Primo battistero conservato al mondo, in Siria a Dura-Europos, circa al 240 d.C
Al termine del commento, una galleria dei particolari dell'affresco
αποφθεγμα Apoftegma
Nei giorni di Mattatià, figlio dell'alto sacerdote Yohanan l'Asmoneo, e dei suoi figli, quando il cattivo re dei greco-siriani si è scagliato contro la Tua nazione Israele per indurla a dimenticare la Tua Torah ed abrogare le leggi della Tua volontà, Tu, nella Tua tanta misericordia, ti sei alzato in piedi per loro nel momento del loro dolore; Tu hai combattuto la loro battaglia... Hai dato i forti nelle mani dei deboli, i tanti nelle mani dei pochi... A quel tempo per la Tua nazione Israele hai realizzato una grande salvezza e una grande redenzione.
Preghiera Al haNissim" (letteralmente "per i miracoli") che si recita durante la festa di Hanukkah
E' "inverno", ed è molto più di una stagione. E' la realtà nella quale si trovavano i "capi dei giudei", molto simile alla nostra. L'inverno è freddo e piovoso, la vita sembra addormentata, fa notte presto e si ha bisogno di luce e di calore. Rieccheggia, in questa notazione non a caso precisa, un versetto del Cantico dei Cantici: "L'inverno è passato, la pioggia è finita e se n'è andata". I Padri hanno visto in questo inverno la situazione della sposa, immagine del Popolo di Israele, prima dell'avvento di Cristo: "fino adesso durante l'inverno delle tentazioni e le tempeste dei vizi, la sposa se n'è stata rintanata e impaurita, le bastava rinchiudersi in se stessa. Non usciva mai fuori di sé, non coglieva i fiori della Scrittura Divina, non aveva le gioie spirituali della Grazia o i frutti dello Spirito" (Guglielmo di Saint-Thierry). Ed era proprio così, un duro inverno per Israele, anni e anni sotto il giogo dei Romani. E' un duro inverno per noi, da quando, come predicava Gregorio di Nissa, "l'inverno della disobbedienza seccò la radice, e quindi il fiore fu scosso e si dissolse a terra, l'uomo fu spogliato della bellezza dell'immortalità, e si seccò l'erba delle virtù, e l'amore per Dio si raffreddò perché abbondò l'ingiustizia, per cui si sollevarono in noi le molteplici passioni che producono lo sciagurato naufragio dell'anima nostra".
Nel mezzo di questo inverno Gesù "passeggia nel tempio, sotto il portico di Salomone". Questo era un colonnato coperto posto sul lato orientale del cortile cortile dei gentili, esterno del Tempio. Gesù passeggiava dunque su quel limite dove la santità di Dio si affacciava sulla vita dei pagani. Anche questa notazione è importante: Gesù cammina sul confine che separava Israele e il loro Dio dalle altre Nazioni e dai loro dei. E qui inizia il processo dei Giudei a Gesù, identico a quello che, ogni giorno, anche noi intentiamo contro di Lui. Qui "gli si fecero attorno". Gesù passeggia come Dio nel Paradiso alla ricerca di Adamo. La sua sola presenza in quel luogo è per ciascuno un interrogativo: "dove sei?". La domanda dei Giudei, in fondo, è il tentativo goffo di difendersi di fronte a quella presenza così ingombrante: "Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente», che, seguendo l'originale greco, si potrebbe leggere anche: ""Fino a quando ci toglierai la vita?". Proprio come Adamo che aveva paura di Dio, ormai nudo e preda dell'"inverno". Potremmo allora chiederci chi, sotto il portico di Salomone, fosse Adamo: i giudei e i loro capi? Oppure i gentili che sin lì potevano arrivare? Adamo era dentro o fuori il "recinto" del Tempio? Non è una domanda da poco.
Il dialogo tra i capi dei Giudei e Gesù avviene, infatti, mentre "ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione". E Hanukah, la festa della Dedicazione, aveva a che fare proprio con i pagani: ricorda, infatti, il tempo in cui "il Tempio fu pieno di dissolutezze e gozzoviglie da parte dei pagani, che gozzovigliavano con le prostitute ed entro i sacri portici si univano a donne e vi introducevano le cose più sconvenienti. L’altare era colmo di cose detestabili, vietate dalle leggi. Non era più possibile né osservare il sabato, né celebrare le feste tradizionali, né fare aperta professione di giudaismo" (2 Maccabei 6,4-6). Il culmine si raggiunse quando il Tempio fu profanato, spogliato dei suoi tesori e usato per il culto pagano. Nel 165/166 a.C. Giuda Maccabeo e i suoi fratelli ebbero finalmente la meglio, riconquistarono il Tempio e lo dedicarono di nuovo. Istituirono allora la festa di Khanukàh per celebrare la vittoria.
Ma, accanto all'evento della riconquista, c'è un altro aspetto importante di questa festa; ce lo racconta il Talmud: "Cosa è Hanukhah? Hanno insegnato i Maestri: il 25 del mese di Kislev iniziano gli otto giorni di Hanukhah, giorni in cui non si possono fare manifestazioni di lutto e non si può digiunare. Quando i greci entrarono nel Tempio, resero impuro tutto l'olio, e gli Asmonei, dopo aver sconfitto il nemico greco, cercarono e non trovarono che una sola ampolla d'olio, che era rimasta pura, perché ancora chiusa con il sigillo del Sommo sacerdote. Questa ampolla sarebbe bastata per illuminare il Tempio un solo giorno. Accadde un miracolo con quella ampolla, e così essi poterono accendere il lume per otto giorni. L'anno seguente stabilirono di rendere quei giorni, giorni di festa e di lode" (Talmud Shabbath 21b). Durante la festa i cortili del Tempio risplendevano di luce. Ogni casa era illuminata dal candelabro poste ben in vista vicino alle porte che davano sulla strada, affinché si potesse vedere la luce dall'esterno. Al tramonto della prima sera si accendeva una candela, la seconda sera due, e così sino all’ottavo giorno. La prima candela si accendeva sul lato destro del candelabro, e poi via via le altre da destra a sinistra; tutte però si accendevano servendosi dello "Shamash" – la cosiddetta "candela servitore" – che si poneva sul candelabro in luogo diverso e lontano dalle altre otto candele. Tutto questo per ricordare il "miracolo" che Dio aveva compiuto, segno e sigillo della liberazione di Israele dal giogo di Antioco Epifane, e il ritorno alla purezza del culto. Ad Hanukhah, dunque, era forte l'attesa messianica, ed era tutta orientata verso il ristabilimento della libertà per il popolo di Israele. E' in questo contesto che dobbiamo comprendere la domanda dei capi dei Giudei.
Volevano spingere Gesù a rivelarsi, lo affrontano con malizia e violenza perché svelasse finalmente se era Lui il liberatore atteso. Ma, in fondo, avevano già stabilito che non lo era. I Giudei non volevano "conoscerlo", ma solo smascherarlo per avere un capo d'accusa con cui poterlo fare fuori; pur essendo discendenza di Abramo, pur stando al di qua del "recinto", nel cuore del Tempio, erano pagani esattamente come quelli che dovevano restarne al di là. Anzi, avevano un peccato più grande, perché, pur avendo a disposizione la Legge e le Profezie, non erano capaci di riconoscerlo, erano ciechi che non accettavano di esserlo. Aspettavano un nuovo Giuda Maccabeo, e avevano di fronte il figlio di Giuseppe il falegname, uno che veniva da Nazaret... Gesù lo sapeva, e per questo risponde sibillino: "Ve l'ho detto e non credete"; non potete credere perché ascoltate la voce del Padre vostro; "voi non credete perché non siete mie pecore", ascoltate, infatti, la voce di un altro pastore, uno come Giuda Maccabeo; al tempo c'erano, infatti, gli zeloti, e Giuda, un "ladro", era zelota, come Barabba, un "brigante". Insomma, la voce del demonio.
Anche noi aspettiamo un tipo ben preciso di Messia, il Cristo che ci siamo fabbricati; quello che, purtroppo, anche nella Chiesa, alcuni ci hanno predicato; il Cristo che l'educazione, ricevuta in famiglia e a scuola, o la mentalità mondana, in televisione, su internet, tra gli amici, hanno modellato in noi. Altro che "pecore" del "recinto" di Gesù, preparate per il sacrificio! Ma attenzione, nel contesto di questa festa, il discorso si fa più sottile. "Fino a quando ci toglierai la vita?", cioè fino a quando non ci risponderai su quanto più ci angoscia, ovvero la nostra felicità? A volte cadiamo nella trappola e chiediamo la felicità agli idoli. Ma c'è un'idolatria più grande, la più grande, ed è subdola, sa nascondersi e camuffarsi bene. E' quella originale: la superbia di diventare come Dio. Non solo per quello che riguarda le relazioni e la storia, cioè diventare dio di tutto, di dirigere, di saziarsi, di avere potere e prestigio. Qui si tratta della superbia che ci vorrebbe come Dio in quanto a santità morale, a non dover più sottostare alle tentazioni, ad essere perfetti in senso legalistico. La superbia che non ci fa riconoscere d'essere sue pecore, ma che ci vorrebbe pastori capaci di condurre nel bene la propria vita. Aspettiamo cioè ogni giorno un Cristo che ci faccia puri, che ci liberi dal giogo esterno a noi, quello di Antioco Epifane, che, secondo noi, ci impedisce la fedeltà e la felicità. E invece Gesù dice qualcosa di completamente diverso: Io sono molto di più del Messia, del pastore che aspettate. "Io e il Padre siamo una cosa sola", cioè, "Io sono Dio". E Dio ha rivelato il suo Nome, la sua identità, con una "voce" da dentro il roveto ardente che non si consumava. Questo significa che la felicità, ovvero la vita eterna, piena, realizzata ci viene data da Lui in mezzo al fuoco delle tentazioni. È li che possiamo "ascoltare la voce" il Pastore, che è Dio, più potente della morte.
L'idolatria è nel nostro cuore, ed è lì che il "Pastore vero e bello" depone se stesso e la sua vita che non ha limiti. E' lì che possiamo essere riconsegnati a una vita da figli di Dio, capace di celebrare nella storia la liturgia che renda onore e gloria al Padre, quella dell'Agnello immolato. E il Pastore può giungere al cuore solo attraverso l'"ascolto". "Ascoltare" è il verbo della fede, è l'antidoto all'idolatria. "Idolo" in greco deriva da "vedere". Noi crediamo che l'intimità e la conoscenza si diano attraverso gli occhi; per questo la nostra società è fondata sul vedere. Ma la visione resta esterna, mentre le parole arrivano al cuore. Come è accaduto alla Vergine Maria. L'ascolto è l'apertura umile di una pecora che si affida al suo pastore, perché la conoscenza sorge e si compie ascoltando, che in ebraico è sinonimo di obbedire. Essere una cosa sola è ascoltare e quindi "seguire", come il Figlio ha fatto con il Padre: "Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono".
Gesù rivela se stesso rivelando la nostra identità! Non importa se dentro o fuori dal "recinto", ogni uomo è immagine di Dio creato da Lui attraverso la sua Parola. Ascoltando possiamo essere ricreati ogni istante dalle mani di Gesù, che plasmano in noi l'agnello, mani che parlano potremmo dire; e, con la sua Parola, ci difendono dagli idoli. Nessun idolo "può strapparci dalla sua mano". Ciò significa che "Il Padre di Gesù, riguardo a ciò che mi ha dato, è più grande di tutti" gli idoli di questo mondo. Il Padre ha dato a Gesù ciascuno di noi come suoi fratelli, creati in Lui a immagine e somiglianza di Dio: per questo "nessuno può strappare" la nostra identità "dalla sua mano" crocifissa, che è la stessa mano creatrice del Padre. Basta ascoltare per rinascere! Basta ascoltare davvero la sua Parola, come già la festa di Hanukhah annunciava: alcuni rabbini, infatti, vedevano la forza della sapienza della Torah nel miracolo dell'ampolla che non si è consumata. Nel mondo si vive "ascoltando" la "voce" di Dio che ci parla dal roveto, da questa ampolla che miracolosamente continua ad ardere senza consumarsi; ciò significa aprirsi alla sapienza della Croce che, pur essendo uno strumento di tortura e di morte, in Cristo è divenuta fonte di salvezza e di "vita eterna". Che bello, che consolazione! Siamo poveri e incoerenti, deboli e peccatori, eppure "Tu, nella Tua tanta misericordia, ti sei alzato in piedi per loro nel momento del loro dolore; Tu hai combattuto la loro battaglia... Hai dato i forti nelle mani dei deboli, i tanti nelle mani dei pochi" (Preghiera Al haNissim - letteralmente "per i miracoli"- che si recita durante la festa di Hanukkah).
Coraggio allora, perché Gesù è il Servo sofferente, che arde nel sacrificio come il roveto ma non si consuma, si dona come "Shamash" ma moltiplica l'olio dello Spirito Santo per dare la luce della verità alle altre candele che siamo ciascuno di noi, affinché possiamo risplendere sul candelabro. Gesù è il Pastore che fa giustizia degli idoli per mezzo della sua Croce. Sulla Croce si era rotto il "muro di separazione", aperto il "recinto" laddove Gesù stava passeggiando, il suo sangue era offerto per Giudei e pagani, anche per ogni Antioco Epifane della storia, anche per chi ti insulta, per quelli che incarnano il demonio che ti tenta a ribellarti e separarti, divorziare, fare causa, chiuderti alla vita; tutti rinchiusi sotto il peccato, tutti, tu, io e ogni "altro", perché fosse fatta misericordia a ogni uomo.
"Le opere che Gesù ha compiuto nel nome del Padre suo, queste gli hanno dato testimonianza", perché erano fatte in quel Nome rivelato tra le fiamme di un amore che brucia idoli e morte ma non si consuma. Erano profezia dell' "opera" decisiva compiuta sul Golgota. Sulla Croce Gesù era la "sola ampolla d'olio che era rimasta pura, perché ancora chiusa con il sigillo del Sommo sacerdote", del Padre. E "accadde un miracolo con quella ampolla, e così essi poterono accendere il lume per otto giorni": Gesù è risuscitato e ha "dato" alle "sue pecore", a ogni uomo che "ascolta la sua voce" la "vita eterna", della quale è simbolo proprio l'"ottavo giorno". Per questo "nessuno ha potuto strappare" alcun uomo dalla sua mano, che, stretta a quella del Padre, è scesa sino agli inferi per liberare tutti, Giudei o pagani che fossero. Non si consumerà l'amore nel tuo matrimoni, anche se mille problemi e tentazioni lo accerchiano ogni giorno; non si brucerà la vita di tuo figlio, il tuo ministero sacerdotale, la tua vocazione consacrata. E per questo "miracolo" che si rinnova istante dopo istante nella nostra vita, possiamo credere che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio che è "una cosa sola con il Padre".
Per questo siamo pecore elette per "conoscere" il Pastore, cioè per avere una intimità tale che in noi sia vivo Lui: "sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo è vivo in me". Il Messia non è dunque Barabba, non è uno che rinnova le gesta di Giuda Maccabeo, ma è il Pastore che offre la vita per le pecore sino a diventare una cosa con loro come lo è con il Padre, perché in Lui possano passare in mezzo a qualunque valle oscura. È il Pastore che le conduce fuori ad immolarsi per vincere la menzogna dei "lupi" con la forza dell'amore e del martirio. : "il Buon Pastore che combatte contro le potenze del male, trionfa su di esse ed introduce le pecore nei pascoli paradisiaci, appare nel quadro della teologia della morte e del martirio. M. Quasten ha notato, infatti, che il Buon Pastore, al di fuori dei battisteri, appariva soprattutto sui sarcofagi. Questa duplicità di raffigurazione appariva anche nelle preghiere della liturgia dei morti. Cristo è il Pastore che strappa la pecora ai lupi che cercano di divorarla, lupi che sono i demoni che tentano di impedirne l'ingresso al cielo" (J. Danielou). Ripetiamo allora ogni giorno "Legami" Gesù alla volontà del Padre, stringimi nel tuo amore, perché nessuno mi strappi da Te, e così possa essere luce posta sul candelabro per chi mi è accanto, le "pecore che ancora devono diventare un solo gregge".
|
L'ANNUNCIO |
Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d'inverno. Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone. Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Gesù rispose loro: «Ve l'ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola».
(Dal Vangelo secondo Giovanni 10,22-30)
|