Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

giovedì 2 aprile 2015

Prepararsi al Venerdì santo. Contemplazione del Crocifisso. Con lo sguardo della santità.


COMBONIANI IN FORMAZIONE PERMANENTE

Contemplazione del Crocifisso.

Con lo sguardo della santità.
Enzo Bianchi.




Contributo di Enzo Bianchi al catalogo WILLIAM CONGDON (1912-1998) Opere sacre pubblicato in occasione della mostra: William Congdon – Ecce Homo. Quattordici crocefissi dell’ultimo action painter presso la Biblioteca Umanistica di Santa Maria Incoronata – Milano, e dell’esposizione del Crocefisso, 18 di William Congdon nella chiesa di San Raffaele Arcangelo a Milano (25 febbraio – 24 maggio 2015).Ho incontrato William Congdon alla Cittadella ad Assisi quando ero poco più di un ragazzo, nel 1961; e sovente mi ricordo come, su quella terrazza dell’osservatorio da poco finita, verso sera, qualche volta osavo porgli qualche domanda. Mi ricordo l’italiano incertissimo che lui aveva allora. E parto proprio da un ricordo di quel tempo anche per agganciarmi a quanto dice Massimo Cacciari a proposito dell’”analogia dell’icona”.La cosa che mi meravigliava nei quadri di Congdon era il fatto che dipingesse a partire da un pannello di masonite nera, il cui nero veniva fatto riemergere con il lavoro della spatola. Mi ricordo che gli chiesi: “Ma come mai da un fondo nero?” La risposta fu di questo tipo (sono passati tanti anni!): le cose sono tutte nel buio, nella tenebra.Ecco, questa mi sembra che sia proprio l’analogia paradossale con l’icona di cui parla Massimo Cacciari. Perché? Perché chiunque dipinge le icone o le conosce bene, sa che le icone partono da un fondo d’oro, non solo di luce, ma di oro. È la lamina d’oro che viene stesa, che addirittura viene lucidata con la pietra d’onice, e i colori sono applicati a partire da quella luce che vuole indubbiamente narrare l’invisibile. L’icona è l’epifania dell’invisibile. È vero: essa legge il visibile, l’incarnazione, ma tende semplicemente a dire l’invisibile. Qui c’è tutto il dogma cristologico: Cristo si è fatto uomo, dunque Dio è raffigurabile. È il grande dogma del Secondo Concilio Niceno. Congdon, invece, fa un processo inverso, paradossale: parte dal buio e, oserei dire (non è mia intenzione fare qui dei ricami letterari di cui non sono capace), vuoi rendere il visibile capace di sopportare l’invisibile. Congdon non vuole rappresentare l’invisibile, no. Per lui, davvero, lo spessore è lo spessore umano, è lo spessore della terra, è lo spessore concreto, ma che lui vorrebbe rendere capace di sopportare l’invisibile.Una prima annotazione mi pare molto importante: Congdon è uno di quei pittori che ci consegna, accanto alle opere, una ricchissima scrittura, per cui abbiamo nel suo caso un artista che è un ermeneuta di se stesso. Certamente, una volta che un’ opera è finita e consegnata, come qualunque opera di arte o letteratura, essa ha il suo cammino che trascende la consapevolezza e la stessa ermeneutica dell’ autore.Però di questa bisogna tener conto. Ora, quello che impressiona di William Congdon sono soprattutto due annotazioni: “Scavate nei miei quadri e vedrete come l’autorità della forma è in fondo quella della struttura umana”. Cioè, all’interno di ogni opera e di ogni forma, va cercata la struttura umana, va cercato l’uomo, con il suo spessore, l’uomo con la sua realtà.Ma, accanto a questa, l’altra parola: “l’incontro con Cristo mi fa scoprire che il suo dramma di croce è il mio e questo mi porta al crocefisso tramite un ritorno alla figura, figura mai più da vedere o da dipingere disgiunta dalla croce. Mi interessava non la figura in sé ma la figura come croce, in ciò che la croce fa del corpo di Cristo”.E poi questa sua volontà di dipingere soprattutto il Crocefisso, che si manifesta in quella ossessiva serialità dei suoi Crocefissi. Perciò, sì “analogia dell’icona”, ma un altro possibile titolo potrebbe anche essere: “Al centro il Crocefisso”. C’è anche un’altra possibilità, che giustamente mi è stata ricordata da Paolo Mangini questa sera: “Tenere fisso lo sguardo sul Crocefisso”. E anzitutto va detto che in Congdon non c’è tanto la croce, quanto il Crocefisso. E questo è importante. Pochi, secondo me, riescono a capirlo, perché all’interno del cattolicesimo il devozionalismo, diffuso soprattutto negli anni del dopoguerra, era principalmente attratto dalla croce più che dal Crocefisso, secondo una ipotesi di “dolorismo”, con derive qualche volta di pietà, in cui la croce finiva per essere non lo strumento dell’esecuzione ma ciò che dava a Cristo gloria e capacità simbolica.Viceversa, all’interno di un cristianesimo serio, è esattamente il contrario: è il Crocefisso che ha reso la croce, da strumento di esecuzione, un simbolo glorioso. Non è Cristo che ha ricevuto gloria dalla croce, ma è piuttosto Cristo che ha dato a lei gloria, essendo crocefisso. Ecco che in Congdon è soprattutto presente il Crocefisso: il corpo del Crocefisso deriva la sua forma dalla croce, ma la croce praticamente è assente. Quando si guardano i primi Crocefissi di Congdon si vede soprattutto che egli coglie (e anche qui sta la paradossalità dell’analogia dell’icona) non tanto l’incarnazione, quanto la kenosis. In Congdon Gesù non è semplicemente fatto uomo – è troppo poco. Gesù è quello che, nel suo svuotamento, nella sua kenosis, è diventato quel corpo di “schiavo”, quel corpo martoriato, quel corpo segnato da tutta la debolezza e da tutta la fragilità dell’uomo, quel corpo che praticamente sta agli inferi.Se c’è pittore che ha saputo cantare la presenza di un Cristo agli inferi, credo sia stato soltanto Congdon. Tanti altri hanno saputo cantare anche la Passione, e penso, per esempio, a Rouault. Ma in Congdon c’è il Cristo che, nella kenosis, raggiunge gli inferi. È davvero il Cristo del XX secolo, quello che hanno percepito in maniera profetica un Silvano dell’Athos o, in una forma non sempre evidente, la grande, piccola Teresa del Bambino Gesù: Cristo alla tavola dei peccatori, Cristo nelle profondità degli inferi. Dramma dell’uomo per il male che lo abita e lo invade anche per la potenza del peccato.Congdon ha un senso molto cattolico del peccato e della colpa. Egli percepisce profondità dell’uomo refrattarie a ogni evangelizzazione, alla presenza di Dio. Zone davvero – permettetemi di dire – atee, non nel senso militante ma nel senso di uno spazio senza Dio. Dramma della morte, che è disfacimento del corpo.È significativo che non ci sia mai il volto nei Crocefissi di Congdon. Egli davvero percepisce il Cristo a-prosopon, senza volto, come viene detto dalla Bibbia dei Settanta nella traduzione di Isaia 53: «L’abbiamo visto senza volto né bellezza». Il capo è sempre reclinato; c’è la testa reclinata e mai il volto. È davvero lo schiavo, il doulos, il “senza volto”, dicevano i greci. Ma è proprio colui che è il vero oggetto di theoria per i credenti – cioè oggetto di contemplazione. Purtroppo non è mai stato messo in evidenza che l’unica volta in cui i vangeli impiegano questo termine, theoria, è per dire lo “spettacolo” di Gesù in croce. È Luca che scrive: «tutta la folla che era accorsa a vedere quello spettacolo». Ma, traducendo theona con “spettacolo”, non si capisce nulla. Piuttosto si dovrebbe dire: “Era accorsa a vedere quella teoria”. Infatti, che cosa significava la parolatheoria verso la fine del I secolo? Theoria, a partire da Platone, era la contemplazione che portava all’unità, all’Uno. E dunque, per Congdon, la vera contemplazione è quella del Crocefisso, è il tenere gli sguardi fissi su di Lui. Viene da fare un paragone con il Crocefisso dell’altare di Colmar di Griinewald. Qui c’è un corpo senza dubbio in disfacimento. C’è una carne piena di spine e di flagelli – impressionante. Però si è condotti alla contemplazione da quel dito spropositato di Giovanni il Battista, un dito che è quasi lungo come il braccio.Invece, in Congdon non c’è nessun astante, davvero il Crocefisso cattura gli sguardi, li chiama tutti su di sé. Non ci sono comprimari colti dal dolore, è solo chi contempla che viene attirato verso il Crocefisso. Una delle cose che mi sono sempre chiesto è come mai nel Nuovo Testamento – soprattutto nel Quarto Vangelo e poi nell’Apocalisse – a un certo punto si arriva a pensare che il trafitto attirasse gli sguardi. Spettacolo terribile!Ecco, Congdon è riuscito a compiere questo. I suoi Crocefissi sono sempre dei colpi di spatola e, man mano, procedono a una sintesi che ne diminuisce il numero, fino agli ultimi in cui basta un solo colpo di spatola e di cenere, quasi una colata di lava, per indicare il Crocefisso. Io sono convinto che davvero in Congdon vi sia una Scientia Crucis. Quello che dice Paolo (“Io tra di voi ho soltanto voluto conoscere Cristo e Cristo crocefisso”) sembra che sia l’intenzione di Congdon. Il numero di Crocefissi che egli ha eseguito è enorme rispetto all’insieme dell’opera, sono quasi duecento. Il che mostra questa volontà di tornare a Cristo e di mostrare il Cristo crocefisso come la scelta di Dio. Dio ha scelto ciò che non è (tà mi onta) per mettere tra parentesi tutto ciò che è (tà onta). La forma di Dio, la morphè theou, è diventata davvero la forma dello schiavo, la forma di colui che mostra semplicemente il suo corpo, corpo destinato alla morte, corpo che porta i segni del peccato. E, proprio per questo, credo che Congdon avesse la consapevolezza, come dice nei suoi diari, di voler narrare non la croce ma il corpo sempre più ridotto a quel nulla da cui può germinare la resurrezione. “Il dipingere – diceva – è rendere presente il futuro. Incomincia a dipingere nell’istante che vedi il futuro. La notte è l’istante in cui si comincia a vedere l’immagine “.Ecco, qui è proprio difficile, io credo, definire il Mysterium Crucis di Congdon. Massimo Cacciari, con molta audacia, dice che Congdon ha tentato davvero di inscrivere il Vivente, il Risorto, in Colui che è crocefisso. Non so se ci sia riuscito. Certamente, non è mai mancata in lui né la speranza né la fede, e questo forse pochi riescono a capirlo. La sua grande coscienza di ciò che significa la morte, la debolezza, l’umanità, il peccato, gli permetteva di non diventare mai un pittore disperato. Ma, nello stesso tempo, non è facile cogliere questa resurrezione. Ci sono un Crocefisso e un sepolcro che sono estremamente capaci di richiamarsi l’un l’altro. Il Crocefisso, come sempre, è ridotto semplicemente a una spatolata.Ma anche all’interno del sepolcro, la deposizione di questo corpo non è molto differente, e in entrambi c’è come un cratere di luce, di oro, ma niente di più – un abbozzo. Quindi, la morte non è morte per sempre, ma Congdon raffigura la morte; il peccato non è peccato per sempre, ma Congdon ne sente la potenza devastatrice.Ecco, in questo Congdon davvero mostra di essere andato verso le profondità dell’uomo nel “secolo breve”. Sono la carne dell’uomo, il suo corpo, la sua psiche che, nel Crocefisso, sono approdati agli inferi. E Congdon scende agli inferi sperando che la tenebra diventi luce. Sapendo che il peccato viene narrato, soprattutto, dalla schiavitù dell’uomo sulla croce. C’è un’espressione di Paolo, che a mio avviso mai è stata capita bene da tutta la tradizione cristiana, in cui egli parla dell’uomo che è schiavo. Ma quando Paolo dice che l’uomo è schiavo, dice che è schiavo del peccato e che anche Gesù ha assunto un corpo con la schiavitù di peccato (Filippesi 2). Congdon sembra percepire tutto questo. Thomas Merton lo aveva compreso molto bene quando scrisse che le sue sono teofanie che impongono il silenzio.Ma sono teofanie agli inferi, e in questo, secondo me, è la sua grandezza anche per noi. Massimo il Confessore, uno dei più grandi contemplativi dell’Oriente, in alcune espressioni, in alcuni aforismi estremamente difficili da tradurre e da comprendere, arriva a dire: “Colui che conosce il mistero del Crocefisso è iniziato a tutti i misteri e al mistero della vita”. Ecco, Congdon è un iniziato al mistero del Crocefisso, e perciò iniziato a tutti i misteri. Una volta egli scrisse: «Si crea nel dolore della propria non santità». Bene, quando un uomo arriva a dire di non essere santo e di conoscere i propri peccati, quest’uomo, all’interno della tradizione cristiana vera, autentica, è un uomo iniziato alla santità. E io son convinto che Congdon sia davvero un testimone che ha tenuto fisso lo sguardo sul Crocefisso e che ha tentato un cammino di santità nel secolo scorso.Quanto all’ultima fase della pittura di Congdon – quella della Bassa, della nebbia, del monastero, le cui finestre compaiono nei suoi dipinti – la cosa che più mi sconvolge e che sembra sempre presente, è il silenzio. Perciò, mi sembra che ci sia una continuità: dopo il Crocefisso, questa stagione del silenzio. D’altronde Congdon ha anche scritto: “Cosa ti rivela la nebbia? Rivela l’uomo, l’uomo che soffre, non c’è niente di ciò che Dio ha fatto che non sia strutturato sull’uomo, anche il cielo. Il mio occhio perfora trapassa il nulla della nebbia come il cielo e lo empie della mia vita”. Però, quando si vedono tutti questi paesaggi, queste nebbie, questa terra, certamente si vedono i solchi, si vedono le arature, si vedono le marcite, certamente si vede che tra cielo e terra non c’è più un confine: ma soprattutto c’è il silenzio, un grande silenzio.Permettetemi di fare un paragone con un alto autore che da sempre ho amato e che per varie ragioni ho conosciuto molto presto: Mark Rothko. Se c’è una cosa che unisce Rothko e Congdon, è il grande silenzio che regna nei loro quadri. Il periodo dei Crocefissi di Congdon può anche essere più facile, più eloquente, all’interno di una esposizione; o anche la fase figurativa degli anni di Assisi, con dipinti come Getsemani, Ego Sum, Annunciazione, Natività. Ma la sua ultima pittura, anche se non è liturgica, resta religiosa ed è un grande servizio alla liturgia, così come ha fatto Rothko con la Cappella di Houston, secondo me la più grande creazione pittorica per una cappella ecumenica. In Congdon abbiamo questi paesaggi e queste nebbie, o quei notturni del monastero, con le finestre chiuse che sono un grande silenzio – ma un silenzio aperto.Questo silenzio narrato è in continuità con il Crocefisso, sempre se si guarda soprattutto alla trama dell’uomo del XX secolo, di cui ormai possiamo conoscere bene la grammatica: un secolo in cui la ricerca di Dio finisce sempre in un grande silenzio. Prima, con ogni probabilità, la ricerca di Dio finiva nella rivolta. Sembra strano, ma soprattutto nella seconda metà del XX secolo c’è stato un grande silenzio: non avevamo molte parole più da dire, dopo le grandi esperienze del male assoluto che la comunità mondiale ha sperimentato, neppure più la disperazione. Io temo che in un prossimo futuro ci sia un ritorno alla disperazione.E quindi c’è stato un silenzio: un silenzio e un “amen”. Non un amen apologetico, non un amen trionfale, ma un “sì” a una ricerca di Dio faticosa, ma in cui si arriva anche a dire che, pur nella fragilità dell’uomo, c’è la possibilità di quella che è, ancora una volta, vita e luce.Enzo Bianchi Priore di Bose
Trascrizione non rivista dall’autore della conferenza tenuta al Museo Diocesano di Milano il 21 marzo 2015, in occasione della mostra “William Congdon. Analogia dell’icona”
http://combonianum.org/2015/03/31/contemplazione-del-crocifisso/ 

Ecco allora Dio, l’Amante nella passione di Gesù. Egli soffre per amore perché soffre per il male che noi ci facciamo: il male inflitto a Gesù vittima, infatti, è l’icona dei mali, delle sofferenze che infliggiamo agli altri, della mancanza di amore con cui li facciamo soffrire. E si faccia attenzione: «non siamo noi che abbiamo amato Dio, ma è lui che ha amato noi» (1Gv 4,10); dalla croce di suo Figlio Dio ci chiede di «credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), ci attira tutti alla croce perché «vuole che tutti siamo salvati» (cf. 1Tm 2,4).
Gv 18,1-19,37
Liturgia della Croce, Omelia di Enzo Bianchi.

1942

Abbiamo ascoltato il racconto della passione di Gesù, una passione gloriosa secondo il vangelo di Giovanni (Gv 18,1-19,37), perché in essa, a differenza di quella narrata dai sinottici, riusciamo a vedere al di là di ciò che è avvenuto mondanamente, riusciamo a vedere ciò che Dio ha operato, la sua gloria quale kavod, peso, splendore, potenza che si impone. È una gloria non analogica a quella che noi uomini immaginiamo, progettiamo o proiettiamo su Dio e su Gesù Cristo.Nel racconto della passione secondo Giovanni – lo sappiamo bene – Gesù manifesta più ancora che nella sua vita e nelle sue azioni, più ancora che nei segni da lui operati, l’«egó eimí», l’«io sono» (Gv 18,5.6.8) proprio del Signore vivente. Sicché, quando Pilato lo flagella, Gesù appare come l’uomo per eccellenza («Ecce homo!»: Gv 19,5), l’uomo «coronato di gloria e splendore» del Salmo 8 (v. 6); quando i soldati lo disprezzano e lo deridono, appare come colui che li attira e li fa inginocchiare davanti a sé; quando sta di fronte a Pilato per essere condannato, appare come il giudice escatologico che siede sul trono del giudizio nel Litòstroto-Gabbatà (cf. Gv 19,13); quando sta in croce, appare come collocato su un trono da cui regna; quando viene scritta la sua condanna, in verità è confessato con un titolo, «Gesù il Nazareno, il re dei giudei» (Gv 19,19), che esprime la sua identità messianica autentica. E al vertice di tutto questo, quando Gesù spira, muore, secondo il quarto vangelo «consegna lo Spirito» (Gv 19,30), effonde cioè lo Spirito santo sull’intera creazione. La passione di sofferenza e di morte diventa gloria della passione, gloria dell’amare, dell’amore di Gesù «fino alla fine» (eis télos: Gv 13,1).Ma nel leggere la passione secondo Giovanni noi ci interroghiamo quest’anno sulla presenza di Dio, su Dio quale protagonista dell’evento della passione. Perché proprio nel quarto vangelo si dice con chiarezza che la passione è la consegna da parte del Padre di suo Figlio Gesù: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, l’unigenito» (Gv 3,16). Anche Paolo proclama: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato (verbo paradídomi) per tutti noi» (Rm 8,32); e lo stesso Giovanni nella sua Prima lettera scrive: «Dio ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). Sì, nelle Scritture del Nuovo Testamento e anche nel quarto canto del Servo di Isaia che abbiamo ascoltato (cf. Is 52,13-53,12) vi sono espressioni che dicono la consegna del Figlio da parte del Padre a noi uomini, nelle mani di noi peccatori. Dunque nella passione il Padre consegna il Figlio, Gesù è il consegnato e Gesù consegna poi a sua volta lo Spirito al Padre.Eppure a me sembra che una tale lettura non sveli davvero Dio, non lo spieghi, non sia fedele all’exeghésato (Gv 1,18) che Giovanni proclama come azione di Gesù che narra Dio. Questo terreno non è facile, e dobbiamo avere molto timore nell’incamminarci su di esso per cercare di entrare nel mistero e poterlo ridire con parole nostre. Ciononostante è nostro dovere farlo, perché altrimenti si potrebbe essere indotti da tali espressioni a leggere un Dio che ha bisogno del sacrificio del Figlio e, di conseguenza, lo ordina. Anche Joseph Ratzinger ha scritto: «Ci si allontana con orrore da un Dio che reclama la morte del Figlio. Quanto questa immagine è diffusa, tanto è falsa». Ora, resta vero che nel secondo millennio così si è compresa la passione e la croce; che Lutero ha parlato dell’abbandono di Gesù da parte del Padre; che Calvino diceva che il Padre ha mandato Gesù all’inferno, dove c’è condanna e dannazione; che la predicazione della controriforma cattolica indugiava sul Padre il quale, vedendo Gesù patire e morire, si sentiva soddisfatto perché la giustizia era ristabilita. Sì, questi sono secoli in cui – lo dobbiamo dire senza giudicare – su Dio sono state riversate immagini terribili, che sono all’origine di tante negazioni di Dio da parte degli uomini.Ebbene, senza fare finta che ciò non sia avvenuto, non fermiamoci solo sulla passione di Gesù di Nazaret ma poniamoci la domanda: «Qual è il protagonismo di Dio, la sua azione nella passione di Gesù?». Il Padre, infatti, è presente più che mai nella passione, anzi è narrato più che in altre ore della vita di Gesù. Gesù in croce è più che mai «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15). È sulla croce che egli grida più che mai: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Origene ha potuto affermare: «È sulla croce che Gesù è stato rassomigliante in modo pieno al Padre che ci ama fino all’estremo, eis télos». L’origine dell’Amore, l’Amante, va adorato nudo sulla croce, per parafrasare le parole di Guigo I il Certosino. Il Padre non ha consegnato suo Figlio per essere soddisfatto, ma ha mostrato attraverso suo Figlio che lui voleva, vuole la comunione con gli uomini, che ama la sua vigna all’estremo, per ricorrere all’immagine usata da Gesù in una parabola (cf. Mc 12,1-12 e par.; Is 5,1-7). «Manderò mio Figlio: avranno rispetto almeno di lui?» (cf. Mc 12,6 e par.). Ecco l’amore del Padre per la vigna, per la sua comunità, per l’umanità. Dio è quel Padre che ama e aspetta sempre il figlio che si è allontanato ed è perduto (cf. Lc 15,11-32). Tante volte, come il padre della parabola, Dio è uscito per pregare noi di entrare nel banchetto di vita (cf. Lc 15,28.31-32): è lui che prega noi, mentre pensiamo sempre di essere noi a pregare lui… L’Amante, il Padre, è colui che dice: «Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ai nemici, Israele? … Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo brucia di compassione» (Os 11,8).Questo Padre avrebbe dunque abbandonato suo Figlio? L’avrebbe abbandonato sulla croce? Lui che ha seguito i deportati a Babilonia, accompagnandoli con la sua Shekinah (cf. Ez 10,18-22; 11,22-25), dov’era nella morte di Gesù? Era in lui, era accanto a lui, e Gesù lo raccontava fedelmente! Nel Credo diciamo di Gesù che «passus est sub Pontio Pilato» ma potremmo dire, con i Concili della chiesa antica: «Deus passus est». «Il Padre non è impassibile, ma soffre la passione dell’amore» («Pater ipse … patitur»: Omelie su Ezechiele 6,6; PG 13,714-715), scriveva ancora Origene. Dio ha sofferto, ha sofferto come si soffre nell’amore. Non c’è solo il dolore fisico o solo quello psicologico, ma c’è un dolore, una sofferenza più profonda che ognuno di noi conosce come ferita che brucia: soffrire per amore. Anzi, non c’è amore senza sofferenza, questo noi uomini lo sappiamo bene.Ecco allora Dio, l’Amante nella passione di Gesù. Egli soffre per amore perché soffre per il male che noi ci facciamo: il male inflitto a Gesù vittima, infatti, è l’icona dei mali, delle sofferenze che infliggiamo agli altri, della mancanza di amore con cui li facciamo soffrire. E si faccia attenzione: «non siamo noi che abbiamo amato Dio, ma è lui che ha amato noi» (1Gv 4,10); dalla croce di suo Figlio Dio ci chiede di «credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), ci attira tutti alla croce perché «vuole che tutti siamo salvati» (cf. 1Tm 2,4). Dio ci aspetta e ci ama mentre noi siamo suoi nemici, Dio ci perdona mentre noi crocifiggiamo suo Figlio e dunque rifiutiamo lui, uccidiamo lui, il Padre, l’Amante, l’origine dell’Amore (cf. Rm 5,6-11). Gesù narra così Dio, l’Amante, conformandosi in tutto al pensare di Dio, facendo sempre la sua volontà, fino all’estremo. Ecco dunque sulla croce non un Dio soddisfatto della morte del Figlio, non un Dio che vuole il sacrificio del Figlio, ma un Dio che mostra come il sacrificio, il dare la vita per gli altri è presente in sé come esito del suo essere l’Amante, colui che ama da se stesso e si offre all’altro, all’amato. Non c’è amante che non porti la croce inscritta nella sua carne, non posso non pensare qui alla porta di Mitoraj a Roma, dove quel Cristo amante ha la croce che gli attravera le carni. Dolore e sofferenza in sé non hanno nessuna capacità di redenzione: solo l’amore, che richiede sempre un «soffrire per amore», salva.Nell’ultima cena Gesù inginocchiato che lava i piedi ai discepoli narra un Dio inginocchiato davanti a noi, che ci lava i piedi per togliere la nostra sporcizia. Sulla croce, quando Gesù vive la sua passione e morte, Dio ci racconta in Gesù il suo amore e la sua sofferenza per la nostra lontananza. Sempre Dio ci attira a sé, ci prega di rientrare nella sua comunione, perché egli ci ama e non può cessare di amarci.
Bose, 6 aprile 2012 Omelia di ENZO BIANCHI

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