Chi di noi non vorrebbe avere la possibilità di ricominciare? Chi non ha qualcosa che vorrebbe poter rifare dal principio? Magari una parola sfuggita. O una relazione, la scelta del liceo o dell’università, forse addirittura il matrimonio.
Per questo, tutti, chi più chi meno, portiamo dentro un profondo senso di colpa, segreto e spesso inconfessabile. Come una parete laggiù, nel fondo del nostro intimo, dove sbattiamo ogni volta che qualcosa ci si sbriciola tra le mani.
Di norma accusiamo gli altri, ma è per non accusare noi stessi. Ma il senso di colpa che la cultura contemporanea vorrebbe estirpare - l’arrembante teoria di genere ne è un esempio – non è un male, anzi: “Il senso di colpa, che rompe una falsa serenità di coscienza e che può esser definito come una protesta della coscienza contro l’esistenza soddisfatta di sé, è altrettanto necessario per l’uomo quanto il dolore fisico, quale sintomo che permette di riconoscere i disturbi alle normali funzioni dell’organismo. Chi non è più capace di percepire la colpa è spiritualmente ammalato” (Card. Ratzinger).
Per questo, se oggi percepite una fitta nell’anima che vi inquieta, non temete. E’ il primo grido nel deserto, quello della coscienza. Ma ha bisogno di non essere lasciato solo, perché è allora che, fagocitato dall’orgoglio, si trasforma in un feroce assassino.
Forse lo abbiamo sperimentato quando, assaliti dal senso di colpa, per non morirne ci siamo chiusi accarezzando voluttuosamente la nostra frustrazione, decidendo così di essere i più sfortunati al mondo.
E abbiamo finito con il fare di questo la nostra identità ben riconoscibile, una sorta di vendetta contro il mondo crudele che non ci capisce. Quanti non riescono ad avere relazioni stabili e non possono decidere di sposarsi. Quanti saltano da un amico all’altro, da un’attività a un’altra, insoddisfatti e sfiduciati. Per difendersi, hanno lentamente anestetizzato la coscienza, precipitando infine in crisi che si trasformano in depressioni tragiche, che spengono la vita.
Per questo la Chiesa, che conosce bene il cuore dell’uomo, attraverso la liturgia di questa II domenica di Avvento ci prende per mano e ci conduce al fondo del nostro intimo, dove, soli con noi stessi, ci sentiamo in esilio.
Ed è solo qui, nella verità, che possiamo ascoltare la Parola come un Vangelo, una Buona Notizia. “Esilio”, in ebraico “galuth”, ha la sua radice etimologica in “glh”, che significa svelare, rivelare, apparire.
L’esperienza spirituale, cultuale e culturale del popolo ebraico si fonda sulla terra di Israele. Scrutate i salmi, ascoltate i profeti, abbeveratevi alle stesse beatitudini di Gesù, sentirete risuonare la parola terra come una struggente melodia.
Essa, infatti, è l’unico frammento del Paradiso perduto che Dio ha donato a un popolo scelto come una primizia. La terra significa l’approdo sicuro di ogni nostalgia, la possibilità di ritornare al “principio”, alla pace e alla comunione perfetta con Dio.
La terra che Dio ha donato al popolo come esito della Pasqua, è il luogo oltre ogni schiavitù; è il suolo dove camminare liberi, la risposta ad ogni senso di colpa. Per questo, ogni terra che non sia quella promessa, per un ebreo è terra d’esilio. E il Talmud insegna che in ogni suo esilio, il popolo è accompagnato dalla Shekhinàh, la presenza di Dio.
“E i qabbalisti concepiranno questo esilio divino come una (quasi eretica per il monoteismo ebraico) separazione di Dio da se stesso: l’aspetto femminile della divinità segue il suo popolo nell’esilio, in attesa e in mistica ricerca del tiqqùn, la riunificazione riparatrice, che sarà anche la fine dell’esilio, per il popolo e per Dio” (AAVV, “L’ombra lunga dell’esilio”).
Come non pensare all’Avvento che stiamo vivendo, all’attesa del Signore che compirà il tiqqùn che tutti desideriamo nel profondo? E’ vero, siamo in esilio lontani dal Signore, lo scriveva già San Paolo. Non possiamo essere felici, ma la presenza di Dio non ci ha mai lasciato; essa vibra in noi attraverso la nostra coscienza!
Non sembrano Babilonia le nostre case, non ci viviamo in esilio con le nostre famiglie? Vorremmo amare, donarci, ma non possiamo! Vorremmo resettare quei momenti in cui abbiamo offeso, tradito, mentito, schiacciare il pulsante di riavvolgimento del film di quegli istanti terribili della nostra vita. Ma non possiamo! Siamo lontani dalla nostra terra, da Gerusalemme, dal tempio, da Dio!
Per questo non possiamo perdonare, e tanti divorziano. Che cosa credete, da dove viene questo tsunami relativista che vorrebbe annegare nell’indifferenziazione uomo e donna? Dall’incapacità di perdonare l’altro così com’è. Per questo il professor Veronesi si spinge ad affermare che una relazione omosessuale è migliore: toglie il problema della diversità alla radice! Infilandosi in una menzogna più grande, perché, comunque, l’altro è diverso da me, e infatti anche gli omosessuali si separano, eccome.
Ma in questo esilio nostro e dell’umanità mai così lontana dal Paradiso, erompe un “grido”: è Giovanni Battista, la voce della Chiesa che “grida nel deserto” dove non c’è vita! Dove si scivola sui giorni cercando qualcosa per sfamarsi. Grida per “con-solarci”, per farsi fratello di tutti noi “soli” e impauriti.
Eccolo Giovanni, eccolo parlarci negli apostoli che si fanno tutto a tutti, “vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, cibarsi di locuste e miele selvatico”. E’ profezia del Signore, che ha rivestito la nostra debolezza, cingendosi i fianchi per servirci e lavarci i piedi.
E’ lui stesso il “principio” della Buona Notizia, la soglia della terra dischiusa dinanzi a noi. Accogliendo la sua predicazione possiamo entrare nel nuovo inizio che abbiamo smesso di sperare, e ricominciare. Per essere felici, non devono cambiare le situazioni, non si deve tornare indietro, ma deve essere rinnovato il cuore.
Giovanni è la Chiesa che, come il suo Signore di cui è corpo, si fa peccato per perdonare ogni nostro peccato. E’ questo il Vangelo, il nuovo inizio offerto a ciascun uomo: il perdono dei peccati.
Solo Dio può farlo. E’ inutile esigerlo dagli uomini, essi sono solo capaci di avvertire il grido della coscienza che li desta all’ascolto dell’unica notizia che può cambiare davvero il cuore. L’uomo non può perdonare come Dio, estirpando cioè il peccato dal cuore per deporvi la vita divina ed eterna.
Giovanni grida oggi nelle nostre assemblee per annunciarci che è finita la nostra schiavitù. Possiamo tornare dall’esilio, perché “dopo di me viene uno che è più forte di me, al quale io non sono degno di chinarmi per sciogliere i sandali”. Ecco il Signore che viene nell’annuncio della Chiesa, è lo Sposo legittimo di ciascuno di noi.
E’ più forte di ogni peccato, perché tutti li ha cancellati sul legno della sua Croce. E viene per “battezzarci con lo Spirito Santo”, il soffio di vita che è l’aria pura della terra promessa, l’ossigeno che dà vita ai figli del Paradiso.
Accogliamolo insieme alla Chiesa, che ci insegna “preparare la strada del Signore”: ciò significa, concretamente, camminare nella conversione, dove imparare, per Grazia, a cambiare mentalità, abbandonando quella del mondo. Accettando le umiliazioni e i fatti che “raddrizzano” i sentieri tortuosi dell’orgoglio.
“Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa”: è già alle nostre porte, rivestito di “pazienza” perché “non vuole che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi”. Pentiamoci allora, e immergiamoci nel Giordano che la Chiesa ci presenta, ormai santificato dal corpo del Signore. In Lui possiamo rinascere oggi per essere liberi, non più in esilio ma ormai cittadini della terra che ci appartiene come coeredi di Cristo, “senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace”.
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