sociali per papa Bergoglio che ieri mattina ha incontrato in Vaticano i dipendenti delle Acciaierie di Terni e questo pomeriggio parteciperà alla veglia per le vittime delle mafie organizzata (...)
«Vi spiego perché Bergoglio prese quel rosario dalla bara di padre Aristi»
Il sacramentino padre Andrés Taborda era presente nella cripta, unico testimone, quando il futuro Papa strappò la piccola croce dalle mani del suo confessore appena defunto
ANDREA TORNIELLI CITTÀ DEL VATICANO
«Sono l'unico testimone di quel piccolo "furto" che Bergoglio fece prendendo il rosario dalla bara di padre Aristi...». Padre Andrés Taborda è un sacerdote sacramentino di origini argentine che vive a Roma. Ha prestato servizio per anni nella Basilica del Santissimo Sacramento di Buenos Aires, là dove aveva vissuto - e confessato - per una vita José Ramón Aristi, il confessore a cui Francesco nell'aprile 1996 ha sottratto la piccola croce del rosario che da allora porta sempre con sé.
Era stato lo stesso Pontefice a raccontare l'episodio lo scorso 6 marzo, incontrando i parroci romani ai quali aveva raccomandato di essere misericordiosi.
«A Buenos Aires c’era un confessore famoso: questo era sacramentino. Quasi tutto il clero si confessava da lui». Quando Giovanni Paolo II venne in Argentina e chiese un confessore, fu questo sacerdote ad essere mandato per ascoltare i peccati del Papa. «Ha fatto il Provinciale nel suo ordine, il professore… ma sempre confessore, sempre - aveva continuato il Papa - E sempre aveva la coda, lì, nella chiesa del Santissimo Sacramento».
Padre Aristi morì novantasettenne la sera della vigilia di Pasqua del 1996. All'epoca Bergoglio era vescovo ausiliare e vicario generale. Ricevuta la notizia, dopo aver pranzato come ogni giorno di Pasqua con i preti anziani della casa di riposo, Bergoglio si era recato a far visita al suo confessore appena scomparso. «Era una chiesa grande, molto grande, con una cripta bellissima. Sono sceso nella cripta e c’era la bara, solo due vecchiette lì che pregavano, ma nessun fiore. Io ho pensato: ma quest’uomo, che ha perdonato i peccati a tutto il clero di Buenos Aires, anche a me, nemmeno un fiore… Sono salito e sono andato in una fioreria e ho comprato fiori, rose… E sono tornato e ho incominciato a preparare bene la bara, con fiori... E ho guardato il rosario che avevo in mano… E subito mi è venuto in mente - quel ladro che tutti noi abbiamo dentro, no? -, e mentre sistemavo i fiori ho preso la croce del Rosario, e con un po’ di forza l’ho staccata. E in quel momento l’ho guardato e ho detto: “Dammi la metà della tua misericordia”».
«Ho sentito una cosa forte che mi ha dato il coraggio di fare questo - ha continuato il Papa - e di fare questa preghiera! E poi, quella croce l’ho messa qui, in tasca. Le camicie del Papa non hanno tasche, ma io sempre porto qui una busta di stoffa piccola, e da quel giorno fino ad oggi, quella croce è con me. E quando mi viene un cattivo pensiero contro qualche persona, la mano mi viene qui, sempre. E sento la grazia! Sento che mi fa bene. Quanto bene fa l’esempio di un prete misericordioso, di un prete che si avvicina alle ferite…».
Aristi era «davvero un prete misericordioso e saggio», lo ricorda padre Taborda, «era molto benvoluto perché sapeva essere comprensivo. Confessava nella nostra basilica a Buenos Aires ogni lunedì e tantissimi preti andavano da lui. Anche quando non era in confessionale li riceveva, andavano a parlargli e a confrontarsi con lui. Io l'ho conosciuto nel 1968, fu lui a ricevermi nell'ordine, perché era provinciale dei sacramentini per l'Argentina, l'Uruguay e il Cile». Padre Taborda ricorda molto bene quel primo pomeriggio di Pasqua di diciotto anni fa. «Ci siamo trovati là, nella cripta, accanto alla bara di padre Aristi - racconta il sacerdote - e ho ancora davanti agli occhi la figura ascetica di Bergoglio, che all'epoca era molto magro. Ricordo che disse: "È stato il mio confessore, con questo rosario in mano ha assolto tantissimi peccatori, non è possibile che se lo porti sotto terra..."». E così il futuro Papa decise di prenderlo, chiedendo al defunto padre Aristi un po' della sua misericordia.
Ma c'è una ragione precisa per cui Bergoglio volle proprio quel rosario e staccò la piccola croce portandola da allora sempre accanto al cuore. «Padre Aristi - spiega il suo confratello argentino - dava ai penitenti il rosario con la piccola croce da tenere in mano mentre si confessavano, poi la usava per assolvere e infine la invitava a baciare. Insomma, quel rosario e quel crocifisso sono stati testimoni di un fiume di grazia».
Bergoglio aveva già nominato padre Aristi, in uno scritto rimasto a lungo inedito dedicato ai primordi della sua vocazione e della sua formazione, ricordando come fosse un noto confessore già negli anni Cinquanta.
Nato nel novembre 1899, José Ramón Aristi era di origini basche e giunse in Argentina ancora studente, accolto nel noviziato dei sacramentini. La sua dimora è stata la grande basilica del Santissimo Sacramento, quella in cui si sarebbe poi sposato Diego Armando Maradona. Era anche un musicista: aveva diretto il coro degli orfani che aveva accompagnato le liturgie del XXXII Congresso eucaristico internazionale di Buenos Aires, nell'ottobre 1934, al quale aveva partecipato come legato papale l'allora cardinale Segretario di Stato Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII. «Aveva una sensibilità particolare per le persone povere - spiega padre Taborda - e tra di loro suscitò diverse vocazioni religiose».
fonte: Kairòs
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